L'atto del mangiare, così come i cibi, è soggetto a forme di organizzazione sociale che stabiliscono norme e regole per un'azione che è tanto naturale quanto regolata socialmente. In tal senso l'azione del mangiare ha valenza di rito, sia come sequenza di regole, sia come momento caratterizzato da precisi significati sociali che di seguito verranno analizzati.
Infatti, a partire dalla distribuzione dell'atto durante la giornata, fino alla sua scomposizione in una successione di gesti e all'ordine dei cibi presentati in tavola, quando mangiamo siamo inseriti in un ordine socio-culturale che ci guida, forma le nostre preferenze e fornisce significati.
Vediamone alcuni aspetti.

Innanzitutto ogni società stabilisce cosa sia lecito mangiare e cosa invece sia repellente. La classificazione dei cibi in commestibili e non commestibili richiama il contributo di Mary Douglas sulla purezza e sull'esigenza della classificazione nell'ordine sociale: le proibizioni culturali non hanno solo una funzione nutrizionale, ma servono anche a rendere pubblica l'appartenenza ad un determinato gruppo culturale, a definire l'identità collettiva, a porre ordine nel mondo.

In secondo luogo, l'atto del mangiare è sempre scomposto in diverse fasi e per ognuna di esse vi sono norme specifiche: le azioni preliminari che vanno dalla raccolta del materiale grezzo fino alla sua trasformazione e preparazione in cibo hanno regole precise. Nelle nostre società moderne alcuni aspetti rituali riguardanti la raccolta si sono inevitabilmente persi – o forse si sono solo trasformati (ad esempio le norme relative ai marchi di denominazione d'origine) – a causa della produzione industriale delle materie prime; al contrario, in molte aree delle società del Sud del Mondo alcuni rituali sono ancora presenti. In India, ad esempio, il momento della semina e della raccolta del riso è accompagnato da feste e cerimonie specifiche; nella religione ebraica la Torah prescrive norme per la macellazione di animali sia terrestri che uccelli (escluso i pesci). E' evidente che norme di questo genere hanno funzioni sociali e simboliche: da una parte, indicare lo svolgimento corretto delle azioni per assicurarsi che il materiale non si guasti (nella raccolta o nella macellazione); dall'altra, sacralizzare il cibo in un contesto di scarsità o privazione. Nelle società più ricche, l'abbondanza ha generato un declino del cibo come momento sacro: non più dono di dio o della provvidenza, ma merce e oggetto di scambio dove il vincolo del costo della materia prima e del lavoro si collega al margine di guadagno e solo indirettamente alla sussistenza.

Altro aspetto interessante della preparazione del cibo è la sua trasformazione: è quasi una considerazione universale che i cibi siano soggetti a regole che determinano il loro trattamento per essere presentate a tavola come sostanze da introdursi nell'organismo, eliminandone così possibili pericoli di contaminazione. Pericoli non solo reali, per i quali sono adottati regole igieniche, ma anche simboliche, dove i rituali segnano il confine fra purezza e impurità nelle classificazioni di ogni cultura.

Diverse sono le regole culturali che ogni società ha elaborato per la trasformazione del cibo affinché sia commestibile socialmente: il casherut ebraico, prescritto dalla Torah, fa divieto di cucinare contemporaneamente carne e latticini; le norme comunitarie indicano quali procedure devono essere rispettate perché un cibo possa essere commercializzato (infatti, nella cultura occidentale a seguito delle sue profonde trasformazioni, commestibile diviene sinonimo di commercializzazione).
La trasformazione del cibo avviene molto spesso attraverso l'utilizzo di una fonte di calore, il fuoco o l'essiccazione, ed è interessante notare come l'uso del fuoco sia stato assunto quale principio per distinguere fra mondo animale e uomini.

Molti studiosi hanno visto nella necessità di trasformare la natura del cibo come una sorta di parallelismo con la trasformazione di un essere umano in un membro della società attraverso i riti di iniziazione e di passaggio studiati da Van Gennepp. In altre parole, come la natura si trasforma in cultura nel trattamento e nella preparazione del cibo, ugualmente con i riti l'essere umano assume lo stato di essere sociale.

Una considerazione interessante è vedere come queste due sfere, cibo e trasformazione dello status sociale dell'individuo, hanno un punto di contatto proprio nei rituali di passaggio: l'offerta di cibo, preparato o in forma grezza (capi di bestiame, raccolto etc.), costituisce un momento centrale di questi rituali e gli esempi sono davvero molti. Dai pranzi tipici e abbondanti durante le cerimonie religiose della nostra cultura (i matrimoni o le comunioni sono occasioni per ingrassare di qualche chilo ogni volta), al dono della birra e delle vacche durante lo scambio della dote nella cultura rwandese; dall'isolamento e dall'astinenza del cibo durante i riti degli Indiani d'America al digiuno del Ramadan islamico.

