L'analisi della globalizzazione è oggetto di analisi di molti studiosi di scienze sociali, i quali si concentrano sulle sue caratteristiche e su come esse si riflettano in un ambito di studio specifico (comunicazione, politica, economia, cultura etc.). Molti, anche, sono stati e sono i sociologi che pongono al centro dei loro interessi la globalizzazione, intersecandone lo studio con l'analisi più ampia della società, definita da alcuni tardo-moderna (ad esempio Giddens), da altri post-moderna (Bauman, Harvey, Beck) e da altri ancora tardo industriale (Touraine), a seconda di quali accenti vengano maggiormente enfatizzati come tratti salienti e peculiari della società contemporanea.

Anthony Giddens affronta lo studio della globalizzazione dalla premessa che le trasformazioni sociali in corso non siano un radicale cambiamento rispetto al modo di vivere dei decenni precedenti alle ultime decadi del XX secolo, quanto, piuttosto, una loro radicalizzazione: in altre parole, le tendenze che caratterizzano la realtà sociale non necessitano di una nuova definizione come superamento, ma come accentuazione delle vecchie. Non saremmo, quindi, nella post modernità, bensì in una fase di tarda modernità, dove le tendenze della modernità avrebbero assunto una loro maturità.

All'interno di questo quadro, Giddens usa la globalizzazione come uno strumento concettuale per definire quell'insieme di processi sociali, economici, politici e culturali che influenzano la vita di ognuno, sebbene sia difficile per chiunque, persino per lo studioso, comprendere pienamente tutti i loro sviluppi ed effetti. La rapida diffusione del termine, d'altro canto, è proprio l'espressione della generalità dei cambiamenti in corso e, in pari tempo, sintomo dell'estrema confusione sul fenomeno.

Sono molte, infatti, le interpretazioni a riguardo, seppure Giddens individua due grandi definizioni: da una parte la visione scettica di chi crede che il concetto di globalizzazione sia solo un bel contenitore privo, però, di contenuto; dall'altra, la visione radicale di chi ritiene, al contrario, la globalizzazione un fenomeno reale come tangibili sono i suoi effetti su chiunque abiti il mondo.
Secondo i primi, una vera economia globale non esiste e, quali che siano i suoi effetti, lo stato mondiale dell'economia non è molto differente dai precedenti: gli stati continuano a trarre solo una piccola parte dei propri profitti dalle esportazioni mondiali, mentre la parte rilevante degli accordi economici sarebbe su scala regionale. In altre parole, la globalizzazione non sarebbe un termine utile a definire trasformazioni nella realtà sociali, ma un concetto ideologico messo in piedi dai neoliberisti per procedere allo smantellamento delle politiche sociali e definire una situazione mitica che ha poco da spartire con la reale condizione dei mercati.
Per i radicali, i secondi, il concetto di globalizzazione è invece utile in termini analitici in quanto delinea processi reali che si starebbero sviluppando sia in campo economico (lo sviluppo di un mercato sempre più globale) sia politico (la perdita da parte dello stato nazione di un'ampia parte della propria sovranità, specie nella definizione di politiche economiche).

Giddens crede come i radicali che l'economia stia diventando sempre più mondiale e dipendente dalle interconnessioni dei diversi mercati nazionali e regionali: gli scambi commerciali a livello mondiale sono maggiori rispetto al passato e includono sempre più prodotti, servizi e soprattutto capitale finanziario. Secondo il sociologo inglese, la caratteristica principale dell'economia attuale è proprio il trasferimento elettronico dei capitali che ha generato quel nuovo tipo di denaro definito da Giddens come “new global electronic money”. I soldi elettronici – i trasferimenti di capitali, le speculazioni monetarie, gli scambi azionari – hanno infatti un ruolo sempre più cruciale all'interno dell'economia mondiale (si parla infatti di finaziarizzazione dell'economia) così come in quelle nazionali: passate le fiere e poi le borse, oggi i nuovi luoghi degli scambi economici sono virtuali, online.

