Cercherò di mettere in evidenza le numerose potenzialità che il teatro (inteso come espressione che trasforma più che conservare) può attivare nel tentativo di rispondere alle povertà che incontra. Lo può fare proprio grazie alla sua costitutiva marginalità nel mondo delle arti: essa permette infatti di operare in un territorio di confine, di frontiera, adattandosi in modo versatile alle situazioni spesso estreme nelle quali si trova a crescere. Inoltre, emergerà la sua peculiare interculturalità in quanto portatore di un linguaggio basato più sul corpo e sulle emozioni e quindi condivisibile anche in contesti altri. Fondamentale è la riflessione sulla capacità di dare forma a nuove modalità di affrontare il lutto e la perdita oltre che dei beni materiali soprattutto di un ruolo sociale che abbia senso nell'intreccio del contesto comunitario, in situazioni dove la guerra e la violenza hanno lasciato profondi traumi. La risorsa più preziosa del teatro sociale è l'essere portatore di una modalità di relazione di ordine antropologico prima che artistico e performativo: crea autonomie, empowerment, non dipendenze né spazi di evasione intermittenti ed evanescenti.
Contestualmente si analizzeranno gli errori, i rischi e le derive che talora condizionano pesantemente il buon esito degli interventi, spesso dovuti a un'eccessiva dipendenza da enti e organizzazioni che li promuovono o dall'incapacità di formulare progetti in gruppo e di gruppo, basandosi unicamente sulle reali necessità riscontrate nei contesti. Queste osservazioni sono da intendersi come base sulla quale formulare un'ipotesi di modello di lavoro positivo con il teatro in contesti segnati da malessere e povertà. Sia per chi lo propone sia per chi ne beneficia.

Risorse e potenzialità

Ci si chiederà come sia possibile giustificare la necessità di proporre, a persone che hanno sofferto e soffrono tuttora per la mancanza fisica di tutto ciò che riguarda i bisogni primari, un’attività prettamente culturale, che non chiede loro di fruire di un bene materiale, ma di costruire con pazienza un bene più sottile, più nascosto che dà sostanza alle relazioni più che alle necessità individuali.
Prima di cadere nella tentazione di uno scontato encomio delle potenzialità teatrali, vorrei proporre una piccola citazione tratta da una conversazione tra Patricia Ariza e Julia Varley, riguardo all’esperienza che Patricia svolge in Colombia con i ragazzi di strada del teatro “La Candelaria”:

Era una festa di ñeros. Ero stata invitata a questa festa e ci andai con un compagno della Candelaria. L’amplificazione che serviva alla festa era rotta ed era molto importante ripararla, così Francisco, l’attore nero della Candelaria, stava cercando di aggiustarla, quando arrivò un ragazzo che era appena stato sparato in un fianco. Indossava un paio di calzoni chiari e il sangue gli colava lungo i pantaloni in modo impressionante. Fui presa dal panico e cominciai a chiedere agli amici della Fundación di portare quel ragazzo all’ospedale, o che mi dicessero dove e come e ce l’avrei portato io. Loro presero la cosa con molta più calma, dissero che ero una pazza, un’isterica…[…].Riuscimmo a organizzare tutto questo, ma il tempo intanto passava. Non riuscivo a smettere di guardare il ragazzo che sanguinava, quando l’amplificazione sonora riprese a funzionare e all’improvviso la musica dilagò. Il ragazzo, che stava per andare all’ospedale, si fermò e mi disse di calmarmi perché lui avrebbe ballato quella musica. Cercò una ragazza, la sua compagna, e si mise a ballare con lei. Il pavimento era tutto macchiato di sangue.Bene, il ragazzo ballò quella musica con tale passione e trasporto come se fosse l’ultima cosa della sua vita, e poi andò all’ospedale. Io quasi svenivo. C’è tanto da imparare da questo episodio. Per lui la vita era importante ma la cultura era più importante, la cultura compresa nel senso più profondo. […]. Doveva ballare, e poi sarebbe andato.1

Questo episodio è a mio avviso illuminante per metterci nella giusta ottica di comprensione del significato che può avere nella nostra società il prendersi cura della sua parte più fragile attraverso il pilastro che più dà senso al nostro esistere, che sostiene le vite di ogni individuo: la comunità. Specie se in situazione di marginalità. Declineremo ora gli aspetti che riteniamo più rilevanti per mettere in evidenza le potenzialità del teatro riguardo questi contesti.
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Teatro ai margini dell’arte per incontrare i margini della società

Il teatro, per la sua costitutiva marginalità di statuto, si pone come strumento privilegiato d’azione in situazioni di forte esclusione. Una marginalità, la sua, non tanto scelta ma di cui gli uomini di teatro hanno dovuto prendere atto e di cui hanno dovuto ridisegnare i confini, tenendo conto delle fragilità e delle ambizioni di quest’arte.2
In molti aspetti, come nota Fiaschini3, è evidente questo suo tipo di marginalità: l’espressione di vissuti si articola con un indispensabile connubio tra corpo e mente, tra quello che fa parte della mia memoria, della mia esperienza in imprescindibile contatto con quella dell’altro, in un fecondo terreno di confine, di costruzione e di incontro; il privilegiare un processo lungo e graduale (qui e ora) rispetto a un prodotto mediatico riproducibile in qualsiasi tempo e luogo; la costruzione artigianale e paziente di relazioni vere, approfondite attraverso la pratica laboratoriale: luogo protetto ed eletto di relazione.