Il legame tra ritualità e cibo ha una valenza sociale non solo perché segna il momento del passaggio da un ruolo sociale ad un altro, ma anche per altri significati. In primis, l'ostentazione dell'abbondanza di cibo durante i riti hanno la funzione di mostrare la ricchezza, e dunque il potere, della famiglia, del gruppo o della comunità che prepara la cerimonia o di simboleggiare le più importanti distinzioni sociali (con l'offerta di cibo si mostra non solo il proprio status ma anche il prestigio in cui si tiene la persona ospitata); in secondo luogo, l'atto del mangiare costituisce di per sé un rito, in quanto scandito da norme specifiche, attorno al quale si costruisce la socialità.
In uno studio sul genocidio rwandese (Leave none to tell the story: genocide in Rwanda, 1999), ad esempio, si sottolinea come la forza persuasiva della propaganda diffusa attraverso l'emittente radiofonica RTMC (Radio Televisione Mille Colline) era rafforzata dal fatto che le conversazioni attorno all'odio razziale trasmesse alla radio ricreavano un'atmosfera distesa simile ai momenti di incontro attorno al cibo, tipici della cultura ruandese, quando si mangiano insieme banane grigliate e si beve birra.

In tutte le culture l'atto del mangiare è un momento di condivisione e di solidarietà, così come di esclusione e di privilegio. Attraverso il cibo si possono costruire e rafforzare i legami tra i membri della famiglia o del gruppo: non è un caso che oggi, nella società occidentale, si lamenta un declino della famiglia sostenendo il cliché che a tavola tra genitori e figli spesso a parlare sia la televisione. In realtà, al di là dell'alienazione che può comportare il mezzo televisivo, ciò che sgretola il momento familiare di condivisione del cibo sono i ritmi di vita sempre più celeri e flessibili imposti dalla vita economica e culturale: ciò non toglie che la socialità anche nelle nostre società passi ancora spesso attraverso il cibo, seppure con modalità e finalità differenti che rendono più difficile la costruzione di un senso di comunità.
Dai pranzi di lavoro alle serate tra amici, dai raduni natalizi ai brevi spuntini fra colleghi, il cibo resta ancora un momento fondamentale per costruire i legami sociali (e non è un caso che in molte parti d'Italia si è soliti dire “di non aver mai mangiato nello stesso piatto” per far capire che fra due persone non vi è affatto confidenza o intimità) pur su una base più frammentata e strumentale: gli incontri di lavoro o le cene di fine anno servono spesso a definire obiettivi comuni o a mantenere e rafforzare uno spirito di squadra in previsione di un più efficace lavoro, piuttosto che rinsaldare legami d'affetto e di solidarietà.

Ma il cibo segna anche esclusione e privazione. Le distanze sempre più accentuate tra Nord e Sud del Mondo e le statistiche riguardanti il numero di persone prive del cibo sufficiente ad assicurare il sostentamento sono sempre più agghiaccianti. Anche ad un livello micro-sociale, il cibo segna la definizione del gruppo, marca l'identità collettiva e individuale: se offrire una cena o un pezzo della propria merenda indica solidarietà e amicizia, escludere dalla condivisione significa estromissione, diffidenza e allontanamento. Il cibo dunque ha un carattere fondamentale nelle relazioni sociali ed è un veicolo, spesso inconsapevole, delle proprie simpatie o antipatie che ha profonde implicazioni: non è solo un semplice gesto, ma una struttura di significati con la quale ci nutriamo e allo stesso tempo comunichiamo.

Infine, vi sono le norme che regolano l'atto stesso del mangiare e il consumo dei cibi: dal nostro Galateo al divieto imposto alle caste indù più elevate di bere liquidi, anche se caldi, entrando in contatto con il bicchiere, la struttura dei pasti e il suo consumo è la realizzazione di certe combinazioni di gusti, ingredienti e azioni simile, nella lingua parlata, alle regole grammaticali.
Per questo in antropologia si parla spesso di una grammatica del pasto per riferirsi alla sequenza con la quale i piatti vengono serviti e i modi attraverso i quali li consumiamo.
La sequenza dei piatti, in particolare modo, stabilisce la combinazione di cibi accettabili entro un ordine preciso e culturale. Le distinzioni fondamentali che caratterizzano le possibili combinazioni del nostro contesto culturale sono le seguenti: caldo/freddo; dolce/salato; asciutto/morbido; amido/non amido. Tali elementi strutturano i nostri pasti così come altri elementi strutturano i pranzi e le cene nelle altre culture del mondo.

Alla fine di questo breve percorso sul cibo come pratica sociale ciò che rimane è una considerazione fondamentale: spesso di fronte a usanze differenti siamo soliti dire che è questione di abitudini, in realtà una pratica sociale è molto più profonda, radicata e complessa e per comprenderla bisogna guardare non solo a come un individuo si è sempre comportato, ma anche a cosa quell'individuo pensa e ai significati che attribuisce a quella pratica nel contesto in cui vive.
L'atto del mangiare, in altre parole, dice molto sulle persone, sulla loro cultura e sulle loro relazioni: anche se, a bocca piena, non si dovrebbe parlare!


di Manuel Antonini