La psicologia sociale fin dai suoi inizi ha studiato l'influenza sociale sugli atteggiamenti, comportamenti e opinioni dei singoli individui. Anzi, si può affermare che la nascita di questo ramo della scienza psicologica deve la propria ragione proprio allo studio della pressione sociale sulle persone: i primi studi di Norman Triplett nel 1897, infatti, erano rivolti all'osservazione sperimentale della discrepanza di prestazione degli atleti in funzione di una diversa situazione sociale. Lo studioso rivelò quel fenomeno, in seguito chiamato di facilitazione sociale, per il quale le persone migliorano la propria prestazione quando sono in un contesto sociale, rispetto ad occasioni nelle quali la pressione degli altri viene a mancare. Tuttavia, l'influenza della società non sempre ha effetti positivi: già nel 1880 Ringelmann aveva osservato che, in determinate circostanze, la produttività di un gruppo sarebbe potuta essere meno efficiente rispetto a quella individuale. Le diverse e divergenti conclusioni dei due studiosi hanno posto le basi per tutta una serie successiva di studi che si sono susseguiti in psicologia, nel tentativo di sistematizzare gli effetti del gruppo sul comportamento individuale e le variabili situazionali e mentali che ne modulavano l'influenza.

Una delle declinazioni dello studio sull'influenza sociale in psicologia sociale è stata l'analisi del conformismo. In questi termini l'influenza sociale è definita come il cambiamento negli atteggiamenti, nelle opinioni o nei comportamenti di una persona indotta dal fatto che la maggior parte del suo gruppo di appartenenza si comporta o pensa in quel determinato modo.

Lo stato dell'arte attorno alla questione ha portato solitamente a credere che il potere della maggioranza, il conformismo, traesse forza dalla necessità individuale di appartenere ad un gruppo: bisogno ereditato dai primordi della specie, in quanto l'appartenenza ad una unità sociale assicurava ai nostri antenati una maggiore sopravvivenza. L'adattamento del singolo alla maggioranza, tuttavia, non assicurava solo una possibilità più elevata di vivere e riprodursi, ma, rendendo più coeso ed efficiente il gruppo, si prefigurava anche come una risposta adattiva dei gruppi all'ambiente, presentandosi come una risorsa funzionale. Tuttavia, non tutti gli studi hanno condiviso questa visione. Come visto all'inizio, già a fine XIX secolo Ringelmann aveva sottolineato la possibilità che l'effetto dell'influenza sociale non migliorasse la prestazione del gruppo, ma viceversa risultasse in certe condizioni meno efficiente di quelle individuali. Poco anni dopo Le Bon, parlando della psicologia delle folle, coniò il termine contagio sociale in riferimento agli effetti negativi sul comportamento individuale che venivano trasmessi da persona a persona nella folla. Gli studi di Festinger, Pipitone e Newcombe cercarono di fare luce proprio su questo aspetto: l'influenza della maggioranza, credevano gli autori, non si traduce necessariamente in un miglioramento delle prestazioni o in una maggiore funzionalità ed efficacia, piuttosto può generare anche processi di de-individualizzazione, per i quali gli individui perdono i propri freni inibitori e le responsabilità individuali vengono sostituite con gli scopi e le azioni del gruppo. Attraverso questa perdita di responsabilità, i tre autori cercavano di dare una risposta anche a quei fenomeni osservati da Ringelmann alla fine del secolo precedente: in compiti comuni dove il contributo del singolo non è identificabile (compiti addittivi) si alimenta una diffusione di responsabilità che porta ad un minore impegno del singolo nello sforzo comune, spiegando così gli effetti di indolenza sociale osservati nella perdita di efficienza del gruppo rispetto alle prestazioni individuali.

L'insieme degli studi sul conformismo (l'influenza della maggioranza), sebbene impegnati nel cercare di spiegare le ragioni, le modalità e gli effetti positivi e negativi dell'influenza sociale, non mettevano in discussione però il segno dell'influenza sociale. A lungo, infatti, si è creduto che un tale tipo di influenza ed i suoi effetti fossero unidirezionali: dagli studi di Triplett (1897) a quelli di Zajonc, di Cotrell a quelli di Pepitone, Festinger e Newcombe, di Sherif (1985) a quelli di Solomon Asch, tutte le analisi erano intente a scoprire quali fossero le dinamiche, le ragioni e la portata dell'influenza della maggioranza sui singoli membri. La premessa era che solo una maggioranza potesse influenzare un singolo o una minoranza, non viceversa. Gli studi del conformismo, così, si sovrapponevano con gli studi sull'influenza sociale, finendo per somigliare e identificarsi. Tuttavia, l'influenza non ha sempre e solo il segno della maggioranza. E questo perché se il conformismo fosse l'unica forza a plasmare le opinioni o gli atteggiamenti di un gruppo, allora le organizzazioni sociali risulterebbero statiche ed omogenee, senza possibilità di cambiamenti, se non marginali. Il primo studioso a sollevare tale argomento critico fu Serge Moscovici, per il quale le innovazioni nei vari campi del sapere e della società erano spesso da ricondursi all'opera di singoli o minoranze che sfidavano le opinioni tradizionali.

