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"Abbiamo la volontà" di Floriana Avellino

Un giovane uomo che insegna inglese a Kisumu faceva tante domande, anche a mamma, Ginger e al suo nuovo marito:
- Thomas, chi ha deciso che Ginger sarebbe divenuta la tua compagna? Consideri naturale questo fatto?
- Beh, sono stato io insieme alla mia famiglia e a quella di mio fratello…nel nostro paese abbiamo tradizioni molto forti…tutti sanno che quando qualcuno della famiglia muore i suoi possedimenti passano ai parenti...
- Mm…possedimenti…Thomas, guarda bene Ginger e queste donne, guardale negli occhi. Qualcuna ha imparato il mestiere ed è diventata sarta; tua cognata, eccellente cuoca, lavorerà nella mensa della scuola…sono piene di forza e qualità, non credi che, prima persone che donne, abbiano una profonda dignità e vadano integrate nei processi decisionali della famiglia?
- Beh, in realtà...
Ai grandi hanno fatto fare pure i compiti: ognuno doveva scrivere un messaggio al capo del villaggio con delle “richieste che poi l’insegnante gli consegnerà personalmente”…ma non si sono annoiati! Il pomeriggio è finito con danze e canti; tutti battevano mani e piedi a ritmo di djembee; il suono dei bracciali e collane di legno si sentiva fino nelle altre classi!
Accipicchia se mi sono divertito!

Eh già, da qualche tempo mamma ha smesso di piangere.

È una serata splendida; lei se ne sta in piedi appoggiata sulla porta di casa, “persa nella contemplazione di un cielo così intenso da farti male agli occhi”. Io non posso a vederlo, ma mamma me lo racconta con così tanta passione e precisione che riesco a sentirlo dentro, proprio al centro del mio essere…Un cielo “caldo, coperto di nubi panciute di un rosa fluorescente, vivo, come animate da un faro rosso celato elegantemente…Un cielo morbido, pieno, protettivo come il ventre di una madre”.
Una madre che stringe tra le mani un libro, il ‘libro della memoria’ lo chiama; il libro della sua vita, della sua storia; quello che “ ti dirà tutto di me, se me ne sarò andata troppo presto”.
Per quanto avrebbe ancora goduto dei sapori, odori, colori dell’Africa? Adesso che Monica dice che “ha una chance di diventare un’Africa nuova, un’Africa che possa esprimersi e rivelarsi in tutta la sua ancestrale bellezza. Adesso che l’umanità sta dimostrando che è solo una questione di volontà; solo la volontà per un mondo diverso”.
Comunque sento che vivrà ancora per tanto tempo.

Io sto per nascere; ancora non è successo, ma quante cose mi pare di aver già capito e assorbito. Già, perché “in Africa bisogna imparare presto”, perché “la vita rimane una grande sfida qui”…Eppure scalcio dalla gioia… - “perderà il bambino” – le avevano detto. E invece sono contento di stare arrivando, perché se c’è una cosa che sento nel mio cuore, è che anche se credo di aver capito che il mondo è un posto duro, sono anche convinto che varrà la pena vivere!

di Floriana Avellino

Postfazione

Perché pubblicare questo racconto, al di là della piacevolezza con il quale si legge? Le ragioni sono molte e cercherò di elencarle brevemente, per non spezzare la magia che è riuscito a creare e che non vorrei goffamente cancellare.

All'inizio parlavo della letteratura nelle scienze sociali, della loro capacità di raffigurare aspetti della realtà e suoi fenomeni con tratto più incisivo ed immediato, spesso più profondo nelle sue capacità di rendere le implicazioni e di svelarne i significati. Gli esempi a tal proposito sono molteplici. Penso al romanzo di Ellis, American Psycho, che ci parla della frammentarietà e appariscenza della vita contemporanea tesa in una folle corsa verso la sperimentazione di sensazioni sempre più forti e fuggevoli; oppure agli scritti di Ballard sui paradossi della paura e dell'insicurezza moderna intenta a porsi al riparo dall'esterno mentre la minaccia si trova proprio dentro i confini tracciati e definiti sicuri (la famiglia, il vicinato, la comunità) o quando raffigura la città del tempo per ricordarci della nostra schiavitù legata all'irregimentazione dello scorrere degli attimi in secondi, minuti, ore, giorni e così via fino ad alienarci e ad organizzare la giornata con lo scopo di guadagnare altro tempo; o ancora alla bizzarra fantasticheria di Heinlein in Orfani dell'universo, dove un'astronave fugge dalla terra per mettere al riparo i resti dell'umanità dalla sua distruzione totale e finisce per trasformarsi nell'immaginario delle generazioni successive nell'universo stesso, dentro la quale vaga. E di esempi ce ne sarebbero ancora: dai naturalisti francesi dell'ottocento all'Antigone di Sofocle, da Philip Dick a Aldous Huxley, da Italo Calvino a Buzzati e così via, in un elenco che rischierebbe, per la sua vastità, di omettere qualche autore.

