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L'efficacia dell'aiuto allo sviluppo

In risposta al bisogno

Negli anni ’60 e ’70, come detto, si è affermata l’idea condivisa, e centrale ancora oggi, che l’allocazione delle risorse dovesse essere diretta là dove ce ne fosse maggiore bisogno: fornire, insomma, più aiuto alle popolazioni più povere e meno aiuto a quelle meno indigenti.
La selettività degli aiuti dagli anni’ 70 è andata sempre più basandosi su questo criterio, sebbene esistano evidenze, ci dice Easterly, che altri fattori abbiano continuato e continuino a determinare ancora oggi l’allocazione di un’ampia percentuale degli aiuti versati. In alte parole, intervengono spesso fattori strategici e non di giustizia o di bisogno nel determinare a chi andranno i fondi.

Le statistiche, infatti, dimostrano che la ricezione del criterio “in risposta al bisogno” nel determinare l’allocazione degli aiuti si è avuta nel 1973, ossia quando l’allora presidente della Banca Mondiale richiamò l’attenzione sul concetto di povertà assoluta, invitando i paesi più ricchi a farsi carico delle proprie responsabilità.
Dopo di allora, le percentuali degli aiuti determinate in risposta al bisogno non hanno più subito grandi variazioni. Il principale fallimento di questa mancanza di crescita nella ripartizione di fondi secondo il criterio del bisogno dopo il 1973 è l’assenza di evidenze statistiche che segnino un trend positivo con l’opportunità politica offerta dalla fine della guerra fredda. Infatti, la fine del conflitto latente tra i blocchi dell’ovest e dell’est avrebbe dovuto portare a una svalutazione delle considerazioni strategiche nell’allocazione dei fondi per lo sviluppo (gli aiuti usati come strumenti per ampliare le sfere d’influenza del proprio blocco di appartenenza), per ridare maggiore enfasi alla necessità e al bisogno del paese ricevente. Tuttavia, i dati non confermano questa ipotesi: solo gli Usa segnano un cambiamento importante alla fine della guerra fredda, allocando una maggior percentuale dei fondi in risposta al bisogno, mentre gli altri principali paesi donatori non presentano variazioni.

Ecco perché Easterly afferma che persistono altri fattori nella determinazione dell’allocazione delle risorse, fattori che non coincidono con la necessità e che trasformano spesso l’aiuto come uno strumento di politica estera. Basterebbe infatti considerare solo un dato su tutti: negli anni 2004 e 2005 l’Italia ha avuto alti numeri nella ripartizione dei fondi destinati alla cooperazione grazie alla cancellazione totale del debito dell’Iraq e di una gran parte del debito della Nigeria. Quali considerazioni hanno spinto a queste misure? Se per l’Iraq la giustificazione può sembrare legittima sotto un certo aspetto, riguardo la Nigeria perché quel paese e non altri, visto che, rispetto al bisogno, vengono prima nella classifica dell’UNDP altre venti nazioni?

In risposta alle policies

Si è detto che negli anni ’80 le policies ritenute favorevoli allo sviluppo erano quelle dirette ad aprire i mercati e a sostenere una crescita limitata, ma costante dei prezzi.
Nonostante i proclami neoliberisti, le statiche al riguardo usate da Easterly non trovano una grande relazione tra apertura commerciale del paese ricevente e allocazione delle risorse, mentre si ritrova un collegamento tra alta inflazione e aiuto (seppure essa scompaia dopo gli anni ’80).

Lo stesso Istituto per l’Assistenza allo Sviluppo (IDA) della Banca Mondiale ritiene che non vi sia mai stata una forte relazione tra allocazione dell’aiuto e liberalizzazione dei mercati. Insomma, c’è ben poca evidenza che i paesi donatori abbiano appreso qualcosa dalle conoscenze che si sono sviluppate durante gli anni ’80: ciò significa che, più o meno corrette che fossero le indicazioni verso policies mirate al libero commercio come favorevoli a promuovere lo sviluppo, i paesi donatori non hanno adeguato i loro criteri selettivi al principio delle policies del paese ricevente. Sembra allora odorare di mistificazione il discorso degli anni ’80, dietro il quale si nascondevano forse altri interessi? Ma sebbene questo è un mio ingenuo dubbio, lo stesso Easterly ci porta a farci la domanda. L’autore, infatti, si chiede: se gli aiuti non rispondono in maniera forte al bisogno e ancora meno alle policies, quali sono allora i fattori di selettività?
Proviamo a vedere con l’ultimo criterio

