Questa lenta e graduale rivoluzione che ha portato all’affermazione del teatro sociale parte da lontano, addirittura dal secondo dopo guerra, con la rinuncia da parte di Mario Apollonio della direzione del Piccolo Teatro di Milano, dovuta alla sua netta contrapposizione alla concezione di un teatro elitario, che si ponesse in atteggiamento autoritario e didattico nei confronti del pubblico, del “popolo” (sostenuto invece dal collega Strehler), a favore invece di un teatro d’arte che facesse del coro il suo motore propulsore e che procedesse capillarmente, per “gemmazione”1.
Da questo momento le sollecitazioni del cosiddetto Teatro d’Avanguardia stimolarono una continua contestazione di ogni forma performativa repressiva e ideologizzata e proposero un teatro che si ponesse come un vero e proprio atto sociale, collettivo, autonomo. Basti pensare a figure come quelle prima di Grotowski, del Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina; poi dell’Odin Theatre di Barba, Peter Brook e del Bread and Puppet, per citare solo i più famosi.

Molto si deve alla ricerca del teatro laboratorio (che ebbe Copeau come precursore) e che rifondò le attitudini creative sia per quanto riguarda la drammaturgia (diventata di gruppo, non più scritta a priori, ma costruita sulla vita), sia per quanto riguarda la formazione dei professionisti (attraverso workshop e stage).

Dopo gli anni '70, la contestazione si trasformò in vera e propria crisi delle istituzioni teatrali ed educative. Fu così che, grazie anche ad altri apporti significativi (ad esempio Moreno e il teatro della spontaneità), iniziò il movimento dell’animazione teatrale che coinvolse, rigenerò e contagiò tre ambiti principalmente: le scuole, i teatri e le istituzioni.
Possiamo considerare l’animazione teatrale come il ceppo dal quale sorsero molteplici strade di sperimentazione di questa sorta di utopia; in America Latina si sviluppò, ad opera di Augusto Boal, il teatro dell’oppresso, come racconto e sperimentazione di situazioni di oppressione interiori (il celebre Flic dans le tête, il poliziotto dentro la testa) o esteriori (i regimi autoritari del Brasile e dell’Argentina erano un esempio lampante); le tecniche erano quelle del Teatro Giornale, del Teatro Immagine, del Teatro Forum e del Teatro Invisibile2, sempre alla ricerca delle maschere di comportamento imposte dall’insieme dei ruoli che una persona deve eseguire.

Accanto al Teatro dell’Oppresso, due nuove interessanti strade furono percorse nel tentativo di coniugare le potenzialità “terapeutiche” del teatro (attraverso le tecniche di improvvisazione che introducono processi di identificazione e transfert) con il vero e proprio trattamento e cura di soggetti in difficoltà psicosociale: sto parlando dello psicodramma e della drammaterapia.
Il primo, ideato da Jacob Levy Moreno nel 1917 (ma realizzato solo a partire dagli anni '40 e '50) prevede un lavoro significativo sui ruoli sociali, fisiologici e psicologici del soggetto, che agisce in una scena a cui assiste un pubblico interno (formato da altri pazienti) e nella quale, ricostruendo la memoria emotiva del proprio passato e proiettando sentimenti su oggetti e immagini, arriva a una catarsi. A questo punto è fondamentale l'intervento interpretativo del terapeuta che stimola la modifica delle dinamiche interiori problematiche emerse dal soggetto.

La drammaterapia (Dramatherapy) nasce invece negli anni '70, nell’area anglosassone grazie ad alcune figure come Sue Jennings, Robert Landy, Peter Slade e Roger Grainger Essi, proponendo una vera e propria terapia a mediazione teatrale, non considerarono la catarsi come passaggio definitivo ma come sguardo straniato e critico sul sé, e attraverso il lavoro sull'immaginario, misero in primo piano le facoltà positive e propositive dei soggetti e del gruppo.

Parallelamente in Italia fiorirono centinaia di gruppi (si parla di almeno cinquecento3) animati da giovani provenienti dal mondo universitario; si proponevano di lavorare nelle strade, nelle periferie, nelle situazioni di margine per denunciare discriminazioni (a livello più o meno politico), per rinnovare in modo significativo alcuni meccanismi istituzionali e culturali che stridevano con la continua tensione collettiva di produrre cultura non dal vertice, ma dalla base. Amministrazioni di sinistra favorirono il finanziamento di programmi culturali, quasi ostentando programmi elefantiaci e pomposi per aumentare il proprio prestigio. Spinte teoricamente positive, che finirono poi però ad alimentare corruzione e colonizzazione culturale4.

Questa brevissima carrellata storica restituisce il clima e il contesto culturale di nascita del teatro sociale, mettendo in evidenza le polarizzazioni che virtuosamente riassume in sé: individuo e collettività, processo e prodotto, arte e cura.


Note bibliografiche:
1 Sulle radici storiche del teatro sociale vedi BERNARDI, Claudio, Il teatro sociale, cit. pp. 37-54 e DE MARINIS, Marco, Il nuovo teatro: 1947-1970, Bompiani, Milano, 1987.
2 Cfr. BOAL Augusto, Teatro del Oprimido y Otras Poeticas Politicas, Buenos Aires, 1974; Tecnicas Latinoamericanas de Teatro Popular, Buenos Aires, 1975; 200 Ejercicios y Juegos para el Actor y el no Actor con Ganas de Decir algo a través del Teatro, Buenos Aires 1975, tr. it. parziale in Il teatro degli oppressi. Teoria e tecnica del teatro latinoamericano, Feltrinelli, Milano, 1977 e SCHININÁ, Guglielmo, Augusto Boal. Storia critica del teatro dell’oppresso, La Meridiana, Molfetta, 1998.
3 BERNARDI, Claudio, Il teatro sociale, cit. p. 54.
4 Ibi, p. 53.


L'articolo è tratto dalla tesi di Vittoria Perico, Povero teatro! Problemi e potenzialità del teatro sociale nel terzo mondo