La letteratura a differenza dei testi scientifici si immergono nella realtà e la descrivono dal suo interno: utilizza le sue stesse parole, ricostruendole per cercare di far esplodere i loro significati più attuali e celati sotto le ombre della quotidianità. Quei significati accettati da tutti inconsapevolmente, che reggono le nostre vite e le interpretazioni delle nostre vite seppure mai indagati o al centro di riflessioni.
Gli espedienti poi per fare questo sono molteplici ed ogni autore utilizza la forma narrativa a lui più congeniale: Il racconto di fantascienza, il romanzo verista, la pièce teatrale sono forme spesso di uno stesso intento: produrre un'istantanea della realtà dove il negativo mette in luce le sue ombre.
In tal senso, per la saggistica delle scienze sociali, vincolata a dati e criteri di oggettività non solo scientifica ma anche narrativa, intenta non solo a descrivere dall'esterno (nel senso che utilizza un linguaggio non proprio del contesto che descrive) ma anche a comprendere i meccanismi del suo funzionamento attraverso ipotesi e teorie, la prosa è uno strumento determinante per arrivare al cuore dell'oggetto di studio, per centrare il problema da un altro punto di vista, rilevatore di significati trascurati o addirittura non scorti, per esplorare le dimensioni individuali e collettive dove poi i fenomeni stessi hanno senso e vita. E il tutto con una forza suggestiva che amplia la portata dell'analisi, che apre a volte ad un abisso di implicazioni percepibili ma difficilmente spiegabili o riassumibili entro una formula o una bella definizione.

Il racconto “Abbiamo la volontà?” ad esempio ci parla dell'Aids da una prospettiva differente da quella delle statistiche o delle notizie più o meno ufficiali. Il punto di vista è quella di un bambino che osserva e svela la propria intimità: mostra come la realtà del virus sia inserita nel quotidiano e segni la vita non tanto come disperazione, ma piuttosto come reazione, come forza di azione per alzarsi da un destino inconcepibile e non voluto. Abituati alle statistiche, se leggiamo l'Aids solo come dato rischiamo di perderne i significati e le implicazioni nella marea di numeri che ogni giorno i giornali o le televisioni ci offrono. Rischiamo inoltre di assumere la malattia come un male che perde contatto con la dimensione del quotidiano: l'Hiv/Aids ancora prima di essere un flagello per l'umanità, è una questione intima e personale.
Ciò non significa che le statistiche o la visione a livello di sistema non servano, ma che perdono la loro efficacia se ad esse non è accompagnata l'esperienza individuale che le riempie di significato e le dona una forza morale.

Ma il testo di Floriana Avellino qui presentato credo abbia questa forza non solo nel presentarci come l'Hiv è vissuto da molta gente africana, bensì anche nel raccontarci la vita stessa in una comunità africana ed il suo spirito nell'affrontare la vita e il mondo.
Per prima cosa, il racconto ha il pregio di parlarci di una realtà spesso oscurata dalla retorica sull'Africa che segna quasi sempre i discorsi sul continente. Mi riferisco alle immagini di sofferenza, malattia e fame che accompagnano i resoconti televisivi o gli articoli di giornale sull'Africa: in altre parole, nella retorica dominante il continente nero è inserito in un discorso allarmistico e pessimistico che produce stereotipi pericolosi.
Le parole che nella retorica dominante definiscono l'Africa e l'atteggiamento verso di essa non tengono conto dell'intera realtà di molte comunità africane, forniscono una sua faccia – quella sofferente – come fosse la sola presente e innescano così delle false percezioni che definiscono l'Africa secondo criteri e parametri che non gli appartengono. Gli stereotipi, infatti, alimentati dai media strutturano un'immagine creata da noi e applicata alla realtà africana che si richiama ad elementi estranei alla realtà africana: negli schemi mentali e nelle ideologie occidentali, coltivate attraverso l'etica del lavoro e dell'individualismo, uno stato di privazione è quasi sempre associato ad un'immagine di lamento, di passività o di rassegnazione. Allora se definiamo l'Africa solo come oggetto di urgenza e di privazione, le derive implicite o inconsapevoli che si accostano sono le idee di rassegnazione, di passività o, ancora peggio, di incapacità. Tutti e tre questi elementi portano ad un approccio segnato da atteggiamenti non paritari o simmetrici: l'arrogante superiorità colonialista si trasforma in un compiacente paternalismo o in un compassionevole assistenzialismo, senza riconoscere alle genti dell'Africa nessun ruolo o dignità se non quello di destinatario, e chi riceve è sempre passivo, di aiuti e sussidi.
Una seconda conseguenza pericolosa derivante dalle immagini stereotipate è l'assuefazione. L'abitudine a vedere la sofferenza dell'altro non genera, a lungo termine, l'indignazione attesa o sperata, al contrario si inserisce in un discorso già sentito e classificato. La sofferenza diventa qualcosa di extra-individuale, la ripetizione di una categoria mentale che abbiamo imparato a riconoscere e a classificare: in Africa si soffre, la privazione è un tratto distintivo e le immagini trasmesse vanno ad associarsi, un po' alla rinfusa, con tutte le immagini precedenti. Abituati alle immagini di bambini sofferenti venire dall'Africa, attuiamo quei meccanismi di diniego del dolore che ci permettono di razionalizzarlo e ascoltarlo senza trasformarlo o visualizzarlo come realtà: lo accantoniamo dopo aver esperito un momento di disagio o di breve indignazione, reazioni sufficienti a farci credere di aver ascoltato il grido di dolore, mentre sul piano dell'azione nulla cambia o si trasforma.
L'assuefazione nasce dal ripetersi costante di immagini che non creano differenze, che non pongono accenti ma raccontano le diversità attraverso i tratti comuni: se i racconti sono uguali perché le reazioni dovrebbero differire? In altre parole, abituati ai discorsi sul dolore dell'Africa, oggi crediamo che l'Africa intera o la sua larga parte sia sofferente e in qualche modo rassegnata o incapace di modificare il suo stato. E tanto l'abbiamo ascoltati questi discorsi che ne siamo abituati e non sortiscono quasi più nessuna reazione.

