Secondo di lei il concetto di “razza” è ancora adatto per denotare una sempre più ampia forma di diversità? Perché?

Avv. Mario Pavone La Corte di Cassazione ha affermato che si definisce razzismo "ogni complesso di manifestazioni e atteggiamenti d'intolleranza, originati da profondi e radicati pregiudizi sociali nei confronti di individui o gruppi appartenenti a comunità etniche e culturali diverse, assai spesso ritenute inferiori".
La Suprema Corte ha anche dichiarato che i responsabili di azioni razziste, sono "forieri di uno sperimentato allarme sociale, con serio pericolo per l'ordine pubblico quando, in tempi utili, non si apprestino le necessarie cautele".
In particolare,"chi canzona nel contesto di una manifestazione sportiva un giocatore di colore, eccitando il disprezzo e lo scherno nei suoi confronti con grida d'intolleranza, infrange le norme contro la violenza negli stadi".

Con la sentenza 9381, la Corte ha affermato che ''il riferimento, gratuito con l’affermazione sporco negro" al pigmento dell'offeso, assume significato intrinsecamente discriminatorio, solo che si rilevi che quasi ogni domenica negli stadi di questo Paese talune tifoserie apostrofano con la parola 'negro' alcun giocatore avversario''.
Inoltre, rileva ancora la Corte, a riprova della connotazione discriminatoria del termine ''non risulta adottata in occidente alternativamente l'espressione 'sporco giallo', né in Africa o in Cina 'sporco bianco'''.
Di qui ''lo spregio non occasionale dell'attributo che si rapporta - scrive il relatore Mario Rotella - nell'accezione corrente ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola 'razza', che inquina il costume fino al punto da radicare manifestazioni di gruppo''.
Alla luce di tutte queste considerazioni, l'espressione deve essere dunque inquadrata ''nella finalità 'discriminazione' piuttosto che in quella di odio'', anche se i supremi giudici ammettono che ''il confine tra i due concetti è spesso non identificabile''

La battaglia messa in atto in alcune città d’Italia - per sanzionare l'elemosina, l'accattonaggio, il lavaggio dei vetri - è stata accolta da una sorta di consenso silenzioso, come se fosse diventato all'improvviso normale interdire ai poveri città che passano per essere un patrimonio dell'umanità, mentre lo sono solo di quella parte che se lo può permettere.
Tutto ciò, nella piena soddisfazione di amministratori, turisti, albergatori, commercianti, cittadini benpensanti.
Non stupisce che si tenti di nascondere agli occhi del paese realtà e vicende di vita che non piacciono, ma che continuano a esistere.
Ma a colpire di più è stato il carosello di cittadini interpellati dalle tv, che senza imbarazzo parevano unanimi nel bollare i mendicanti come un "fastidio", quasi fosse un termine neutrale o del galateo, e non contenesse invece una sottile, perversa e inconfessabile carica di violenza. Non foss'altro perché sotto quegli stracci di vestiti ci sono persone che valgono più dei marciapiedi o del giusto decoro di una città e molto spesso sono professionisti costretti a essere sottoccupati e persino a mendicare non potendo validare il loro titolo in Italia.

I casi di xenofobia (verso immigrati, omosessuali, ecc.) si ripetono quotidianamente.
A suo avviso si tratta solo di un’esasperazione mediatica oppure siamo in presenza di un’ondata strisciante di razzismo e perché?


La violenza razzista non nasce oggi in Italia. Come nel resto dell’Europa, essa è stata, tra l’Ottocento ed il Novecento, un corollario della modernizzazione del Paese.
Negli ultimi decenni è stata alimentata dagli effetti sociali della globalizzazione, a cominciare dall’incremento dei flussi migratori e dalle conseguenze degli enormi differenziali salariali.
Con ogni probabilità, nel corso di questi ultimi venti anni è stata sottovalutata la gravità di taluni fenomeni.
Nonostante ripetuti allarmi, è stato banalizzato il diffondersi di mitologie neo-etniche e si è voluto ignorare il ritorno di ideologie razziste di chiara matrice nazifascista.
Ma oggi si rischia un salto di qualità nella misura in cui tendono a saltare i dispositivi di interdizione che hanno sin qui impedito il riaffermarsi di un senso comune razzista e di pratiche razziste di massa.
Gli avvenimenti di questi giorni, spesso amplificati e distorti dalla stampa, rischiano di riabilitare il razzismo come reazione legittima a comportamenti devianti e a minacce reali o presunte.
Ma qualora nell'immaginario collettivo il razzismo cessasse di apparire una pratica censurabile per assumere i connotati di un nuovo diritto, allora davvero varcheremmo una soglia cruciale, al di là della quale potrebbero innescarsi processi non più governabili.
Il fatto è che nel paese dell'economia sommersa il sopruso e l'ingiustizia convengono a molti.
È un paese, il nostro, che ha proceduto per lunghi mesi (prima, durante e dopo le elezioni, con voce quasi corale), a imporre la percezione di una società preda della criminalità straniera, alimentando la leggenda degli immigrati furbi, titolari di privilegi a scapito della popolazione locale, e coltivando il comune senso reazionario con uno scopo preciso: programmare una guerra tra poveri, qualora il calo dei redditi avesse gravemente acuito il disagio sociale.

