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Antigone alla guerra: i consiglieri dello Judenrat


Al di là delle diverse interpretazioni del ruolo che giocò la collaborazione ebraica nello svolgersi dell’Olocausto – dilemma che ha profondamente turbato la comunità ebraica, divisa su questo punto – è interessante notare un aspetto a livello micro-sociale del comportamento dei collaboratori appartenenti agli Judenrat e alla polizia del ghetto: come giustificarono la loro condotta di fronte alle azioni alle quali parteciparono? Con quali criteri legittimarono le loro scelte dinnanzi alle deportazioni? Quale voce parlò in modo più convincente di quella della propria coscienza morale? Nel rispondere a queste domande può risultare molto utile un diario9 tenuto da Calel Perechodnik, ebreo polacco dal 1941 alle dipendenze della Ghetto-Polizei di Varsavia, il quale dapprincipio entra nell’istituzione per salvare la vita a sé e ai suoi cari. Gli ordini tedeschi sono eseguiti perché almeno “noi poliziotti non saremo interessati dalla deportazione, noi funzionari dello Judenrat non saremo interessati dalla deportazione, noi medici e dentisti non saremo interessati dalla deportazione, …, noi e tutte le nostre famiglie non saremo interessati dalla deportazione”.10
L’interesse personale e la paura non possono però fungere da unico appello con cui legittimare la morte altrui: si innescano così, necessariamente, dei percorsi cognitivi che rendono la realtà meno dura. In primis l’auto-inganno: di fronte alle notizie dei massacri, che dalle cittadine polacche giungono alla capitale, è difficile crederne la verosimiglianza. A Slonim sono state radunati in piazza quattordicimila ebrei, tra cui donne e bambini, e massacrati a raffiche di mitraglia? “Vi chiedo gente, era possibile credere a qualcosa di simile? Donne, bambini innocenti, fucilati senza ragione? Così semplicemente? Alla luce del sole? […] Dov’è l’opinione pubblica del mondo? Dove sono gli scienziati, gli scrittori, i professori? Come può tacere il mondo? Forse non è vero niente”.11
Tuttavia, di fronte alle crudeltà delle notizie dei massacri che giungono dal fronte russo diviene sempre più faticoso e difficile non credere. Allora non resta che fornire una spiegazione che plachi l’ansia psicologica e risolva la dissonanza cognitiva tra la convinzione che “quel che succede a loro non sarà quel che succederà a noi” e i fatti sempre più angoscianti: ”quegli ebrei sono stati uccisi perché erano cittadini sovietici e, forse, avevano combattuto contro i tedeschi. Noi invece siamo cittadini del Governatore generale, da noi una cosa del genere non può succedere”.12
In queste frasi è possibile rintracciare diverse modalità di quelli che Stanley Cohen individua nel suo libro Stati di negazione come strumenti utili agli individui e alle istituzioni – nei ruoli di vittime, colpevoli o testimoni – a rimuovere la sofferenza dell’altro e rendere meno gravoso, quindi, la negazione della propria responsabilità ad intervenire contro di essa, nel caso si sia vittima o testimone, o la negazione di una propria colpevolezza nella sofferenza inflitta ad altri, nel caso si sia carnefice.
