A cavallo tra il XIX ed il XX secolo un classico della sociologia quale è Emile Durkheim teorizzava il passaggio da una società tradizionale caratterizzata dal prevalere di una forte coscienza collettiva alla raggiunta maturità di quella industriale, altamente specializzata nel lavoro e, di conseguenza, molto corporativa e settoriale, ma non per questo ridotta all'osso dell'individualismo.

L'importanza di tale concettualizzazione si incrementa notevolmente allorché si considera l'analisi dal punto di vista giuridico: in Durkheim, infatti, l'epocale trasformazione delle relazioni sociali e delle istituzioni, avvenuta di pari passo con la Rivoluzione industriale e la Rivoluzione francese, otteneva un'efficace riscontro empirico nell'avvicendamento del cosiddetto diritto restitutivo (il diritto civile, privato diventa un elemento della cosiddetta solidarietà organica) rispetto al, fino ad allora esclusivo, diritto penale. La complessità raggiunta nel grado di relazioni sociali/economiche dagli individui rendeva necessaria la formulazione di un sistema di regole appropriato che esulava dalla natura sanzionatoria del diritto penale rispetto ad un'agire non conforme alla coscienza morale. In questo autore il tema della specializzazione e, quindi, del radicale mutamento dei rapporti di lavoro è centrale (De la division du travail social, 1893), infatti, è proprio dalla natura contrattuale delle relazioni sociali che muove la sua teorizzazione:

"La funzione primaria della pena è, perciò, di tutelare e di riaffermare la conscience collective di fronte agli atti che mettono in dubbio la sua sacra inviolabilità. […] La progressiva sostituzione del diritto repressivo con quello restitutivo è una tendenza storica che è in connessione con il grado di sviluppo di una società: quanto più è elevato il livello di sviluppo sociale, tanto maggiore è, relativamente, la proporzione di leggi restitutive presenti all'interno della struttura giuridica. L'elemento principale che è alla base del diritto repressivo – la concezione dell'espiazione attraverso la pena – è totalmente assente nel diritto restitutivo. Di conseguenza, la forma sociale che è caratterizzata dall'esistenza di questo secondo tipo di diritto deve essere distinta da quella espressa dal diritto penale. L'esistenza del diritto restitutivo presuppone infatti per se stessa il prevalere della specializzazione nella divisione del lavoro, dal momento che protegge i diritti degli individui nei riguardi della proprietà privata o nei confronti degli altri individui, che hanno una posizione sociale differente", ( A. Giddens su E. Durkheim, 1971).

Il diritto del lavoro, porzione determinante del diritto civile, diviene così il prodotto, la risultante di un grande mutamento nella struttura di una società fino ad allora essenzialmente basata su modi di produzione agricolo/artigianali; di fronte a questo mutamento, la stessa sociologia scientifica ha cominciato a muovere i suoi primi passi. Dal punto di vista dell'organizzazione politica della società, i diritti dei lavoratori, senza dimenticare per questo quello dell'iniziativa privata, hanno finito con l'assumere un ruolo centrale all'interno delle odierne democrazie costituzionali. Da un lato, è lo status di lavoratore che, in qualche modo, legittima la partecipazione politica del cittadino, dall'altro, ricade sullo Stato l'onere di perseguire e favorire un regime di piena occupazione e di welfare state:

"L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro", (art. 1, com. 1, Cost.). "È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione economica e sociale del Paese", (art. 3, com. 2, Cost.).

Sulla base di questi presupposti, il rapporto di lavoro, nella sua natura contrattuale, nasce teoricamente dall'accordo tra le parti, in realtà la sua declinazione nel diritto vede come soggetto protagonista quasi esclusivamente il lavoratore. Nessuna norma del codice civile definisce o inserisce fra i contratti disciplinati, quello del lavoro. Stabilisce, invece, all'art. 2094, chi sia il prestatore di lavoro subordinato, ovvero il riferimento esplicito all'attore principale cui il codice si riferisce. La speciale e delicata dedizione personale alla esecuzione del rapporto si pone, scrivono i giuristi, come centro dell'intera situazione giuridica. Inoltre, il complesso di poteri datoriali che scaturiscono dal rapporto contrattuale (condizione di subordinazione) hanno sempre costituito il punto di intervento privilegiato del legislatore. Il potere disciplinare del datore di lavoro, ad esempio, è fortemente regolato e procedimentalizzato, il diritto di sciopero lo è solo nella misura in cui impedisce l'erogazione di servizi/beni essenziali e l'esercizio delle altrui libertà fondamentali.

Tuttavia, sulla base dei profondi e documentati mutamenti avvenuti nell'universo della produzione, negli ultimi decenni, il mercato del lavoro ha registrato un ulteriore ed epocale passaggio verso una rinnovata specializzazione e differenziazione delle mansioni e delle professionalità, orientando la produzione di norme nella direzione di una radicale trasformazione delle tradizionali categorie del lavoro. Il diritto restitutivo così chiamato da Durkheim, limitando l'autonomia privata per effetto della legge, diviene oggetto di un'approfondita revisione per quanto riguarda la natura del rapporto di lavoro consolidando, per via legislativa, una rigorosa frammentazione ed ibridazione delle modalità contrattuali. Questo fatto ha sicuramente indirizzato la normativa e la giurisprudenza nella direzione della considerazione della maggiore eterogeneità e mutevolezza della richiesta di prestazioni lavorative (dal semplice dualismo lavoro subordinato e autonomo si è passati, mantenendo intatte le tradizionali categorie, al lavoro parasubordinato, a progetto, alla somministrazione di lavoro, etc;), sviluppando, altresì, l'esigenza di ancorare la specificità in cui si risolve un rapporto di lavoro ad una serie di criteri legittimanti la qualità della prestazione (oltre ai tradizionali criteri di distinzione tra lavoro subordinato ed autonomo, retribuzione orario e luogo, se ne sono aggiunti altri come la reiterazione del rapporto determinato, la sussistenza di un progetto e di un obiettivo, la validità dei criteri di somministrazione dovuti alla costituzione di rapporti di lavoro che in realtà celano forme di lavoro subordinato e continuativo).

