Vivere in una comunità multietnica significa anche avere l’opportunità di godere di un arricchimento culturale e umano, qualora il tipo di convivenza instaurato tra le diverse nazionalità sia di reciproco rispetto e solidarietà.

Il primo esempio viene da Abdellah, anche se nel paese in cui vive oggi, Inzago (in provincia di Milano) lo chiamano tutti Aldo. Abdellah lascia El Jadida, il suo paese natale in Marocco, nell’ottobre del 1991, e parte alla volta dell’Italia con in mano un solo visto turistico. Il suo sogno era studiare all’università, l’Isef, ma non possedendo il permesso per motivi di studio, necessario all’iscrizione al corso, decise di andare a lavorare.

Per “Aldo” inizia un periodo infernale: quattro anni a raccogliere verdura per una azienda ortofrutticola; dieci, anche dodici ore al giorno, tutti i giorni, Natale e Capodanno compresi. La paga, 6 mila lire all’ora, poco più di tre euro. In nero, naturalmente. E, a fine giornata, un letto in uno spazio angusto, da dividere con altre dieci persone. Durante quel periodo Abdellah scopre nel paese l’esistenza di un centro sociale dove si tengono anche lezioni di italiano per extracomunitari. Ci va, sebbene il suo italiano sia già buono e, a poco a poco il centro diventa la sua seconda casa. Conosce persone e partecipa ai progetti organizzati dai volontari.

Nel 1995 approfitta della sanatoria, e ottiene il permesso di soggiorno. L’anno successivo la decisione che gli cambia la vita; insieme ad altri colleghi Abdellah si licenzia e fa causa al datore di lavoro, una causa che andrà a lieto fine, anche se Abdellah dovrà mettersi in cerca di un nuovo mestiere.

Per sei anni la sua occupazione è in una litografia, trova casa e non smette il suo impegno sociale: nel 2004 entra a far parte della consulta del volontariato e diventa vicepresidente del consiglio comunale degli stranieri. Ma il grande successo, è stato riuscire a mettersi in proprio. Adesso “Aldo” gestisce una cooperativa che trova lavoro agli immigrati, “la mia principale preoccupazione - dice – è operarmi perché queste persone abbiano un lavoro che gli consenta di vivere dignitosamente. La dignità... non immaginate quanto sia importante poterla conservare” *.

Da Pistoia ci arriva un altro esempio, quello di Katia, 41 anni, romena, originaria della città di Galati.
Katia è in Italia da appena un anno, prima di lavorare come badante nella provincia toscana, era assunta come operaia in una sartoria della sua città natale. Lavorava per molte ore al giorno e la retribuzione non era sufficiente a completare la costruzione della casa dove sarebbe dovuta andare a vivere con il marito e i suoi tre figli; lasciare la famiglia e il proprio paese è stata una scelta dura, ma necessaria.

Katia è laureata in Biologia, ma – dice - “in Romania il mercato del lavoro è saturo e sta attraversando una profonda crisi. Non sono molte le persone che conseguono diplomi universitari, eppure trovare un lavoro specializzato e ben retribuito è molto difficile”.

A Pistoia, intanto, lavorava già da qualche anno come badante, Aine, una cugina di Katia, “è stata lei a trovarmi il lavoro, prima di partire sapevo già dove andare e a fare cosa”.
Ed è così che a gennaio Katia va a vivere da Esterina, un’anziana donna di 76 anni affetta da una grave forma di cecità, per cui non più in grado di provvedere a se stessa.

Il lavoro da badante comporta il dover trascorrere gran parte della giornata in casa, le mansioni da svolgere sono molte: aiutare Esterina a lavarsi e vestirsi, provvedere alle pulizie, ai pasti, spesso ci sono abiti, tende, lenzuola e biancheria di ogni genere da lavare e stirare; Esterina è una maniaca dell’ordine e della pulizia, ma Katia svolge tutto perfettamente, e lo fa volentieri. Gli unici momenti liberi per lei sono le volte in cui deve uscire a fare la spesa, e un paio d’ore al giorno, dalle due alle quattro del pomeriggio, durante le quali Katia può fare ciò che vuole, mentre Esterina, generalmente, resta in casa a ricamare e ad ascoltare la radio.

Trascorre appena un mese e tra le due donne si era già istaurato un ottimo rapporto. Esterina è sempre stata molto gentile con Katia, la tratta come se fosse una componente della famiglia; dice Katia: “mi parlava sempre molto di lei, della sua giovinezza, lo fa tuttora, racconta le cose in modo buffo, e ascolta molto quello che ho da raccontarle, siamo diventate amiche, starle accanto per me non era più un lavoro”. Infatti, nei mesi seguenti, Katia ed Esterina trascorrevano praticamente tutta la giornata insieme, “la portavo con me a fare la spesa, e nel pomeriggio mi facevo insegnare a ricamare, mi divertiva più che non uscire con le mie connazionali. Non poteva vedere, ma nel ricamo era bravissima”.

Ad aprile però cambiò tutto. Silvano, figlio unico di Esterina, muore di cancro. Era lui a dare a Katia i 500 euro mensili per il suo lavoro da badante, la pensione dell’anziana donna raggiungeva appena la metà di tale somma, e Stefania, la moglie di Silvano, non volle sapere nulla della suocera, ormai rimasta completamente sola e inaccudita.

Nel giro di qualche giorno, Katia aveva già trovato un’altra occupazione come donna delle pulizie in un piccolo albergo del centro. “Sono impegnata tutte le mattine con il mio lavoro, fino alle 13, ma non c’è pomeriggio che non vada da Esterina, continuo a fare quello che facevo prima, senza chiedere niente. Voglio bene ad Esterina, e lei è felice di sapere che vicino a lei ci sono io” .



* Il Manifesto.it, Il padano-marocchino che dà lavoro ai migranti, 10 aprile 2007, in www.ilmanifesto.it


"Il fenomeno dell'immigrazione in Italia. Tra realtà e immaginazione" di Roberta Gentile. L'articolo pubblicato è contenuto nella parte delle Conclusioni.