L’incapacità, consapevole o meno, delle vittime di leggere la realtà nel suo sviluppo non poté comunque essere sostenuta a lungo dai consiglieri ebraici e dai funzionari della polizia. Lo stesso Perechodnik a un certo punto diviene cosciente della fine a cui vanno incontro i suoi compatrioti consegnati ai tedeschi: “Gli ebrei di Otwock vedono ormai tutta la tragedia: duecento innocenti sono stati portati via e ammazzati”.13
La questione di come giustificare la collaborazione dei Consigli con le strutture di potere naziste aveva dunque bisogno di argomentazioni più solide e legittime, che potessero spiegare le azioni messe in atto anche alla luce degli insegnamenti della tradizione ebraica. Maimonide, infatti, già mille anni or sono ammoniva gli ebrei dicendo che se i pagani dicessero loro “Dateci uno dei vostri e noi lo uccideremo, altrimenti vi uccideremo tutti”, essi dovrebbero lasciarsi uccidere e non un solo ebreo dovrebbe essere consegnato”. Di fronte a tale dettame e ad altre fonti della esegesi dei testi sacri ebraici che hanno richiamato la necessità del sacrificio di sé e del popolo di Israele pur di rifiutare la delazione ed il tradimento dei propri fratelli, erano necessarie argomentazioni che solo entro una logica razionale moderna avrebbero potuto essere fondate. L’argomentazione fondamentale per legittimare la collaborazione a quella che, di volta in volta, veniva presentata dai tedeschi come “l’ultima operazione” può essere riassunta nelle parole dello stesso Perechodnik: “fortuna che la scelta è stata fatta dalla polizia ebraica che ha spedito i più poveri”. Le parole del poliziotto ebraico erano il riflesso di un discorso più ampio che giustificava agli occhi dei membri degli Judenrat le azioni quotidiane di cooperazione con le autorità tedesche nei paesi occupati – ad esempio Rumkowski, presidente del Consiglio di Lodz, spiega che nel loro agire non erano “motivati dal pensiero di quanti sarebbero periti, ma dalla considerazione di quanti sarebbe stato possibile salvare” – parole che si rifacevano ad un’argomentazione che, in quei difficili momenti, gli stessi rabbini capi delle comunità ebraiche sostenevano. Nell’ottobre 1941, infatti, il rabbino di Kaunas Ytzhak Shapiro nel proprio responso statuiva che era dovere dei dirigenti degli Judenrat raccogliere tutta la loro forza spirituale e salvare anche solo una parte della propria comunità che il nemico aveva deciso di sterminare.14
In sostanza la legittimazione della propria condotta viene fondata su un’argomentazione razionale che riconosce alla vita di molti un valore superiore della vita di pochi. Attraverso un capovolgimento mentale dei termini di riferimento i consiglieri ebraici non si consideravano più coloro che decidevano quali ebrei inserire nelle liste di “trasferimento”, bensì coloro che stabilivano chi doveva vivere.
Alla fine di questi percorsi cognitivi “il vantaggio razionalmente calcolato veniva così trasformato in un obbligo morale”.15Per i rabbini ortodossi della Lituania l’accettazione della nomina a Judenrat era un dovere. E diveniva così un dovere anche sporcarsi le mani perchè “grazie a coloro che sono stati mandati al campo, i tedeschi non potranno deportarli (riferendosi agli ebrei che al contrario erano stati esclusi dalle liste) da Otwock”16. Attraverso la logica moderna dell’azione razionale, il calcolo costi/benefici, i consiglieri ebraici agivano come perfetti collaboratori del regime nazista nel loro stesso sterminio. Ma ancora più tragicamente, le scelte razionali con le quali si sacrificavano migliaia di uomini e donne si mascheravano da dettami morali.
In che modo i tedeschi spinsero gli ebrei a questa complicità motivata razionalmente? Come fu possibile che tali azioni di collaborazione furono viste come doveri morali? Bauman nel suo libro “Modernità e Olocausto” ha indicato diversi passaggi, i quali si caratterizzano tutti per la loro relazione con la razionalità moderna. In primis, l’isolamento spirituale e fisico delle vittime. Gli ebrei confinati in un ghetto non avevano altri punti di riferimento con l’esterno che le autorità naziste con le quali lo Judenrat era in contatto. Il contesto dell’azione si limitava ad un universo sociale e fisico sempre più limitato al vertice del quale vi era il potere nazista. Al di là, quindi, di qualsivoglia interpretazione della situazione, questa si concentrava in ultima istanza su un unico centro di attrazione: le decisioni che i persecutori avrebbero preso. In quanto esseri razionali, gli ebrei non potevano far altro che adattare razionalmente la propria condotta alle azioni dei loro persecutori e, di conseguenza, presumere l’esistenza di scelte più ragionevoli di altre al fine di sopravvivere. I nazisti, dunque, avevano l’intero controllo delle regole all’interno dell’universo ebraico, erano divenuti un dio pagano che concedeva premi o punizioni a seconda della condotta dei suoi “fedeli” e manovrava le azioni degli attori in campo in modo tale che ad ogni mossa razionale dei perseguitati sarebbe corrisposto un passo in più verso lo sterminio.
