Home Sociologia
Home Sociologia
Pagina 1 di 2
La funzione politica dello stereotipo

La mente umana, rispondendo alla quasi innata esigenza di interpretare la complessa realtà che lo circonda, si contraddistingue per la necessità di selezionare alcuni aspetti di questa, classificando per categorie le innumerevoli informazioni e percezioni di cui dispone. Tale dinamica rappresenta, indubbiamente, la spina dorsale della conoscenza, dell’esperienza e di quelli che vengono usualmente definiti processi di apprendimento e socializzazione. Nella stragrande maggioranza delle situazioni l’essere umano agisce solo in conseguenza di un processo di semplificazione della realtà.

In questo quadro, gli stereotipi rappresentano i più significativi e frequenti processi di categorizzazione della realtà sociale. Cercando una sintesi tra le innumerevoli definizioni di questo concetto è possibile affermare che lo stereotipo si configura come una credenza socialmente condivisa e culturalmente trasmessa, articolata in un insieme di caratteristiche attribuite ad un gruppo/classe di oggetti e formulate secondo criteri non logici (Richter, 1956); il contenuto, eccessivamente semplificatorio, risulta non corrispondente alla realtà, in sostanza, esso và considerato un’astratta generalizzazione pressoché priva di una concreta ratio. Gli stereotipi sono osservabili e studiabili, sia nella prospettiva psicologico/individuale, sia nella prospettiva più propriamente sociologica delle rappresentazioni collettive. Essi, inoltre, si caratterizzano per il fatto di avere una propria dimensione statica, rappresentata dall’intrinseca funzione di ipostatizzare un’idea o una concezione, ed un’altrettanto rilevante dimensione dinamica, riscontrabile nell’estrema facilità di diffusione, ricezione e adattabilità; per usare una metafora, lo stereotipo, così come il pregiudizio, che ne rappresenta una sottoclasse con connotazioni negative, sembrano viaggiare e diffondersi alla stessa velocità di un dato che circola sulla rete internet, radicandosi, nel tempo, molto più tenacemente di quest’ultimo. Allo stesso tempo, è necessario sottolineare il fatto che gli stereotipi non rappresentano le uniche modalità di mediazione della “ingannevole” realtà empirica. A ben vedere, essi possono essere considerati solamente come una tra le possibili modalità di interpretazione della realtà e, più specificamente, compresi nella categoria delle rappresentazioni sociali della cosiddetta opinione pubblica:

“Il processo di categorizzazione di per sé è un meccanismo mentale naturale, che assimila alla categoria quanti più oggetti possibili in rapporto alla necessità dell’azione […]. Esso porta inevitabilmente alla formazione di giudizi e atteggiamenti aprioristici. Tuttavia il grado di attendibilità è determinato dalla quantità e qualità delle esperienze con gli oggetti che formano la categoria, e dalla coerenza logica della categorizzazione.” (Delle Donne, 1998)

Scienza, conoscenza ed opinione pubblica possono correttamente rappresentare, a livello teorico e ai fini di questo contributo, i tre livelli essenziali dei processi collettivi di categorizzazione e semplificazione della realtà. Partendo dalla considerazione di questi livelli e dal loro rapporto è possibile rilevare l’odierna funzione politica degli stereotipi, riferendoci alla stragrande maggioranza dei fenomeni cui le classi dirigenti si trovano a far fronte in termini di azione e spiegazione. Stereotipi che, lungi dall’essere poco considerati, sembrano configurarsi, sempre più, come misura dell’opportunità e criterio dell’agire politico. Il necessario ed indispensabile ruolo di mediazione della politica, non solo tra gli interessi, di volta in volta, in gioco, ma anche e soprattutto nell’indispensabile e produttiva dialettica tra sapere dottrinale e responsabilità politica sembra venire progressivamente a mancare, favorendo l’appiattimento dell’interpretazione e dell’iniziativa a “logiche” più facilmente connesse al senso comune, quando non del tutto populiste. Certamente tale prospettiva ha molto a che spartire con quello che in sociologia politica viene definito approccio normativo allo studio dei sistemi politici. Approccio che non ha mai cessato di considerare una dimensione morale delle relazioni di potere, a scapito di una quanto mai odierna e virtuale rincorsa alla governabilità, cercando di indicare il viatico di un agire politico che “possa essere riconosciuto come buono, giusto, legittimo”, (Petrucciani, 2003).


