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La rappresentazione dell'altro
nella sofferenza e nella quotidianità

3. La costruzione della morte e la rappresentazione dell’Altro

Le due foto seguenti compaiono a pagina 11 dell’edizione del 20 maggio 2004 del Corriere della Sera: entrambe ritraggono due uomini palestinesi, con il loro volto trasfigurato da un’espressione di dolore e di disperazione, mentre corrono

Fig.1 - Foto apparsa sul Corriere del 20 maggio 2004
portando tra le braccia due bambini, uno dei quali ferito mortalmente durante una manifestazione. Le due immagini, al di là del loro piano denotativo, ci rimandano significati di terrore e di paura che caratterizzano la scena: il movimento caotico e lo scompiglio sullo sfondo da una parte e l’angoscia che sferza i due volti, specie dell’uomo in figura 1, ci mostrano, con quella chiarezza e con quella intuitività connessa alla condivisione umana del dolore, come i bambini portati tra le braccia non siano semplici ragazzi per quegli uomini. L’urlo che pare udirsi da quella bocca forzata dal dramma, l’immobilità dell’esile corpo, che pare dare movimento a tutto ciò che ruota attorno per convergere su di esso, sono elementi che risaltano e che donano una forza simbolica notevole alla fotografia e alla scena di dolore raffigurata. Se posassimo lo sguardo attentamente sulle due foto, difficilmente non ci sentiremmo partecipi dell’altrui sofferenza. Tuttavia l’effetto retorico delle due didascalie è diretto in tutt’altra direzione. Nella figura 1, la didascalia recita: “DISPERAZIONE. Un uomo mentre porta un bambino morto. Alla manifestazione partecipavano migliaia di persone.”

Fig.2 - Foto del Corriere della Sera
Nella figura 2, la didascalia richiama l’attenzione alla plasticità della scena: “IN BRACCIO. Un palestinese corre, portando uno degli adolescenti colpiti durante la manifestazione”.
Ad un secondo piano di analisi che si interessi dei significati collegati ai segni che compongono le due didascalie – ossia nella loro dimensione connotativa – è interessante notare come venga fatto uso delle parole “uomo”, “bambino”, “palestinese” e “ adolescente” per indicare gli attori coinvolti in questa tragica scena.
In questi segni testuali non vi è rimando alcuno a qualsivoglia legame di parentela tra i ragazzi feriti e gli uomini adulti che li stanno trasportando. Tuttavia nell’articolo che segue le due foto si legge: “Ed era ancor meno nell’interesse del governo israeliano che le immagini di padri palestinesi, con i bambini sanguinanti in braccio, facessero il giro del mondo.” Perché nelle didascalie non viene fatto cenno alcuno che i due attori possano essere padre e figlio (zio e nipote, etc.)? Perché nella raffigurazione fotografica di queste due morti non si sottolinea l’esistenza di una possibile relazione di parentela? Se i media sono divenuti rituali di istituzione della realtà, che non necessariamente risponde al “vero”, quanto tale relazione di anonimato s’avvicina all’effettivo legame fra l’uomo e il bambino?
Procediamo per negazione. Accostare alla morte il rapporto padre-figlio è un’associazione di immagini che in ogni cultura è percepita come qualcosa di fortemente tragico. Quanto spesso si sente affermare che “sono i figli a dover seppellire i padri!”. Quando accade il contrario, quando è il genitore a seppellire il figlio, il dolore della morte diviene qualcosa di insopportabile, di insostenibile che va contro il procedere “naturale” del mondo e della vita. Una tale sofferenza è qualcosa che può investire ogni uomo o donna, tutti siamo figli o figlie. Quando sentiamo attraverso i media la notizia di un tragico evento nel quale un genitore perde il proprio ragazzo, scatta in noi un sentimento di solidarietà che ci accomuna a lui, ci sentiamo in diversa misura comunque partecipi del suo dolore, perché riconosciamo quanto tale sofferenza valichi qualsiasi differenza e sia prossima ad ognuno.
Proviamo a riscrivere le due didascalie:
- Un padre urla mentre porta il figlio morto. [...]
- Un padre corre, portando uno dei figli colpiti durante la manifestazione.
Entrambe le frasi automaticamente drammatizzano la morte: le parole usate rendono più difficile accettare la sofferenza, il loro dolore diviene il nostro dolore, comprensibile e palpabile.
L’uso di “uomo” “bambino” “palestinese” e “ adolescente” per rappresentare la morte dell’Altro significa utilizzare parole neutre, che non caricano di un “surplus” emotivo le foto, di per sé già tragiche, del dolore altrui. Attraverso questa modalità, che potremmo definire neutrale, diviene evidente come la rappresentazione della morte e della sofferenza contribuisce a creare un’immagine dell’Altro che è esito di una selezione, di una scelta linguistica di chi parla, del centro del discorso. In questo caso, infatti, la morte diviene anonima, senza nome, senza tinte tragiche, non riconoscibile entro un dramma personale della famiglia, unità sociale di base:; vi è un richiamo alla disperazione, ma a tale disperazione non è data alcuna consistenza. La durezza dell’immagine viene svuotata dalla passività delle parole.
Nelle didascalie la “loro” morte non viene saturata da elementi linguistici drammatici, le parole non aggiungono alcun significato alle foto: esse non raccontano ma leniscono il dramma entro coordinate emotive più sopportabili, descrivono in modo imparziale, ossia non allineato dalla parte di chi soffre. Con l’utilizzo delle parole sopra citate più difficilmente è suscitato in chi scrive e in chi legge (del dolore altrui) quella partecipazione che spontaneamente scaturisce quando si entra in contatto con la morte di “un figlio” che investe “un padre”, quando si osservano scene di un tale pathos.
Nella foto (fig. 3) che compare sul quotidiano “Il Giornale”, sempre di giovedì 20 maggio 2004, il tema retorico è pressoché invariato.