In risposta alle istituzioni

Negli anni ’90, come detto, tutta una ricerca si è sviluppata attorno l’importanza della qualità democratica delle istituzioni nel favorire lo sviluppo economico del paese ricevente. In un articolo dello scorso anno, l’Economist ancora sottolineava questo punto citando l’esempio del Mali e delle sue politiche democratiche capaci di ottenere forti finanziamenti dagli Usa.
Easterly si domanda allora se per caso l’allocazione delle risorse sia diventata sensibile a questa messe di studi e, quindi, si sia adeguata alle variabili istituzionali come la presenza di regimi democratici e bassi tassi di corruzione.

D’altro canto, la fine della guerra fredda dovrebbe coincidere con una maggiore attenzione verso la governance dei paesi, poiché nella retorica si è trattato dell’affermazione della democrazia sulla dittatura comunista (sebbene altri preferiscano pensare che si sia trattato dell’affermazione del capitalismo sulla pianificazione statale, confondendo democrazia e capitalismo!).

In media, ci mostra Easterly, dal 1960 al 2003 l’aiuto ha risposto positivamente alle istituzioni democratiche, sebbene non vi siano differenze significative nei trend precedenti alla guerra fredda e quelli successivi. Risultati simili si hanno anche in merito alla corruzione. Escluse Francia e Giappone che hanno segnato negli anni ’90 un risultato positivo nella risposta alle istituzioni democratiche, gli altri non si sono rivelati altrettanto attenti alla qualità democratica dei paesi nel momento di decidere come distribuire le risorse.

A guardare bene le statistiche, poi, se c’è stato un cambiamento nel comportamento delle agenzie a seguito della maggiore enfasi posta sulle istituzioni dalla ricerca scientifica, questo è stato registrato nella seconda metà degli anni ’90, per ridursi nuovamente dal 2000 al 2003. Insomma non un trend forte e costante per affermare un reale cambiamento nei criteri di allocazione delle risorse.

In altre parole, nonostante la retorica sempre più incessante in favore di una maggiore responsabilità dei governi verso la popolazione come fattore di selettività, pochi cambiamenti si sono avuti nell’allocazione delle risorse tale da favorire davvero l’accountability dei governi dei paesi riceventi. Ecco allora il perché del lavoro di molte ong nel cercare di promuovere forme di aiuto che stimolino la responsabilità dei governi (si veda per esempio ActionAid e la sua campagna a favore del DBS, ossia il Direct Budget Support, una forma di aiuto diretto alle casse dello stato ricevente non vincolato in progetti e sottoposto a parametri di accountabilty ben chiari e precisi).

Apprendere dai fallimenti

La terza e ultima parte Easterly la dedica a quei cambiamenti che sarebbero dovuti intervenire nel comportamento delle agenzie di aiuto a seguito di fallimenti riconosciuti come tali delle politiche e dei metodi passati.
L’autore, in particolare, si chiede quanto rapidamente hanno appreso le agenzie che qualcosa non stesse funzionando, specie in riferimento a due temi:

· gli aggiustamenti strutturali (1979-2005)
· la cancellazione del debito

Aggiustamenti strutturali

Come detto in precedenza, gli aggiustamenti strutturali sono prestiti del FMI e della Banca Mondiale concessi con il vincolo per il paese ricevente di adeguare le proprie politiche a determinati parametri stabiliti dalle agenzie donatrici stesse, le quali credono in tale maniera di portare degli aggiustamenti macroecomici favorevoli al processo di sviluppo.

La formula degli aggiustamenti strutturali è stata introdotta nel 1979 ed ha il suo boom nel decennio successivo, come riflesso nelle agenzie internazionali di aiuto multilaterale (FMI e Banca Mondiale) di quel processo di apprendimento sull’importanza delle policies governative.