Sul piano sociale è indispensabile sottolineare che tali sviluppi hanno chiaramente re-indirizzato il contributo delle dottrine all'attenzione nei confronti di un rinnovato dibattito, non più riguardante la reificazione dei rapporti dovuta allo stravolgimento delle tradizionali strutture familistico/produttive, come fu nel caso della novella sociologia del XIX secolo, bensì nella prospettiva dello studio di una nuova concezione del lavoratore e, soprattutto, nell'arco della vita di un giovane, delle modalità di accesso al mercato del lavoro. "I lavori flessibili comportano rilevanti costi personali e sociali a carico dell'individuo, della famiglia, della comunità. Ciò avviene perché tali lavori non sono soltanto un modo diverso di lavorare, coerente con le esigenze della nuova economia. Sono un modo di lavorare che rispetto al lavoro normale- che indubbiamente aveva e ha i suoi costi per le persone – impone oneri di natura insolita. Simili costi non si possono sottacere, o dar per scontati che non esistano, adducendo a motivo che un numero crescente di persone, in specie giovani, sembra ormai accettare senza drammi di svolgerli, o anzi dichiara di gradirli. Anzitutto, ci sono tanti altri, giovani e non giovani, per i quali i contratti a termine, le collaborazioni dette continuative ma in realtà discontinue, il lavoro intermittente, a chiamata, on the road o semplicemente occasionale, oppure in nero, sono percepibili, alla lunga, come una ferita dell'esistenza, una fonte immeritata di ansia, una diminuzione dei diritti di cittadinanza che si solevano dare per scontati", (L. Gallino, 2007).

Osservando i più recenti dati del Cnel (Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro) sul mercato del lavoro è possibile rilevare che nel 2007, l'occupazione dipendente a termine - che, nella classificazione usata dall'Istat nella rilevazione sulle forze di lavoro, comprende i contratti a tempo determinato, il lavoro stagionale, i contratti di apprendistato o di formazione lavoro e il lavoro interinale, non già, quindi, l'universo parasubordinato - tra il 2004 e il 2007 è cresciuta complessivamente del 18.8%, contribuendo per oltre un terzo all'incremento osservato dall'occupazione dipendente totale nello stesso periodo. La sua rilevanza è quindi tutt'altro che trascurabile: nell'arco di un quadriennio l'incidenza sull'occupazione dipendente totale è cresciuta dall'11.8% del 2004 al 13.2% del 2007. Nel 2007 quasi 2.3 milioni di persone sono risultate dipendenti a termine.

Secondo alcuni studiosi il lavoro a termine non è altro che un passaggio finalizzato all'acquisizione di uno status di lavoratore permanente. Il lavoro a termine verrebbe infatti usato come selezione dei lavoratori da assumere poi in forma più stabile (O'Flaherty, 1995) dato che, nello specifico, molte capacità richieste non sono facilmente osservabili senza un periodo di prova; il lavoro a termine, inoltre, può essere una sorta di formazione nel lavoro, di implementazione del proprio bagaglio culturale. Inoltre, l'essere dentro il mercato del lavoro, anche se solo come lavoratore a termine, consente di creare delle reti di contatti che aumentano le probabilità per il lavoratore di trovare un'occupazione stabile. Ma, secondo altre posizioni, "il lavoro a termine può diventare una trappola: perché sussiste una selezione avversa, ma anche perché l'aver svolto lavori a termine per un lungo periodo talvolta può generare uno stigma, che porta a discriminare tali lavoratori in assenza di informazioni circa le loro qualità (dato che si suppone che la permanenza nel lavoro a termine sia sintomo di minore produttività). La probabilità di trovare un lavoro permanente cresce con la durata dei precedenti momenti d'occupazione (Gagliarducci, 2005), ma decresce con l'aumentare del numero di queste esperienze: il lavoro temporaneo per sé non è pregiudizievole per le opportunità di carriera futura, ma lo può essere la sua ripetizione", (Cnel, 2007).

Se, da un lato, è operazione doverosa affermare che, in Italia, la stragrande maggioranza dei lavoratori continua a rientrare nella categoria dei subordinati a tempo indeterminato, con tutti i diritti e le tutele del caso, dall'altro un modello nuovo và progressivamente affermandosi rendendo quanto mai urgente la preoccupazione nei confronti di quelle lacune normative, spesso autorevolmente evidenziate, che rendono inapplicati, per queste parti di popolazione attiva, i diritti e le tutele costituzionalmente garantite, primi fra tutti il diritto ad una previdenza sociale, ad una retribuzione sufficiente e a congrui ammortizzatori sociali nel caso di involontaria disoccupazione.

Andrea Villa. Articolo pubblicato anche sul sito www.benecomune.net