Fig.3 - Foto apparsa su “Il Giornale”, giovedì 20 maggio
Di nuovo si ricorre all’uso delle stesse parole prive di tensione drammatica – il ragazzo inoltre è “solo” ferito al volto – all’uso di un discorso neutrale che però non significa vuoto di implicazioni. In più, la foto stessa viene “smussata” dei suoi angoli più spigolosi: l’immagine è sfuggevole, l’uomo non è preso frontalmente, la smorfia di disperazione non appare in tutta la sua crudezza come in quelle precedenti. Le immagini di confusione sullo sfondo sono più smorzate e l’uomo sembra non correre più. L’angoscia della morte altrui è ancora più attutita, svuotata – si potrebbe quasi dire anestetizzata – rispetto alle foto precedenti. Questa descrizione “asettica” è ancora più enfatizzata nella foto apparsa su “Libero” a pagina 15, sempre lo stesso giorno (fig. 4): infatti, sul quotidiano non vi è alcuna didascalia a orientare l’interpretazione dell’immagine, a fissare la nostra attenzione sulla foto. Non solo non viene fatta menzione di un legame di parentela, ma la notizia drammatica viene segnalata solo alla quindicesima pagina.

Fig.4 - Foto apparsa su Libero
Risulta chiaro, attraverso un’analisi connotativa, come mediante le foto e le didascalie venga costruita una rappresentazione della sofferenza e della morte altrui che non passa attraverso una forte caratterizzazione drammatica, come invece accade quando la morte investe il Noi (basti pensare a tutta la retorica che ha investito i media i giorni successivi alla strage dei Carabinieri a Nassiriya). La costruzione e le modalità stesse con cui è rappresentata la morte dell’Altro in queste foto, concorrono a definire l’Altro e il modo stesso con cui il Noi si relaziona alla sofferenza altrui, entro un processo ricorsivo continuo.

Ma quale implicazione ha una tale costruzione neutrale? Quali effetti produce? Quale differenza viene sottolineata tra Noi e Loro? La morte ha sempre lo stesso peso?
In primis, una rappresentazione della morte fondata su elementi enfatizzanti la drammaticità della morte avrebbe portato inevitabilmente a fraternizzare con la morte altrui, a stringere un legame di empatia forte con la sofferenza del “palestinese”. H. Arendt sottolineava che la fraternità implica un sentire, un condividere insieme la stessa ingiustizia e allo stesso tempo una chiusura verso il mondo, per rinserrare i legami caldi del gruppo perseguitato. Come detto precedentemente, una costruzione fondata sulla relazione morte e il legame padre-figlio, avrebbe necessariamente avvicinato la sofferenza altrui, avrebbe “riscaldato” i cuori del Noi, fornendo quegli elementi linguistici per condividere insieme la sofferenza. Una sofferenza che, come detto, ci apparirebbe subito comprensibile, perché la morte di un figlio è terribile in ogni luogo della terra e avvicina uomini e donne. Una descrizione neutrale, asettica come le precedenti, al contrario, resta sospesa sull’ambivalenza che caratterizza il rapporto del noi con lo straniero e la sua morte, anzi: ci allontanano dalla polarità del condividere insieme – della vicinanza – per spingerci verso l’opposto del della lontananza, dell’indifferenza.
Tali rappresentazioni della sofferenza altrui fanno sì che la morte del bambino palestinese possa essere guardata con maggiore distacco rispetto alla morte di un bambino italiano, “un bambino la cui perdita priverebbe un padre e una madre del loro bene più prezioso”. Guardando quelle foto e leggendo quelle didascalie non sentiamo alcun elemento che ci accomuna a loro, se non la morte stessa che però, come detto, viene sterilizzata del potenziale carico affettivo e di empatia attraverso la descrizione-costruzione neutrale (dove per neutrale ormai è chiaro si intende non mancanza di implicazioni o di prese di posizione, bensì assenza di toni drammatici, che quasi sempre si accompagnano con la raffigurazione della morte, o almeno del nostro dolore). Così l’elemento della morte, che accomuna l’intera umanità (il polo della vicinanza), si cela alla vista del Noi e il dolore assume una forza meno opprimente, che ci impedisce di sentire insieme e di condividere un sentimento, come l’angoscia della perdita di un figlio, che travalica la diversità.
Il mancato richiamo al legame padre-figlio, dunque, ha come implicazione un approccio alla morte altrui caratterizzato da indifferenza, da lontananza: riconosciamo, certo, il loro dolore che, tuttavia, non è il nostro dolore. Così nei mezzi di comunicazione di massa passano giornalmente immagini di morte dell’Altro a cui ormai siamo anestetizzati, in quanto le formule retoriche che ce le presentano (in questo caso la mancanza del richiamo al legame di parentela, la posizione dell’articolo nella struttura del quotidiano, etc.) fungono da vaccini contro un’eccessiva identificazione con il loro dolore che potrebbe nascere dall’osservazione attenta della crudezza delle immagini. Restiamo sconvolti se la morte colpisce il Noi – seppure durante un’operazione di guerra, in cui il rischio di perdere la vita è elevato al massimo grado – ma restiamo indifferenti, o lievemente turbati, se una strage si abbatte sull’Altro inerme e indifeso. La morte di un palestinese, o di un israeliano nel conflitto mediorientale, possono essere così viste come qualcosa di abituale che percorre i nostri schermi e le nostre pagine, giusto il tempo di poterle “spiare” senza però ancorare troppo insistentemente lo sguardo. Attraverso simili costruzioni della morte dell’Altro è possibile rispondere alla domanda precedente: sì, il dolore di chi non fa parte del noi ha minore consistenza della nostra sofferenza.