Seminare oggi il falso allarme per il "persistente ed eccezionale afflusso di extracomunitari" ed annunciare il potenziamento delle "attività di contrasto" sa di subdolo e di insidioso: è la codificazione della disuguaglianza anche in materia di diritti fondamentali dell'uomo, fra cittadini e non cittadini, fra appartenenti al popolo ed estranei necessari al popolo, purché rassegnati alla condizione di paria.
Ma l'intimidazione degli stranieri irregolari già ne condiziona la vita, all'insegna della paura: varie associazioni di medici, per esempio, hanno denunciato un calo drastico, nelle strutture sanitarie, dell'utenza di immigrati bisognosi di cura.
Il nostro vissuto, i nostri studi e la nostra esperienza professionale ci hanno condotto ad analizzare i processi di diffusione del pregiudizio razzista e i meccanismi di attivazione del razzismo di massa.
Per questo destano in noi vive preoccupazioni gli avvenimenti di questi giorni - le aggressioni agli insediamenti rom, le deportazioni, i roghi degenerati in veri e propri 'pogrom' - e le gravi misure preannunciate dal governo col pretesto di rispondere alla domanda di sicurezza posta da una parte della cittadinanza.
Vorremmo che questo allarme venisse raccolto da tutti, a cominciare dalle più alte cariche dello Stato, dagli amministratori locali, dagli insegnanti e dagli operatori dell'informazione.
Non ci interessa in questa sede la polemica politica che non ci appartiene come Associazione.
Il pericolo ci appare troppo grave, tale da porre a repentaglio le fondamenta stesse della convi venza civile, come già accadde nel secolo scorso - e anche allora i rom furono tra le vittime designate della violenza razzista.

Mai come in questi giorni ci è apparso chiaro come avesse ragione Primo Levi nel paventare la possibilità che "quell'atroce passato tornasse". Vale anche la pena di ricordare Brecht:
"Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me e non c'era rimasto nessuno a protestare.
"

Cosa si potrebbe fare per diminuire la discriminazione?

Una politica intelligente, a vantaggio della sicurezza dei singoli e della collettività, sarebbe quella di analizzare le cause che portano ad una maggiore devianza tra queste persone (emarginazione sociale e culturale, assenza di politiche d'integrazione, ecc.) offrendo misure atte a governare davvero l'immigrazione e a coniugare politiche di sicurezza con quelle di accoglienza ed integrazione.
Si preferisce invece battere il tasto sulla paura della gente e sulla necessità di inasprire le leggi e le pene mentre.
Occorre ridurre i casi di espulsione solo per le persone che non hanno titolo o che hanno commesso reati legalmente comprovati; chi ha tale titolo, inoltre, deve essere trattato con rispetto e dignità.
Prevenire le condizioni di emarginazione, miseria e criminalità sarà sempre più razionale e anche più economico che reprimerne gli esiti.
Occorre, inoltre, un'integrazione tra il livello europeo, quello nazionale, quello regionale e comunale ed una legislazione uniforme sull'immigrazione nella UE.
Come ha, di recente, sostenuto l'ex Ministro Treu, in occasione del Convegno che abbiamo tenuto a Bologna all'Arcoveggio lo scorso 13 dicembre 2008, ma occorre pensare ad una offerta di lavoro europea, che consenta la immissione dei lavoratori stranieri in tutt'Europa in base al Turn Over delle varie categorie.

E' anche strano che il battage pubblicitario sulla sicurezza e sulla paura degli italiani, avvenga proprio quando il Ministero di Giustizia dimostra, statistiche alla mano, che i reati in Italia sono diminuiti e che in Europa - il nostro Paese è uno dei più sicuri dal punto di vista dell'ordine pubblico.
In ogni caso, è certo che una politica esclusivamente di pura e semplice repressione dei reati che derivano dal disagio sociale sarà una tela di Penelope, e se non ci si indirizzerà anche verso la rimozione delle cause della condizione dei rom, non servirà a molto: a meno certamente di non innalzare l'escalation fino alla deportazione collettiva, all'arresto indiscriminato, o peggio, cosa fortunatamente proibita dalle normative internazionali.
Non sembri retorica quest'ultima osservazione: rom e i sinti sono state vittime nei lager, e quella tragedia che in lingua zingara è ricordata come Porajmos, ed equivale alla shoah del popolo ebraico, pone un dovere di memoria e una responsabilità di tutti per il presente e il futuro.
Il sospetto che esista una precisa regia dietro queste campagne mediatiche è inevitabilmente forte: una regia volta a rendere più accettabili misure di legge intollerabili contro i diritti della persona.
Una regia che sposta l'attenzione degli italiani dal pesante declino economico e sociale in cui stiamo vivendo, verso un nemico ed un obbiettivo esterno: lo zingaro, l'immigrato, il diverso.
Come spesso succede nella storia, anche su questo versante come popolo italiano abbiamo la memoria corta e ci sembra lecito accettare attacchi verbali e misure contro gli zingari che consideriamo intollerabili, quanto quelle rivolte ad altri popoli od etnie.