Il principale obiettivo degli aggiustamenti strutturali (SA) era correggere il budget statale, contenendo e riducendo il deficit del paese ricevente, e favorire la crescita degli indicatori economici principali.
Purtroppo, gli aggiustamenti strutturali fallirono nel loro scopo primario, in quanto nei paesi coinvolti in questi programmi non si segnarono processi di crescita o miglioramenti sostenuti. Secondo Easterly, la colpa non può essere di certo attribuita interamente agli SA, poiché diversi fattori hanno contribuito a ostacolare il processo di crescita, come la crisi economica del petrolio, la corruzione e i conflitti civili. Per chiarire il punto l’autore usa la metafora del paziente moribondo e del pronto soccorso, dicendo che “se un malato grave arriva all’ospedale e viene curato senza successo non si può accusare la cura”.

A questo punto però due considerazioni sul lungo termine emergono interessanti. Innanzitutto, alcuni di questi interventi non solo non portarono alcun beneficio, ma peggiorarono le condizioni di alcuni paesi, stornando le risorse destinate ai servizi sociali (educazione, sanità etc.), verso il rispetto dei parametri imposti dalle agenzie. Seconda considerazione: gli aggiustamenti strutturali erano pensati come una cd one-off correction, ossia come singolo correttivo che nel loro funzionamento non avevano necessità di essere replicati, in quanto, altrimenti, avrebbero segnato una dipendenza delle economie nazionali verso le agenzie internazionali. Tuttavia, gli aggiustamenti strutturali divennero degli strumenti multistage, ossia a più fasi ripetute nel tempo.
Ciò significa che ad un prestito ne interveniva un secondo per cercare di riparare al fallimento di quello precedente, innescando un meccanismo di debito gravoso e ben lontano dallo scopo originario Per riutilizzare, dunque, la metafora del paziente: “se entro in pronto soccorso con una malattia per farmi curare e la cura non solo fallisce ma mi ritrovo con un’altra malattia, o peggio con la dipendenza da quel farmaco, forse qualcosa di essenzialmente sbagliato c’è”.

Il fallimento degli aggiustamenti strutturali è un problema che si rifà a diversi fattori:

· in primis, le policies perseguite dai governi e dalle agenzie erano quelle corrette?
· Se la risposta alla prima domanda fosse affermativa, allora qual è la necessità di proporre aggiustamenti su più fasi ripetute?
· La ripetizione, infatti, si presenta come una risposta contro produttiva al fallimento degli obiettivi di innescare processi di sviluppo autonomi e costanti
· La ripetizione degli aggiustamenti, allora, è essa stessa un’indicazione del fallimento

Le statistiche inoltre hanno confermato come la ripetizione dei prestiti non portava tra uno e l’altro alcun miglioramento nelle policies governative, finendo per essere come i medici di Moliere, i quali credevano che fossero i malati fatti per la medicina e non viceversa (in altre parole, che fossero i paesi riceventi degli strumenti per un fine, quello degli aggiustamenti strutturali).

Il processo multistage degli aggiustamenti strutturali finiva così per creare, come detto, una dipendenza dei processi economici locali verso le agenzie e i mercati internazionali, in un circolo dal quale era enormemente difficile poter uscire, in quanto ogni nuovo prestito concesso per ripagare quello precedente sarebbe stato gravato poi da un altro successivo.

Nonostante l’evidenza del fallimento e dei problemi legati agli aggiustamenti strutturali e della loro ripetizione, si ebbero dei cambiamenti solo nel 1999, quando sia la Banca Mondiale sia l’Fmi cambiarono le loro strategie enfatizzando non tanto le dimensioni strutturali e la crescita economica, bensì la riduzione della povertà: la prima con il programma di Poverty Reduction Support Credits (PRSCs) e la seconda con quello di Poverty Reduction and Growth Facilities (PRGFs).

Eliminazione del debito

La questione degli aggiustamenti strutturali, sostiene Easterly, è legata in qualche modo alla crisi del debito dei paesi a basso reddito (ossia quei paesi che fino al 1996 erano chiamati IDA countries, in riferimento al fatto che fossero in linea con i requisiti per ottenere prestiti agevolati dall’associazione della Banca Mondiale).