Ma la globalizzazione non è solamente un fenomeno economico ed è questa la critica del sociologo alle due visioni precedenti: troppo spesso, infatti, si parla di globalizzazione come fosse una questione meramente economica, trascurando le sue dimensioni tecnologiche, politiche, sociali e culturali.

Secondo Giddens, infatti, la globalizzazione è prima di tutto lo sviluppo tecnologico dei sistemi di comunicazione che ha permesso con l'elettronica lo scambio istantaneo di informazioni e la diffusione globale di notizie. In questo modo, la comunicazione elettronica ha cambiato gli schemi (textures) della nostra esperienza quotidiana e ne ha ampliato i suoi orizzonti: Silverstone, ad esempio, parla a proposito di conseguenze morali dei media in quanto ci permettono di conoscere persone negli angoli più remoti del mondo, portando nella nostra realtà la loro quotidianità e aggiungendo nuovi "oggetti" nel nostro universo morale.

La comunicazione elettronica, inoltre, è stata un fattore propulsivo di cambiamenti epocali: il declino dell'impero sovietico, ad esempio, è stato definito da alcuni come “la prima rivoluzione televisiva” riferendosi alle immagini del crollo del muro di Berlino trasmesse dagli schermi di tutto il mondo e alla diffusione dei modelli occidentali all'interno dei paesi sovietici attraverso le comunicazioni radiofoniche e televisive.
In altre parole, la globalizzazione, intesa come diffusione della comunicazione elettronica, ha cambiato il modo di rapportarci al mondo e agli altri, contribuendo a ridefinire gli strumenti delle nostre interpretazioni e le interpretazioni stesse.

Quando Giddens parla di mondo globale è interessato a sottolineare l'insieme di processi che lo definiscono e che operano spesso in direzioni contraddittorie fra loro, influenzandosi reciprocamente: ad esempio cita il caso delle tendenze della globalizzazione economica sulle comunità locali che tendono a sottrarre loro sempre più poteri per trasferirli alle arene virtuali dei mercati o delle multinazionali. Tali processi, infatti, portano ad un rafforzamento delle identità locali come risposta alla globalizzazione e all'ingerenza di fattori extra-locali. La contraddizione, sottolineata anche da Pierre Lévy, è che i localismi allora sono un esito culturale e tecnologico della globalizzazione stessa: come ogni sistema, anche il mondo globale produce i suoi oppositori attraverso e all'interno del sistema stesso.
Per questo motivo, l'incontro tra locale e globale non deve essere pensato, come accade nell'errore più comune, solo come una questione di repulsione o integrazione tra attori isolati e contrapposti, piuttosto come contaminazione, ibridazione (per usare termini cari a James Clifford): ciò significa che le culture locali incontrano il mondo e i suoi differenti modelli culturali, modellandosi entro nuove definizioni e parametri, mescolando gli elementi e riproducendosi in una continua sintesi.

Un altro aspetto che Giddens è interessato a sollevare della globalizzazione è la dimensione della sua portata: molti studiosi, critica il sociologo, considerano il fenomeno come una questione macro sociale, che interessa solamente i grandi sistemi (i mercati finanziari, gli stati, etc.), mentre in realtà le sue conseguenze si producono anche e soprattutto nella vita di ogni giorno. Le modalità attraverso le quali stringere nuove relazioni si ampliano e diventano sempre più ambigui; i tempi di vita si dilatano (le comunicazioni e i trasporti più veloci permettono di vivere un numero sempre maggiore di esperienze); i sistemi tradizionali della famiglia o del vicinato cambiano; le conoscenze aumentano e spesso diventano più condivise con un accesso alle informazioni sempre più oggetto di potere e conflitti.
Ancora una volta appare chiaro come per Giddens la globalizzazione è un termine che descrive un fenomeno reale che fa delle interconnessioni e delle contaminazioni un aspetto cruciale della sua struttura.