L'odio religioso verso l'Islam e gli islamici, manifestato in occasione della chiusura della Moschea di Viale Jenner a Milano, potrebbe rompere quella pace sociale, faticosamente conseguita dall'ex Ministro Pisanu in occasione della costituzione della Consulta per l'Islam in seno al Ministero dell'Interno e generare, da una parte, ulteriori episodi di intolleranza religiosa e, dall'altro, scatenare un fenomeno da Banlieu parigine oltre che a possibili atti terroristici da parte di chi fomenta la protesta su scala internazionale.
E' un atteggiamento pericoloso e, per dirlo con le parole di Goya, "il sonno della ragione genera mostri".
Nel caso dell'immigrazione nessuno nega che siamo di fronte a un fenomeno di portata storica, nel senso che esso ha assunto proporzioni quantitative che incidono qualitativamente sulle società di partenza e di arrivo. Ma ciò avviene ormai da alcuni decenni.
Se la discussione si incentra su un singolo provvedimento, si possono enunciare verità parziali, in un senso o nell'altro.
È vero, ad esempio, che l'esigenza di sicurezza è reale ed è avvertita dalla popolazione, ma è anche vero che non si può commisurare tutto all'istanza securitaria. Indubbiamente alcune comunità di immigrati presentano specifici problemi, quanto ad integrazione e rispetto della legalità.
Ma non si possono ignorare problemi altrettanto seri, come la tutela dei diritti degli immigrati.
Intristisce, poi, che il mondo politico, per mitigare le frustrazioni di un popolo che vede riflesse nei poveri le proprie paure, predichi il federalismo e pratichi un'autosufficienza che, combinandosi alla crisi economica, ci rende tutti più sbrigativi, superficiali e spietati. Stupisce anche l'enfasi con cui tali decisioni sono cucinate e servite agli italiani dai telegiornali. Senza esitazioni, senza incertezze, senza posare lo sguardo sulla sofferenza di chi tende la mano ma evita gli sguardi dei passanti.
Forse è tempo di ricordare, che rovistare in un cassonetto o nell'immondizia non è un divertimento per nessuno. Tantomeno per un povero.

Oggi sono proprio gli orientamenti generali a correre il rischio di essere oscurati dalla logica emergenziale, mentre alcune questioni di fondo attendono di essere definite in un quadro limpido di solidarietà e legalità.
In primo luogo, il modello di integrazione che si vuole realizzare ha bisogno di parole chiare, di programmi espliciti, nei quali devono trovare un posto centrale i diritti degli immigrati, a cominciare da quelli fondamentali al lavoro, alla scuola, all'uguaglianza tra uomo e donna.
Da questo punto di vista è preoccupante il fatto che le comunità interessate, e le organizzazioni impegnate sul fronte dell'immigrazione, non vengano coinvolte nell'elaborazione delle linee di intervento del governo.
La definizione di linee di indirizzo, concordate con le rappresentanze sociali, è base essenziale di una politica che intenda perseguire la sicurezza attraverso l'integrazione, non l'integrazione attraverso la sicurezza.
Vi sono ragioni che legittimano qualche disorientamento, ed è giusto chiedere alla politica l'indicazione di un progetto fondato sull'equilibrio tra diritti e doveri, tra sicurezza e integrazione, che produca provvedimenti idonei ad affrontare i diversi profili di una questione che chiama in causa valori profondi del nostro modo d'essere e di rapportarci agli altri.
E va pure sottolineato che si va facendo altrettanto preoccupante il silenzio che è sceso in sede ministeriale sulla "Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione", varata dal Ministro Amato, che era stata costruita insieme agli immigrati suscitando tante speranze e aspettative.

Tutto questo non può che destare viva preoccupazione in chi, come l'ANIMI, favorisce il dialogo senza distinzione di razza, sesso o religione e l'integrazione sociale in Italia anche attraverso la costituzione di un Forum delle Nazionalità, in collaborazione con la Lidu Onlus e le rappre sentanze diplomatiche e consolari in Italia, che potrebbe costituire un vero e proprio parlamentino degli stranieri in Italia destinato a varare un documento da sottoporre al Governo ed al Parlamento sulle varie tematiche della immigrazione in Italia ed in Europa.

Intervista rilasciata dall'avv. Mario Pavone, presidente dell'ANIMI (Associazione Nazionale per l'Immigrazione), al settimanale Metropoli e riprodotta su sua gentile concessione.