La crisi del debito e gli annunci ripetuti del mondo delle associazioni civili culminarono nel 1996 con il programma diretto alla cancellazione totale del debito, conosciuto come Heavily Indebted Poor Countries (HIPC) Initiative e rivolto ai cd HIPC’s countries.
I dati del report dimostrano come tra i primi venti paesi che passarono più anni sotto i programmi di aggiustamento strutturale, sedici facevano parte degli IDA countries. In altre parole c’era un forte legame tra i paesi più poveri del mondo e i paesi che avevano passato più anni all’interno dei programmi di aggiustamento strutturale. Di questi sedici, poi, quindici divennero successivamente degli HIPCs countries. A tal proposito Easterly dice:
“un altro segnale del fallimento dei prestiti di aggiustamento strutturale”. I prestiti, come si è visto, non erano sufficientemente produttivi per generare le risorse necessarie a ripagarli, nonostante fossero sottoposti a condizioni molto agevolate.

Nel 2005 il summit del G8 sancisce la cancellazione totale del debito multilaterale per i paesi rientranti nei criteri dell’iniziativa HIPCs, dopo circa vent’anni di continue promesse e interventi riguardanti il problema (si consideri infatti che i primi interventi per la cancellazione del debito furono siglati nel 1987 con i termini di Venezia, che stabilivano tassi di interesse agevolati per i debiti dei paesi a basso reddito).

Nonostante una parte dei debiti accumulati dai paesi in via di sviluppo avevano origine da canali non legati agli interventi per lo sviluppo, gran parte di essi derivavano da prestiti fatti da agenzie di aiuto bilaterali e, soprattutto, multilaterali. Alla base dei prestiti di aiuto vi erano due considerazioni:

· avrebbero creato un impatto produttivo nel paese A che avrebbe così ripagato il prestito e permesso un secondo prestito al paese B;
· avrebbero stimolato ulteriori finanziamenti, il cui effetto positivo avrebbero contribuito a ripagare il debito.

Entrambe le considerazioni però non trovarono conferma all’atto pratico: sia il “riciclo dell’aiuto” che il ritorno positivo dei prestiti non posero le condizioni per favorire il pagamento del prestito e la riduzione del debito.

Easterly afferma che le agenzie di aiuto sono state molto lente nell’apprendere questa lezione: i paesi a basso reddito, infatti, non stavano realizzando i loro obiettivi e continuavano in programmi che probabilmente hanno reso il problema del debito ancora peggiore. Questo a causa anche del cd azzardo morale che caratterizzava i rapporti di concessione dei prestiti tra agenzie e paesi riceventi. Vediamo più in dettaglio.

Molti dei funzionari delle agenzie di aiuto avevano ben presente l’azzardo e la questione morale legata alla cancellazione del debito: un rischio e una questione che sarebbero stati forse più semplici da affrontare se si fosse contrapposto a un processo senza fine uno sforzo e un impegno diretti ad affrontare il problema una volta per tutte.
Il risultato, infatti, di un processo diretto alla cancellazione del debito ripetuto e scomposto in diverse fasi, più che ventennale e senza una fine preventivabile, ha incentivato i paesi più poveri a richiedere continui prestiti nell’aspettativa che presto o tardi il debito sarebbe stato cancellato definitivamente. Prestiti che, come si è visto, non erano ripagati e accumulavano ulteriore debito. L’azzardo morale, così come è definito negli studi e dallo stesso Easterly, prende forma proprio a partire da queste premesse: l’azzardo consisteva e consiste nel continuare a richiedere prestiti difficilmente ripagabili, nell’attesa che il debito fosse cancellato in base alle aspettative create dai continui round internazionali sulla questione del debiti. Il problema dell’azzardo morale, inoltre, si sviluppò assai più rapidamente della capacità delle agenzie di aiuto a far fronte a questa questione, generando così un’inazione che ha contribuito a gravare i debiti nazionali, nonostante gli obiettivi perseguiti fossero nel segno opposto.