Scienza

Per molti secoli la scienza ha viaggiato sul binario di una epistemologia stereotipata. La presunzione di toccare la verità con mano, attraverso l’ausilio di una teoria certa, ha rappresentato l’illusione dell’oggettività per gran parte della storia del metodo scientifico, fino al superamento del paradigma positivista. Non a caso, Weber (1864-1920) sosteneva che il tipo ideale altro non è che uno stereotipo scientifico che rappresenta un complesso intrecciarsi di concause e fattori, in una situazione storica e sociale in cui non è facile isolare un fattore causale da un altro, la genesi di un processo da quella di altri contemporanei eventi. Ciò non toglie che una, così espressa (passatemi il termine), epistemologia stereotipata nulla ha a che vedere con lo stereotipo in senso stretto, nella misura in cui il metodo e la logica garantiscono, ed hanno sempre garantito, importanti acquisizioni scientifiche, tecniche e, più semplicemente, di conoscenza. Tale processo di categorizzazione della realtà sembra configurarsi attendibile in virtù “della quantità e qualità delle esperienze” scientifiche. In più, la raggiunta consapevolezza della possibile pluralità di approcci teorici insieme all’acquisizione della complessità, in quanto multidimensionalità delle cause, che scaturisce da qualsiasi voglia realtà fenomenica, hanno rappresentato passaggi fondamentali nella storia del pensiero metodologico, contribuendo a desacralizzare e a socializzare le stesse comunità scientifiche. Questa dinamica vale, a maggior ragione, per quelle discipline che hanno a che fare con i fenomeni delle società post-industriali, per loro natura complesse ed ibride.
Abbiamo sottolineato come tale sviluppo abbia indirizzato il pensiero scientifico nella considerazione della causazione di un fenomeno/oggetto di studio in virtù delle molteplici variabili che possono intervenire e ancor di più, alla luce della pluralità di prospettive, ognuna delle quali, funzionale all’indagine di una particolare sfumatura dell’oggetto/fenomeno. Tali acquisizioni, qui rapidamente descritte, hanno considerevolmente dilatato i confini e le possibilità della ricerca, riducendo i margini di errore ed estendendo la libertà dell’agire scientifico, svincolandolo, soprattutto per quanto riguarda le discipline che studiano la società, dagli orientamenti politici e storicamente prevalenti.


Conoscenza

A differenza della scienza che, abbiamo intuito, si configura come un privilegiato processo di categorizzazione della realtà, il cui esercizio è disponibile ad un numero limitato di persone, la conoscenza meglio si configura come un vero e proprio bene il cui usufrutto è a disposizione degli individui e della collettività per il perseguimento degli interessi generali. Essa, in quanto bene pubblico, assume i connotati di una libera opportunità il cui utilizzo risulta doveroso, soprattutto, da parte di chi detiene la responsabilità pubblica di gestire la complessità dei fenomeni odierni, siano essi di natura economica, sociale o etica. Da un lato, dunque, la conoscenza rappresenta un corpus acquisito, dall’altro essa stessa dovrebbe sincronicamente rappresentare una specifica modalità di esercizio dinamico, un Denkstill (stile di pensiero), da parte di chi, ricoprendo ruoli di rilevanza pubblica, a vario titolo, ne ha la facoltà e l’opportunità:
“Lo stile di pensiero è un modo orientato di percepire, con la relativa elaborazione concettuale e fattuale dell’oggetto da percepire. […] Esso è caratterizzato da una serie di contrassegni comuni ai problemi che interessano un collettivo di pensiero, ai giudizi che esso considera evidenti, ai metodi che esso applica come strumenti conoscitivi”. (Fleck, 1935)
L’interpretazione di una realtà estremamente complessa e mutevole, quale è quella delle odierne società, alla ricerca di un equilibrio tra globalizzazione e localismo, tra il libero mercato ed il mantenimento dei diritti e delle tutele tipiche del welfare state, può essere costruita soltanto attraverso un maggiore peso attribuito alla dialettica con la dottrina ed alla valutazione dei saperi acquisiti, ancor prima del complesso dibattito democratico che, di volta in volta, prende forma sui mass-media e nelle istituzioni preposte. Il potere politico, in questa suggestione concentrica dei livelli di categorizzazione della realtà, si pone esattamente a livello intermedio, nella sua funzione alta di mediazione e decisione, non solo tra i gruppi di pressione democraticamente coinvolti, ma anche e soprattutto, tra conoscenza, saperi acquisiti ed immaginario collettivo. È questo il contesto in cui è possibile effettuare la “misura” morale dell’agire politico, nella sua imprescindibile opportunità e funzione di far proprio e veicolare, soprattutto attraverso le decisioni, un sapere che da esoterico ha la possibilità di trasformarsi in essoterico, diminuendo la propensione stereotipante dell’immaginario collettivo.




    1 Successiva
ARTICOLI AUTORI LIBRI DOSSIER INTERVISTE TESI GLOSSARIO PROFESSIONI LINK CATEGORIE NEWS Home

Skype Me™! Tesionline Srl P.IVA 01096380116   |   Pubblicità   |   Privacy