Teatro, quindi, non come isola protetta sulla quale (s)fuggire dall’inquieto sciame di umanoidi per i quali l’unico modo di essere vivi è, in definitiva, non aver tempo di vivere, ma al contrario come un serio ritorno al cuore di quella vita tanto relegata ai margini del comunicabile, ma che ritrova autentica espressione nella presenza attiva di uomini e donne alla ricerca di una verità profonda da esprimere con il corpo, con le emozioni, con le parole.
Teatro come arte in netta controtendenza rispetto al fagocitante mondo virtuale che regala illusori pacchetti di pseudo-relazione, che si dimentica di porre in primo piano la logica radicale e “folle” del sacrificio, del rischio radicale con e per l’altro. In definitiva, come sostiene Bernardi, «Il gioco del teatro è il gioco della vita, il gioco del corpo, il gioco delle relazioni. Il gioco sociale»4.
E aggiunge Giacchè: «il gioco del teatro comporta, per l’oggetto e per il soggetto, prima una “perdita di senso” poi un recupero di presenza e realtà5».Tre sono le sue caratteristiche peculiari:

→ L’organicità (è in vita, qui e ora);
→ La gratuità (vive nel festivo, non inteso come isola stra-ordinaria ma come luogo del dono senza pretese utilitaristiche, feriali);
→ L’alterità (si gioca solo e unicamente -quando è autentico- nella relazione, nella continua metamorfosi dal sé all’altro).6

Da questo punto di vista, possiamo quindi arrivare a dire che ciò che il teatro può stimolare nelle situazioni di margine, non è lo sviluppo di una cultura spettacolare, performativa (che senso avrebbe in contesti dove l’obiettivo primario è il soddisfacimento dei bisogni primari?!), ma semmai di una motivazione teatrale, di un modo di stare, di agire, di relazionarsi molto libero rispetto ai condizionamenti delle rappresentazioni sociali, e di autentica rifondazione di un ruolo.

A questo fine, il teatro nelle situazioni di conflitto, di povertà, propone alle “vittime” un lavoro molto capillare, teso alla creazione di gruppi che operino a cerchi concentrici e allarghino il proprio “virtuoso circolo” di comunicazione e rinascita ad anelli sempre più estesi, fino a comprendere l’intera comunità di riferimento. Come ci fa notare Schininà nelle riflessioni successive alla sua esperienza in Kosovo7, le comunità che hanno subito situazioni traumatiche e conflittuali hanno specifici bisogni psicosociali legati a:

→ la ricostruzione di nuove ritualità, nuovi codici di riferimento comunitari;
→ la risposta creativa a un lutto, a una rabbia spesso di sfondo nazionalistico;
→ la ricostruzione dell’identità (individuale, di gruppo, di comunità).

Proprio per questo, l’uso di un linguaggio creativo è “pretesto”, o meglio, è metodo fondante di un lavoro antropologico oltre che culturale. Mi pare che l’immagine del ragazzo che vuole ballare prima di correre all’ospedale per curarsi, sia la più efficace per intuire come questo incontro tra necessità feriale e psicosociale possa diventare comunione intensa quando agita con la gratuità e libertà della danza comunitaria, dell’arte che si lascia interrogare dall’uomo senza paura di diventare per questo impura, ibrida. Un’arte che ha l’autentica capacità di umanizzare la miseria, di liberarla dal ghetto «in cui i ricchi non vogliono andare e da cui i poveri non possono uscire8

L’altro aspetto interessante è notare come l’origine del teatro, la radice da cui sempre fa germogliare nuovi frutti sia proprio la stessa in cui opera in situazioni di marginalità: la crisi, il conflitto. Schechner9 ci aiuta a definire due livelli di teatro della crisi:

→ il 1º è quello in cui il “pronto soccorso artistico” serve a dar voce a chi non ce l’ha più;
→ il 2º comprende invece le disuguaglianze endemiche e scientemente costruite che inevitabilmente fanno parte del capitalismo e del meccanismo del libero mercato.

In questa situazione, il teatro sociale è un teatro specifico fatto per persone specifiche in un tempo e in un luogo. E sono in crisi.