Per cercare di porre un freno e correggere queste distorsioni derivanti dagli incentivi a nuovi prestiti senza che vi fossero le premesse per una loro restituzione (e quindi un ulteriore indebitamento del paese), la Banca Mondiale e l’FMI hanno ideato uno strumento analitico che pone dei parametri e dei limiti alla concessione dei prestiti, il cd “Debt Sustainibility Analysis”. Tuttavia, esso prendeva in considerazione la capacità del paese di ripagare il prestito concesso attraverso criteri che trascuravano due aspetti essenziali:

· gli incentivi creati dall’azzardo morale rendono la volontà più rilevante che la capacità di ripagare il prestito
· durante tutti gli anni ’80 e ’90 le agenzie di aiuto avevano già fatto analisi di sostenibilità del debito (ossia erano già presenti dei report sulle possibilità di ripagare il prestito da parte dei paesi beneficiari), segno che non era l’assenza di analisi la soluzione, ma la loro qualità.

In altre parole, nonostante i correttivi le agenzie di aiuto non sono state molto attente e veloci nel riesaminare le modalità di concessione dei nuovi prestiti, specie alla luce dei problemi con quelli vecchi.
Le statistiche, infatti, mostrano che non ci sono state grosse inversioni di tendenza nella tipologia dei prestiti d’aiuto (sebbene qualche caduta sia stata registrata attorno la metà degli anni ’90 e l’amministrazione Bush abbia promosso l’uso di diversi strumenti finanziari, come sussidi e sovvenzioni, anche presso la Banca Mondiale). Inoltre, nonostante la cancellazione totale del debito per gli HIPCs countries, FMI e Banca Mondiale continuano a fare nuovi prestiti a questi stessi senza assicurarsi realmente della loro capacità di ripagarli. Le analisi sulla sostenibilità del debito, infatti, soffrono anche di un’ulteriore questione che contribuisce alla ripetizione dei prestiti e favorisce lo sviluppo della crisi stessa del debito: ossia sono minate da un eccessivo ottimismo sulle prospettive di crescita dei paesi destinatari dei prestiti.

In conclusione, sottolinea Easterly, l’eccessivo ottimismo, la ripetizione dei programmi di aggiustamento strutturale, la costante corsa alla cancellazione del debito e l’azzardo morale non promettono alcuna via di uscita da quella sindrome dell’aiuto che già nel 1972 P.T. Bauer denunciava: gli strumenti finanziari usati improduttivamente portano a un indebitamento che poi è usato come argomento a favore di ulteriori prestiti finanziari.
In questo caso, dunque, sembra di essere di fronte a una mancanza di apprendimento derivante da pressioni politiche e da una mancanza di sguardi capaci di apprendere nuove strategie per uscire dal cd “ciclo del debito”.

Conclusioni

Le evidenze riscontrate da Easterly nei suoi dati sembrano indicarci uno scarso progresso attraverso l’apprendimento e i cambiamenti politici nella lotta contro la povertà e nel miglioramento dell’efficacia dell’aiuto.
Gli unici risultati positivi sono segnati nella correlazione tra allocazione dei fondi e reddito dei paesi destinatari (sebbene tale correlazione si è imposta attorno gli anni ’70 per non subire poi ulteriori rafforzamenti), dalla diminuzione degli aiuti legati e degli aiuti alimentari in forma diretta. Tutti gli altri parametri, invece, mostrano una sostanziale stagnazione nello status quo.

Easterly non si pronuncia sulle ragioni di questi freni al cambiamento, tuttavia non manca di sottolineare come un ruolo fondamentale sia giocato dalle pressioni politiche che intendono continuare lungo le solite direttive: ecco perché una soluzione potrebbe essere quella di rendere lo stanziamento degli aiuti più indipendente dal potere politico.

Quest’ultima considerazione ci porta così dritto alla domanda sollevata anche dalla vice-ministra Sentinelli: l’aiuto allo sviluppo dev’essere uno strumento strategico di politica estera (che contribuisce così a mantenere inalterati gli equilibri di potere e a rafforzarli) oppure deve divenire una parte integrante della politica estera? In altre parole, è ancora molta la strada da fare verso una cooperazione come volontà politica centrale e non sussidiaria, alla quale gli altri interventi governativi coerentemente si adeguano per cercare, non tanto di soddisfare dei bisogni, quanto, piuttosto, di accertare e garantire dei diritti che noi riconosciamo come doveri.

Manuel Antonini


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