Karl Marx è uno dei principali analisti rispetto ai rapporti tra economia e potere. Riprendendo la teoria di Malthus ai massimi termini, ne “Il capitale” (1867) il consumo viene configurato come esigenza strutturale dell’economia capitalista, al punto che vengono generati, e fatti crescere incessantemente, bisogni indotti dalla manipolazione dei desideri nei confronti delle merci, che farebbe del consumo un atto totalmente dipendente da fattori esterni.
Quindi, per far funzionare il capitalismo, i bisogni degli esseri umani devono conformarsi alle esigenze del sistema produttivo, arrivando alla paradossale necessità di consumare per produrre e non del più logico (perlomeno secondo l’ottica liberista) inverso. Allora i consumatori non sarebbero più in grado di capire cosa è davvero utile e cosa non lo è, e finiscono per consumare merci la cui unica utilità è quella di arricchire coloro che hanno organizzato la loro produzione e circolazione sfruttando manodopera a basso costo. Siccome in un sistema capitalistico gli esseri umani sono alienati dai frutti del loro lavoro, non possono rendersi conto che le merci incorporano una certa quantità di lavoro, e che il valore di mercato non è altro che una relazione di persone, nascosta però dietro le cose. Le merci allora diventano feticci, sembrano avere vita propria, sono lontane, separate dai soggetti: sono solo l’ombra delle relazioni sociali di cui sono espressione.

Marx considerava la cultura come sovrastruttura «ideologica» meramente derivata dalla struttura materiale, intesa come organizzazione della produzione, e perciò non degna di studi approfonditi. Al contrario circa un secolo dopo la Scuola di Francoforte riprende le nozioni di feticismo delle merci proprio mettendo al centro la sfera della cultura. Questa nuova concezione vede l’industria culturale come un sistema a sé stante, e funzionalmente destinato alla produzione di significato, e la pubblicità come un meccanismo finalizzato al trasferimento di questi significati al mondo della vita quotidiana, che crea arbitrariamente associazioni simboliche.
L’aspetto più sottolineato, legato alla nascita della cultura di massa, è l’appiattimento tra alta e bassa cultura. Max Horkheimer e Theodor Adorno ne “La dialettica dell’illuminismo” (1947) sostengono che mentre la cultura alta si riduce alla bassa, le arti e le altre «manifestazioni dello spirito» si adeguano alla logica omologante del mercato. I prodotti dell’industria culturale sarebbero da un lato omogenei, cioè sempre uguali sotto un’apparenza di varietà, e dall’altro prevedibili. Recuperando la teoria di Max Weber sul razionalismo economico, secondo cui tutto può essere soppesato e trattato come un oggetto calcolabile, incluse le persone e i loro bisogni, i due autori sostengono che nella cultura di consumo le persone non vengono considerate in quanto tali ma come elementi funzionali al sistema.

In questa ottica gli imperativi produttivi orientano e determinano le pratiche di consumo dei soggetti e, per poter attirare il maggior numero di acquirenti, le associazioni simboliche sono sempre più orientate a un minimo comune denominatore semplice e conformista. Così chi inizia a vedere un film può immaginarsi abbastanza presto come andrà a finire, e può persino sentirsi gratificato quando scopre di aver avuto ragione. Riguardo ad esempio la musica popular, Adorno la considera standardizzata, in quanto promuove un ascolto passivo e opera come un «cemento sociale» capace di riprodurre le forme di potere dominanti. Essa infatti è una merce venduta a un pubblico il più vasto possibile e per questo indifferenziato, perdendo le sue qualità artistiche, il tutto mascherato con un carattere pseudoindividualizzato.
Anche il semiologo francese Roland Barthes in “Miti d’oggi” (1957), dove raccoglie una serie di articoli già pubblicati, compie una vasta riflessione su tutti i valori associati alle cose, valori indotti dai simboli, che spesso sono ben nascosti, e definiti come un fatto culturale associato all’elemento comunicativo. La critica è rivolta in particolar modo alla politica e ai mezzi di comunicazione di massa, i quali creerebbero a tavolino dei sistemi culturali, e vorrebbero farci credere che il modo in cui è impostato il mondo è puramente naturale, quando in verità ci sono sempre dei valori nascosti che non sono per nulla casuali. Quindi i mass-media pretenderebbero che il modo in cui propongono il mondo non conosca alternative e il mito sarebbe espressione inconsapevole (da parte dei consumatori) della sua collocazione nella società.

Su questa scia Herbert Marcuse nel 1964, con il suo celebre “Uomo a una dimensione” (“One-dimensional Man”), vede la crescita della produzione capitalistica come un raffinato mezzo di dominio che subordina la cultura alla creazione di nuova domanda e che minaccia l’individualità e la creatività tramite la «manipolazione delle esigenze reali». Il tardo capitalismo promuoverebbe, attraverso l’industria del divertimento e della disinformazione, un’ideologia del consumismo che genera bisogni falsi, i quali funzionano come meccanismi di controllo dei consumatori.
Quindi gli atteggiamenti, le abitudini e la promozione dei beni diventano un modo di vita che si impone su quelli ad esso alternativi, anche mediante la gestione del mutamento.

La stessa ricerca di novità sarebbe cioè il prodotto di tecniche manipolatorie, il cui potenziale espressivo condiziona non solo le masse dei consumatori, ma gli stessi operatori di mercato (i fantomatici tastemakers), che a loro volta non possono sottrarsi al fascino di quei beni e messaggi che loro stessi creano. Questo poiché tale sistema ha la capacità di far apparire razionale ciò che è irrazionale, e si ammanta di forme pluralistiche e democratiche che però sono puramente illusorie perché le decisioni sono nelle mani di pochi. La stessa tolleranza di cui si vanta questa società è repressiva perché vale soltanto riguardo a ciò che non mette in discussione il sistema stesso.
La società “a una dimensione” è strutturata in modo che l’individuo possa sopportarne gli aspetti meno piacevoli, come la produzione di armi nucleari, ma non possa tollerare la mancanza dell’intrattenimento e dell’educazione che la rende capace di riprodurre i meccanismi predisposti per la sua difesa. Quindi secondo Marcuse l’esistenza dei media è legata all’esistenza stessa del sistema e perciò la creazione di bisogni repressivi è diventata socialmente necessaria perché senza di essa il modo stabilito di produzione non potrebbe reggersi.

Anche negli Stati Uniti l’economista John K. Galbraith osserva come lo sviluppo dell’oligopolio commerciale abbia portato a una perdita di potere del consumatore a favore dell’apparato tecnico-produttivo. Il mercato si trasformerebbe da meccanismo guidato dal consumatore a sfera di manifestazione della capacità dei produttori di assimilare alle proprie esigenze la reattività dei consumatori mediante opportune azioni commerciali. L’efficacia di marketing e pubblicità risiederebbe a questo punto nel fatto che i consumatori sono addirittura «così lontani dal bisogno materiale che non sanno più ciò che vogliono».


Articolo tratto dalla tesi di Marco Espertino, Comunicazioni simmetriche e asimmetriche nella società dei consumi, dove nel primo capitolo vengono ripercorsi i principali contributi di autori classici, quali Simmel, Veblen, Bourdieu e M. Douglas, sul fenomeno sociale del consumo e delle sue interazioni con il gusto.