Ma quanto detto fin qui non deve trarre in inganno: la globalizzazione, riconosce Giddens, non ha solo effetti positivi. Il mondo globale per il ragazzo che abita a Dagoretto (quartiere estremamente povero di Nairobi) è distante centinaia di chilometri dalle spiagge dorate di Malindi e molto vicino agli slum di Rio de Janeiro. Per i loro abitanti la globalizzazione, dice il sociologo inglese, appare più come un'occidentalizzazione, o un'americanizzazione, ossia un processo nel quale le società o gli stati più deboli economicamente e tecnologicamente hanno una piccola parte. La globalizzazione, inoltre, vista attraverso lo sviluppo dell'economia mondiale, appare come un meccanismo di espansione del divario delle ineguaglianze fra gli stati e di distruzione delle differenze a livello locale.
Tuttavia, questi processi, insieme al cambiamento climatico prodotto dallo sfruttamento delle risorse combustibili, sono per Giddens solo una parte, seppure rilevante e urgente, della globalizzazione che, sostiene il sociologo, diviene via via più decentrata, ossia non controllata da alcun centro (sia esso un gruppo di nazioni o un insieme di multinazionali). Anzi, Giddens crede che l'occidentalizzazione sia una faccia del fenomeno, alla quale corrisponde l'influenza crescente che i paesi non occidentali stanno sempre più imponendo ai paesi sviluppati. A tal proposito egli parla in modo provocatorio di colonizzazione al contrario (“reverse colonization”) per descrivere tutti quei casi in cui paesi in via di sviluppo hanno imposto determinate condizioni ai paesi più ricchi (e si potrebbero citare le difficoltà attuali e sempre maggiori riscontrate dai paesi del nord del mondo nelle trattative commerciali del WTO, dove il Brasile ha visto recentemente riconosciuto dall'istituzione multilaterale del commercio la legittimità delle sue richieste nei confronti degli Usa).

Secondo Giddens i sostenitori di una visione della globalizzazione solamente come promozione di disuguaglianze guardano esclusivamente alla sua dimensione economica e, in particolare, al libero commercio senza regole, il quale si traduce per un'economia debole in una maggiore dipendenza dagli istituti multilaterali (fondi e sussidi) e dai mercati mondiali (borse, istituti di credito, mercati monetari etc.). Per il sociologo inglese il problema, però, non sarebbe la presenza del libero mercato, bensì l'assenza di un contesto istituzionale che gli dia una forma adatta a perseguire un'equa redistribuzione della ricchezza mondiale. In altre parole Giddens sconsiglia di identificare la globalizzazione con il neoliberismo: quest'ultimo sarebbe soltanto una sua declinazione che potrebbe essere corretta con un insieme di regole istituzionali che definiscano quanto un'economia nazionale debba essere esposta ai mercati mondiali.
Questo ultimo punto, la necessità di istituzioni che regolino i mercati, richiama nell'approccio di Giddens la questione della forza del potere politico nel mondo globalizzato. Secondo il sociologo inglese, gli stati nazione e gli organismi sovranazionali hanno ancora un ruolo da giocare e un potere da esercitare, ma perché essi diventino efficaci necessitano una riformulazione delle strutture e delle modalità di funzionamento.

In altre parole, Giddens sostiene la necessità che le istituzioni tradizionali non vengano smantellate, bensì ripensate e adattate ai nuovi compiti che sono chiamati a compiere nella realtà sociale attuale, affinché sia possibile controllare democraticamente proprio quel complesso di cambiamenti e tendenze che è la globalizzazione, oggi percepita spesso come selavaggia e senza etica. Una mancanza che genera nell'essere umano un senso di ansietà, di incertezza perché chiamato a risolvere da solo, privatamente, problemi di ordine strutturale: ossia un senso di impotenza e inquietudine che riflette proprio l'incapacità delle istituzioni di imporre una volontà alle forze e ai cambiamenti in corso.