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Lo spazio educativo all'interno del carcere minorile

Non tutti sono d’accordo sulla possibilità di realizzare uno spazio educativo all’interno del carcere come coloro che, sulla scia di Goffman e Foucault, criticano radicalmente le istituzioni totali; altri, invece, sono convinti che esista un modo per trasformare quelle stesse istituzioni in strutture trattamentali.
Per i primi il carcere rimane il luogo della reclusione e dello sradicamento dalla società civile, chiuso, impenetrabile. E’ il luogo che esercita da sempre un’azione totale o inglobante sottraendo l’individuo alla cura di se stesso e privandolo della sua autonomia. La disciplina che vi regna stabilisce premi e punizioni per chi è buono o cattivo e chi trasgredisce viene punito come se fosse un bambino: in castigo nella cella di isolamento. Il carcere innesca un processo di “spoliazione del sé” del detenuto, lo attacca, lo ferisce e parallelamente cerca di cambiarlo regalandogli una nuova identità. Il detenuto non è padrone nemmeno degli oggetti personali, che gli sono stati confiscati all’ingresso, oggetti con cui si era fino a quel momento presentato al mondo, oggetti che ne hanno sottolineato il carattere, la storia personale. A questo c’è chi reagisce tagliandosi i polsi, inghiottendo vetri o spaccando tutto quello che gli capita a tiro; chi si ritira su se stesso preoccupandosi solo del soddisfacimento dei bisogni fisici e disinteressandosi di tutto il resto; chi cerca di recitare il ruolo del perfetto prigioniero e chi si convince che la realtà carceraria è il migliore dei mondi possibili.
Per quegli autori che, invece, pur consapevoli della realtà drammatica delle istituzioni totali, credono nella possibilità di renderle più vivibili superando l’idea della prigione come “punitive-custodial organization”, si tratta di creare un carcere dove la contrapposizione agenti-detenuti sia mediata da una forte presenza del personale di trattamento (medici, psicologi, educatori) nel ruolo di interprete delle esigenze dei reclusi aprendo così ad un modello relazionale più vicino all’interazione medico-paziente.
Stando così le cose uno spazio educativo all’interno del carcere, se esiste, non può nascere se non in una struttura che cerchi di sdrammatizzare le caratteristiche dell’istituzione totale: la spoliazione del sè, la comunicazione patologica (nel senso delineato dagli studiosi della pragmatica della comunicazione), la prisonizzazione (l’acquisizione delle abitudini, degli usi, dei costumi della cultura carceraria che porta all’apatia, alla perdita di interesse per ogni cosa che non riguardi direttamente l’individuo), la sessualità distorta e l’affettività negata. E’ necessario poi, per strappare il detenuto all’azione catalizzatrice della monotonia della vita carceraria e ottenere quel consenso senza il quale non è possibile nessuna relazione educativa, proporre attività lavorative e ricreative utilizzando tecniche di tipo relazionale per ampliare le comunicazioni e le possibilità di confronto.
Ma quanto del dibattito degli ultimi trent’anni e delle considerazioni svolte fin qui è penetrato nell’istituzione e ne ha orientato l’azione pedagogica? Prevale ancora oggi, nelle carceri italiane, un atteggiamento rieducativo o le rappresentazioni, i modelli culturali a cui fanno riferimento agenti ed educatori sono effettivamente influenzati dallo spirito che ha ispirato la riforma carceraria? A queste domande ho cercato di rispondere intervistando trentadue tra poliziotti penitenziari, operatori ed educatori del carcere minorile “C. Beccaria” di Milano proponendo loro alcune domande sulle caratteristiche dello spazio educativo, sugli scopi e sulle motivazioni del loro lavoro.

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3 Introduzione I know not whether Laws be right, Or whether Laws be wrong; All that we know who lie in gaol Is that the wall is strong; And that each day is like a year, A year whose days are long. Oscar Wilde L’asimmetria facciale, la fronte bassa, gli zigomi sporgenti, le enormi mascelle e la “fossetta occipitale mediana”, scoperta durante l’autopsia del brigante Vilella, erano gli attributi del “delinquente nato”, secondo Lombroso. I criminali erano stati classificati studiando la relazione tra le caratteristiche somatiche e costituzionali e la degenerazione morale dando vita a una rigida tipologia antropologica che distingueva i delinquenti in occasionali, d’abitudine, nati (istintivi o per tendenza), passionali e infermi di mente. Ma la “fossetta occipitale mediana”, tipica degli stadi embrionali e degli animali inferiori, rappresentava, per la nascente antropologia criminale, la prova di una catena evolutiva interrotta, di uno stadio primitivo della razza umana a cui alcuni uomini erano rimasti inchiodati e che non permetteva loro di adattarsi alla società moderna. La tensione che conduce al delitto era così analizzata a partire dallo scarto tra lo stadio evolutivo del delinquente e quello delle persone comuni. In anni più recenti, il tentativo di spiegare la criminalità a partire dalle caratteristiche somatiche, costituzionali o neuropsicologiche ha portato diversi studiosi a scandagliare le alterazioni elettroencefalografiche, l’epilessia, i danni cerebrali, gli squilibri ormonali, le alterazioni del sistema nervoso autonomo e le anomalie del corredo cromosomico alla ricerca chimerica di qualcosa che potesse spiegare, da un punto di vista bioantropologico, la delinquenza. Analisi di questo tipo risultano, però, inconcludenti e la criminologia tradizionale, sempre attenta al contributo delle discipline medico-psicologiche e di quelle sociali, ha cercato in altre direzioni di risolvere il proprio enigma. La psicologia e la psicoanalisi si sono assunte il compito di delineare la psicogenesi del delinquente puntando l’attenzione sugli elementi organici e costituzionali della personalità e sulle caratteristiche dell’ambiente nel quale l’individuo si sviluppa. Diversi sono i parametri che si offrono all’osservazione psicologica: famiglia disgregata (assenza di almeno uno dei genitori per un periodo significativo), carenza di cure materne (assenza della madre durante i primi anni di vita del bambino o della figura materna sostitutiva, indifferenza affettiva, ecc.), privazione paterna (padri che hanno rapporti perturbati con i figli, che non li amano, che li respingono, che incutono loro

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Informazioni tesi

  Autore: Giovanni Luca Presicci
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 1995-96
  Università: Università degli Studi di Milano
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Filosofia
  Relatore: Gustavo Charmet
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 219

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Parole chiave

carcere minorile
prigione
rieducazione
riformatorio

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