Il racconto di Floriana ci presenta al contrario la faccia della privazione materiale entro un contesto ben differente: la sofferenza esiste, la malattia o la fame sono aspetti che caratterizzano la realtà di molte comunità africane, ma questi elementi sono inseriti entro una cornice diversa da quella retorica. Forza d'animo (“Non ho più forza nel mio corpo, ma il mio spirito reclama”), coraggio (“Domani io e tuo padre ti portiamo all’ospedale di Kisumu, scopriremo cos’hai e ci prenderemo cura di te.”), dignità (“ Thomas, guarda bene Ginger e queste donne, guardale negli occhi. Qualcuna ha imparato il mestiere”) e gioia (“Accipicchia se mi sono divertito!”) sono tutti aspetti fortemente presenti nella realtà africana che difficilmente circolano o passano negli schermi televisivi: il dolore c'è, ma è combattuto o meglio è vissuto con un approccio ben differente dall'immagine passiva che crediamo.
Floriana ci presenta una comunità attiva, capace di far fronte al proprio futuro e non totalmente rassegnata ad un avvenire uguale al passato: la forza di questo racconto viene proprio dall'essere un discorso occidentale, perché Floriana è italiana, che non parla secondo i criteri classici della retorica europea sull'Africa, dallo svincolarsi dal dato per scontato per ricercare nuovi significati, dal presentarsi come discorso alternativo al discorso dominante. E se qualcuno può obiettare che il racconto si veste di elementi retorici, basta osservare che qualunque discorso narrativo si abbiglia col vestito della festa: il punto è decidere quale vestito, quello usuale o uno nuovo? Floriana ha deciso di vestire l'Africa con elementi che parlano di lei nel tentativo di renderla nella sua interezza, di trasmetterla attraverso le sue sfumature e le sue contraddizioni, di presentarcela per quella che a lei stessa appare. E se qualcuno crede che l'autrice abbia esagerato col trucco ciò avviene perché ha sempre visto solo e soltanto l'Africa di sera, prima di coricarsi nel letto: eppure anche l'Africa ha il suo mattino, il suo giorno e, come qualsiasi altra parte del mondo, la sua notte.

Il racconto “Abbiamo la volontà?” ci suggerisce un altro elemento sulla complementarietà della letteratura per le scienze sociali: la narrativa spesso possiede la forza e gli strumenti per porre in critica le immagini dominanti che si formano attorno a determinate realtà sociali, raccontandone i suoi aspetti messi da parte perché in contrasto con quanto vogliamo credere o ci sforziamo di credere a tutti i costi. Penso, ad esempio, al valore e al discorso introdotto negli Usa dall'Antologia di Spoon River: la sua verve dissacrante dell'american way of life, la sua ironica disillusione verso il mito del successo, la sua graffiante verità nell'indagare gli angoli più in ombra della città e delle intimità dei suoi abitanti. Floriana agisce con più delicatezza, è dolce e materna nel presentarci la comunità come la madre protagonista del racconto, accarezza le vite per rendercele con tratti più morbidi e asciutti e far trasparire con elegante e tenero incanto il cammino africano verso un riscatto quotidianamente rivendicato e conquistato.

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