Video, cinema, musica, libri sono, insieme ai marchi e agli slogan pubblicitari, gli strumenti più efficaci della civiltà mercantile, tutti costruiti come prodotti da esportazione volti a creare un gusto planetario comune intorno a segni e simboli condivisi.
La maggior parte di questo materiale, per lo più veicolato dai mezzi di comunicazione di massa, si propone come strumento di intrattenimento e svago, ma finisce per ispirare una visione della vita e influenzare abitudini e comportamenti.
Il risultato dell'unione delle tecnologie delle telecomunicazioni con informazione e intrattenimento è stato definito da Barber "telesettore dell'infointrattenimento". Esso possiede un'importanza non indifferente nel quadro della civiltà postmoderna perché, a ben guardare, è il vero e unico detentore del potere: “chi controlla l'informazione e le comunicazioni globali è potenzialmente il padrone del pianeta". La classe di specialisti di questo settore crea e gestisce non i manufatti, bensì i beni immateriali, la parole, le immagini, i suoni e quindi indirettamente i gusti, le idee, i sentimenti della società. Il potere di cui stiamo parlando non ha niente a che vedere con l'assoggettamento fisico degli esseri umani e non pare neanche ricercato intenzionalmente, ma sembra sottostare alle esigenze di mercato e alla conquista di spazi, mentali più che fisici, per aumentare i profitti. Il fatto che non si tratti di potere in termini politici non rende di certo più rassicurante il quadro di avvenimenti che mettono in pericolo intere culture e minano l'autonomia dell'individuo e delle nazioni.

La situazione è ulteriormente aggravata dalla pressoché completa mancanza di norme, a cui i fenomeni transnazionali spesso si accompagnano. Il campo delle telecomunicazioni non fa eccezione: le nuove tecnologie attraversano i confini come vogliono, senza essere tecnicamente suscettibili di venir regolate da leggi internazionali di qualsiasi tipo. Ci si ricollega qui inevitabilmente ad un problema a cui abbiamo già accennato brevemente, cioè quello che chiama in causa l'idea stessa di istituzione globale, nata dalla cooperazione tra gli stati sovrani, come garante di democrazia e libertà. Questo è un obbiettivo posto da molti ma ancora lontano da un'efficace realizzazione.

La gravità dei processi in corso e soprattutto la paura per le conseguenze disastrose ad essi correlate porta Barber ad usare termini forti ed incisivi: in un passo del suo libro Guerra Santa contro McMondo egli parla di totalitarismo commerciale e monopoli culturali, in polemica con il concetto di sinergia delle multinazionali dell'informazione, espressione che egli definisce "un eufemismo". In Occidente si sta verificando un fenomeno di integrazione verticale dei media, attraverso un processo di fusione che vede la progressiva riduzione di autonomia delle singole aziende a favore di grandi imprese il cui unico valore è il profitto.
La mania dell'acquisizione è iniziata nei primi anni ottanta, con centinaia di rilevanti fusioni, spesso incentivate da un crescente squilibrio tra talento creativo e miglioramento della parte tecnologica. Il mutamento ha avuto inevitabili e disastrose ripercussioni anche sui paesi del Sud del mondo che, per la maggior parte, non posseggono se non una limitata rete di produzione e distribuzione dell'informazione a livello locale e si basano sui sistemi mediatici del Nord. Il mercato è dominato da 300 società di cui 144 appartengono all'America del Nord, 80 all'Europa, 49 al Giappone e 27 al resto del mondo.

Per fare un esempio tra i più significativi, possiamo considerare il mercato dell'informazione giornalistica, che è il quasi monopolio di pochissime agenzie dei paesi più ricchi e sviluppati (Associated Press e United Press, Reuter, France-Presse gestiscono l'80% del flusso delle notizie). Citiamo ancora qualche dato: il 65% delle informazioni mondiali partono dagli Stati Uniti; dal 30 al 70% delle trasmissioni televisive del Terzo Mondo è importato dall'Occidente.