Il ruolo interculturale del teatro

La comunicazione interculturale non puó esistere se non siamo capaci di trascendere il narcisismo del nostro sapere, per scendere nell’umiltà della nostra ignoranza.
Massimiliano FIORUCCI, Incontri: spazi e luoghi della mediazione interculturale

Ricordo come fosse ieri il giorno in cui Camilla Corridori (operatrice di Teatro Sociale), venne ad una lezione della prof.ssa Innocenti Malini per parlarci della sua esperienza di laboratorio con i rifugiati politici a Brescia. Più delle esatte parole che disse, ho in mente come ci comunicò il senso di impotenza che l’aveva colta nello scoprirsi molto fragile, sprovvista di strumenti adeguati per mettersi in vera relazione con i partecipanti. La differenza linguistica, la discontinuità che caratterizzava gli incontri, le differenze abissali nel modo di concepire il tempo, gli orari, le avevano fatto domandare se fare teatro fosse, più che un loro reale bisogno, un’imposizione narcisistica dall’alto (dall’alto delle sue convinzioni pregresse e di quelle dei responsabili dell’associazione per cui lavorava).

Ecco quello che comporta l’avviarsi di un processo d’intercultura: la fatica di morire un po’ a se stessi per giungere nell’incerto territorio del margine, in cui l’incontro ha modo d’avvenire.
Come in ogni buon progetto pedagogico o educativo, le tappe di un autentico tentativo d’intercultura, passano attraverso una serie di rilevazioni dei bisogni, di negoziazioni progettuali con le istituzioni coinvolte e di valutazioni ed adeguamenti in itinere.
L’inserimento della pratica di teatro sociale in queste situazioni ha senso ed efficacia in quanto si pone non tanto come servizio riabilitativo, ma come veicolo di invenzione, come sede di creazione di poesia e bellezza che nascono dalla prossimità feconda tra le persone. Infatti «il paradosso è che, prendendo le distanze del come se, ci avviciniamo10».
Smascherando la propria “finitezza” e incapacità attraverso un lavoro sull’improvvisazione e sull’emotività corporea, il conflitto di natura socioculturale diventa un appassionato confronto tra esseri umani che mettono in campo diversità senza che esse diventino armi, ma porgendole all’altro. Il teatro contribuisce alla creazione di un’intercultura reale. Esso non trasforma l’infinita molteplicità delle culture in un magma uniforme “digeribile” da tutti, ma opera una globalizzazione all’inverso cioè valorizza le differenze, mettendole nella condizione di esprimersi attraverso pratiche e saperi comuni: quelli del corpo, della poesia, della musica, della ritualità.
E quando il linguaggio è comune agli interlocutori, è possibile il dialogo.

Note:
1VARLEY, Julia, Gocce di rap.Conversazione con Patricia Ariza del teatro «La Candelaria», cit. pp. 370-371
2Su questo tema vedi: GIACCHÉ, Piergiorgio, L’altra visione dell’altro: un’equazione tra antropologia e teatro, L’ancora del mediterraneo, Napoli, 2004.
3FIASCHINI, Fabrizio, Teatri di confine: problemi epistemologici e metodologici, in BERNARDI, Claudio, CUMINETTI, Benvenuto, DALLA PALMA, Sisto (a cura di), I fuoriscena. Esperienze e riflessioni sulla drammaturgia nel sociale, cit. p. 283.
4BERNARDI, Claudio, Far fuori il teatro, in ID., PERRAZZO, Daniela (a cura di), Missioni impossibili. Esperienze di teatro sociale in situazioni d’emergenza, cit. p. 230
5GIACCHÉ, Piergiorgio, Lo spettatore partecipante: contributi per un’antropologia del teatro, Guerini, Milano, 1991, cit. p. 48.
6GIACCHÉ, Piergiorgio, L’altra visione dell’altro, L’ancora del mediterraneo, Napoli, 2004, cit. p. 56.
7SCHININÁ, Guglielmo, Il teatro nelle situazioni di emergenza, in “Itinerari Mediali”, II (2001), n. 2, pp. 63-68.
8BAUMAN, Zygmunt, Consuming life, cit. p. 63.
9SCHECHNER, Richard, Il teatro nei tempi e nei luoghi della crisi. Una prospettiva teorica, in BERNARDI, Claudio, DRAGONE, Monica, SCHININÁ, Guglielmo (a cura di), Teatri di guerra e azioni di pace, cit. pp. 319-336.
10JENNINGS, Sue, Teatro di confine: risoluzione dei conflitti e mutamento sociale, in BERNARDI, Claudio, DRAGONE, Monica, SCHININÁ, Guglielmo (a cura di), Teatri di guerra e azioni di pace, cit. p. 183

L'articolo è tratto dalla tesi di Vittoria Perico. Povero teatro! Problemi e potenzialità del teatro sociale nel terzo mondo

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