Indifferenza verso la morte dell’estraneo e minore consistenza del suo dolore sono tutti elementi che contribuiscono a tracciare una differenza netta tra Noi e Loro, una differenza che nel film “Dogville” di Lars Von Trier è chiamata “stoicismo”. Come a Grace, anche al palestinese non è concesso soffrire come soffriamo noi. L’Altro, attraverso la nostra costruzione della morte, seppure colpito nelle cose a lui più care, le statuine di Grace o il figlio per l’uomo palestinese, non deve piangere, ma subire sopportare e tollerare come se non fosse come noi.
Noi e Loro sono uguali nell’atto della morte, ma non nel suo dolore.

Ciò che qui si è cercato di dimostrare è che, attraverso siffatte “insensibili” rappresentazioni della morte altrui, viene tracciato un confine tra il Noi – caratterizzato da solidarietà e empatia nel dolore – e l’Altro – al quale non è concesso soffrire quanto soffriamo noi e la cui morte viene sfumata dei suoi tratti più drammatici, proprio per svuotarla di qualsiasi potenziale di partecipazione. Un confine che paradossalmente è tracciato su quanto vi è di più condiviso nell’essere umano: la morte. Un confine che ha perciò ancora più forza e che impronta la relazione con l’Altro ad indifferenza e distacco. Possiamo, a ragione (forse), sostenere, riprendendo Boltanski, che lo spettacolo del dolore passa attraverso differenti topiche che perseguono diversi scopi, tra essi vi è anche l’indifferenza. Per il Noi non tutte le morti hanno lo stesso peso.

4. Imbarazzismi
ovvero della relazione con l’altro tra imbarazzo e razzismo


Si è già detto nel secondo paragrafo i motivi per cui si è scelto questa breve raccolta di banali (in quanto ordinari, scontati, quasi automatici) episodi quotidiani, contenuta in “Imbarazzismi” e in “Nuovi Imbarazzismi”. Episodi che sono scene di ogni giorno nelle quali tutti incorriamo, con maggiore o minore consapevolezza, che parlano di comportamenti e aspettative inserite in quel sapere, in quel discorso egemonico che definisce l’altro e orienta la nostra condotta. Così, gli episodi che verranno presi velocemente in considerazione possono fungere da esempio di come il sapere con cui si dà senso alla realtà e si costruisce la nostra identità, attraverso la negazione dell’Altro, sia esito di continue pratiche quotidiane e di come il potere ad esso connesso sia in ogni luogo, in ogni spazio (dal supermarket alla televisione) e non sia vincolato in maniera monopolistica ad un centro.
In questo caso l’Altro, che viene definito attraverso le pratiche con cui il Noi si relaziona ad esso, è l’immigrato africano che vive in mezzo al noi e che, nonostante si adegui alle “ricette” della nuova comunità, viene comunque riconosciuto come diverso. Si è detto all’inizio che la condizione di straniero nasce da un incontro con un Noi:

Quando portammo per la prima volta i nostri figli in Africa a conoscere i nonni paterni, venivano rincorsi e additati dagli altri bambini festosamente con le grida: “Yovo(bianchi)! Yovo! Yovo!” I miei pazientarono per i primi giorni ma, siccome la scena si ripeteva di continuo , dovetti spiegare il significato del termine. Giunti a casa, esasperata, mia figlia mi chiese: “Papà, perché in Italia mi chiamano negra e qui in Togo mi dicono Yovo?” (Kossi Komla-Ebri, 2004)

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