Le difficoltà non riguardano solo la partecipazione alla costruzione delle notizie e dei flussi comunicativi, ma anche l'accesso stesso ai media, soprattutto a quelli, come Internet, che permetterebbero un certo grado di interattività.
Dobbiamo ancora una volta costatare che le nazioni e le classi sociali escluse dal circuito delle telecomunicazioni sono sempre le stesse: nell'Africa subsahariana c'è in media una linea telefonica ogni duecento abitanti. Il continente africano, che ospita il 12% della popolazione mondiale, ha solo il 2% delle linee telefoniche, meno delle linee della sola città di New York; i computer presenti sul suo territorio sono due milioni e mezzo, mentre solo in Italia ne abbiamo circa otto milioni. Nel 1995 il 15% più ricco della popolazione mondiale possedeva il 75% delle infrastrutture telefoniche. Gli abbonamenti "full internet", che in Italia sono ormai gratuiti, in un paese africano arrivano a costare fino a 2000 dollari; ancora più alti i costi per gli spazi web su cui ospitare pagine ipertestuali. Anche questa è una grave forma di emarginazione dalle strutture di informazione.

Queste barriere di varia natura, che troviamo disseminate sulla frontiera virtuale che separa l'Occidente dal Terzo Mondo, non sono in realtà ostacoli oggettivi, ma il risultato della scelta politica di sfruttare la comunicazione seguendo le leggi del mercato e non come spazio in cui garantire a tutti gli stessi diritti e le stesse possibilità. Finché la rete mondiale dell'informazione resta lo specchio del Nord alfabetizzato e informatizzato, il villaggio globale rimarrà solo una lontana utopia. E dovremo invece parlare di un villaggio globalizzato, in cui sono rispecchiate tutte le contraddizioni e le ingiustizie di una società altrettanto globalizzata e fondamentalmente ingiusta.

Nel villaggio globalizzato, gli ostacoli che si frappongono ad una comunicazione libera e paritaria sono molti. Ne cito alcuni tra i più importanti. Ci sono stati in cui da anni è stata imposta una censura rigida e restrittiva che mette dei freni vigorosi alla circolazione delle informazioni. Caso emblematico in questo senso è quello della Cina. L'utilizzo della telematica per sottrarre alla censura informazioni "non allineate", sperimentato nel 1989 durante la crisi di Piazza Tien An Men, ha spinto il Ministero degli Interni cinese ad adottare delle contromisure, realizzando dei sistemi per filtrare la posta elettronica e i messaggi che raggiungono la Cina attraverso le reti di computer. Il risultato è una censura sistematica di tutte le informazioni che potrebbero danneggiare il regime. A partire dal 15 febbraio 1996, i cittadini della repubblica popolare cinese sono obbligati a sottoporsi ad un'operazione di schedatura presso gli uffici della polizia per poter utilizzare la posta elettronica e gli altri servizi di rete. Anche a Singapore, in Indonesia e in molti altri paesi i governi continuano ad innalzare delle barriere per il filtraggio e il controllo delle informazioni che arrivano dall'estero tramite Internet.

Un secondo ostacolo è rappresentato dalla distribuzione delle risorse energetiche. Per quei due miliardi di persone che non possono accedere all'energia elettrica le "autostrade dell'informazione" sono inaccessibili. E dove c'è una presa di corrente non è detto e, anzi, è assai improbabile che ci siano le infrastrutture tecnologiche che permettono di entrare nel circuito comunicativo.
Ma forse, nel villaggio globalizzato, l'ostacolo più importante è rappresentato dall'analfabetismo, che colpisce esattamente quel miliardo di persone (di cui due terzi sono donne) che vive al di sotto della soglia di povertà, privo degli strumenti linguistici per scrivere leggere e comunicare le proprie esperienze.

In una situazione del genere, in cui i messaggi arrivano con difficoltà e, quando arrivano, spesso non si dispone delle capacità critiche per capirli e decifrarli in maniera corretta, è facile immaginare come i flussi comunicativi indiscutibilmente unidirezionali abbiano un effetto devastante tanto maggiore quanto minore è il grado di civilizzazione delle popolazioni a cui si rivolgono. Essi finiscono per influenzare in maniera incontrollata desideri, bisogni, forme di comportamento, mentalità e modi di vivere di chi li riceve, a livello planetario.

Non si può non dare ragione a McLuhan: nella nostra società il mezzo è veramente e letteralmente il messaggio; e l'hanno capito bene i detentori del potere economico. Usando le sue parole, ciò significa che "le conseguenze individuali e sociali di ogni medium, cioè di ogni estensione di noi stessi, derivano dalle nuove proporzioni introdotte nelle nostre questioni personali da ognuna di tali estensioni o da ogni nuova tecnologia", e adesso queste proporzioni sono di ordine planetario.


Articolo tratto dalla tesi di Lorenza Fontana, Globalizzazione e occidentalizzazione del mondo. Problemi e interpretazioni