In secondo luogo, i persecutori nazisti alimentarono l’illusione presso le loro vittime di essere di fronte ad una scelta tra la vita e la morte. Illusione che bene è riassunta nelle parole del discorso tenuto da Eichmann nell’ottobre del 1939, appena giunto in visita a Nisko, cittadina polacca poco distante da Lublino, in cui si sollecita gli ebrei di quella regione, sfrattati dalle loro case, a costruirsi un nuovo villaggio, “altrimenti tocca morire”.
La scelta tra salvarsi o morire – che agli occhi delle vittime appare possibile, mentre in realtà è già decisa la distruzione fisica totale del popolo ebraico tra i gerarchi nazisti – viene alimentata inoltre con il far credere che non tutti i perseguitati avrebbero ricevuto lo stesso trattamento. L’istituzione di un sistema di privilegi sortisce quasi sempre un duplice effetto: da una parte convince le vittime che, sacrificando alcuni (i più poveri, quelli di comunità straniere etc.), vi sarebbe stata l’opportunità di sperare nella propria incolumità e di salvare molti ebrei, dimostrando la loro appartenenza alle categorie che “meritavano” una sorte migliore; dall’altra, con la lotta per ottenere i benefici, faceva sì che i perseguitati stessi legittimassero il progetto nazista di distruzione. Come spiega H. Arendt “chi chiedeva di costituire un’eccezione implicitamente riconosceva la regola”.
Creata l’illusione di una potenziale scelta della propria condotta, si creò la possibilità stessa di un atteggiamento razionale a fronte di un progetto, quello nazista, che si presentava totalmente irrazionale nel suo scopo ultimo. E creata la speranza di una salvezza della propria vita a scapito di pochi altri, si creò anche la convinzione che il comportamento interessato all’auto-conservazione fosse sensato e razionale. Fosse, come dice il poliziotto ebraico, una scelta “di buon senso” e quindi un dovere da perseguire. E la maggior parte delle vittime si comportò razionalmente. Ma come si è visto, con l’assoluto controllo dei mezzi di coercizione e con l’inganno sulle reali finalità, il regime nazista fece in modo che la scelta razionale fosse oggettivamente sinonimo di cooperazione.
Quanto detto fin ora non vuol suonare come una sentenza di colpevolezza nei confronti degli ebrei verso il loro stesso sterminio; non si vuole in alcun modo dire, tanto meno presumere, che gli ebrei furono la cagione dei loro mali. Quel che si intende mostrare è per prima cosa la tragicità (intesa come in accezione greca di ineluttabilità e irrisolvibilità) del dilemma morale al quale quegli uomini furono sottoposti. Secondariamente far emergere come la strategia razionale del “salvare il possibile”, a cui fu costretta dai persecutori la maggior parte degli ebrei, non aiutò le vittime a fuggire dal fanatismo omicida del nazismo, ma si rivelò piuttosto e inconsapevolmente un ingranaggio in più nella perfetta macchina di morte dei tedeschi. Le conclusioni alle quali si giunge sono dunque ancora più drammatiche, soprattutto dopo un secolo di utilitarismo e razionalismo: la razionalità strumentale spesso non assicura agli esseri umani un comportamento morale. O almeno così non è stato per i dirigenti di Yahoo! e per i consiglieri dello Judenrat.
La riflessione a questo punto si complica e rimanda al rapporto tra razionalità, irrazionalità e morale: non a caso Sofocle dice nella sua tragedia “O infelice, dell’infelice Edipo figlia che è mai? Non forse ti conducono per avere disobbedito agli ordini del re, avendoti sorpresa in piena follia?”. Se l’irrazionalità diventa pazzia al cospetto dell’interesse personale e dell’obbedienza, si veste forse divina dinnanzi alla morale?
Una riflessione ancora aperta…

Manuel Antonini


9. C. Perechodnik, Sono un assassino? Autodifesa di un poliziotto ebreo, Milano, Feltrinelli, 1996.
10. C. Perechodnik, ib.
11. C. Perechodnik, ib.
12. C. Perechodnik, ib.
13. C. Perechodnik, ib.
14. W. Murmelstein, I Judenrat. Personaggi tragici o colpevoli per sempre? saggio comparso sul sito web www.radiosilenzio.it/olocausto/contributi/iJudenrat.htm
15. Z. Bauman, Modernità e Olocausto, Bologna, Il Mulino, 1992.
16. C. Perechodnik, op. cit.


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