In altre parole, per Moscovici, in presenza di specifiche condizioni, l'influenza sociale può avere il segno opposto: anche le minoranze hanno la possibilità e il potere di cambiare le posizioni della maggioranza.
Secondo lo studioso francese il principale fattore della forza persuasiva della minoranza risiede in uno stile di comportamento fondato sulla coerenza. Quanto più coerente ad un livello intra-individuale (ossia mantiene stabili le posizioni nel tempo; coerenza diacronica) e inter-individuale (ossia si mantiene coerente tra i membri stessi; coerenza sincronica) è la minoranza, più alta sarà la possibilità di influenzare la maggioranza di un gruppo. Secondo Moscovici, se si verificano queste condizioni, allora si può avere la conversione, termine opposto a conformismo per sottolineare un cambiamento di opinioni che ha segno divergente rispetto ad esso.
La coerenza, infatti, conduce la maggioranza a ritenere la minoranza sicura delle proprie posizioni, competente ed onesta, e trasferisce così tali qualità alle sue opinioni, valutando le innovazioni che essa propone.

Un elemento interessante riscontrato da Moscovici nei suoi esperimenti empirici per verificare la validità delle sue ipotesi (esperimenti condotti sul paradigma sperimentale di Solomon Asch), è la natura del cambiamento prodotto dall'influenza della minoranza. A differenza dell'acquiescenza pubblica, caratterizzata, come dimostrato dagli esperimenti di Asch e altri, da un cambiamento delle proprie opinioni debole e transitorio (in altre parole, in mancanza della pressione esercitata dalla maggioranza, il singolo torna a credere in maniera differente), la conversione sarebbe connotato da un cambiamento nelle proprie opinioni o atteggiamenti ben più profondo e duraturo.
Non a caso, infatti, Moscovici usa il termine di conversione: proprio per sottolineare che i processi cognitivi sottostanti all'influenza della minoranza e della maggioranza sono differenti qualitativamente.
Di fronte alle opinioni della maggioranza, il singolo sperimenta disagio e confusione creando così le condizioni per un processo di confronto sociale (ossia in situazioni di confusione o di scarse informazioni, i processi cognitivi degli individui si agganciano alle informazioni ricavate dalle opinioni altrui, specie se le fonti sono ritenute autorevoli; tale procedimento è alla base della formazione degli opinion leader) per giungere ad una visione condivisa. Sulla base di un tale processo, tuttavia, non si può avere che acquiescenza a livello pubblico ed un cambiamento di breve durata: quando viene meno la maggioranza e il singolo ha la possibilità di reperire le informazioni non comporta nessuna difficoltà cambiare le proprie opinioni.

La minoranza, al contrario, stimola un processo di validazione ossia un processo cognitivo intento a indagare le ragioni della validità delle argomentazioni minoritarie: poiché si ritiene la minoranza competente e coerente, si è portati a indagare le sue proposte come tali e si cerca di valutarne la validità. Nel primo caso, invece, non si accettano le ragioni della maggioranza dopo una verifica, in quanto lo stimolo ad assumerle non deriva dalla loro coerenza, bensì dalle pressioni normative del confronto.

Il risultato conclusivo delle sperimentazioni di Moscovici, dunque, non solo pone in questione la tesi che l'influenza sociale è una caratteristica della maggioranza, ma sottolinea anche una differenza qualitativa tra la pressione dei più e quella esercitata da una minoranza coerente e stabile: da una parte, il pensiero convergente di un gruppo focalizza i suoi membri sul messaggio dominante senza considerare alternative e senza produrre una sua attenta verifica. Dall'altra parte, il pensiero divergente delle minoranze spinge le persone ad attivarsi mentalmente, introduce alternative, nuove energie e nuove riflessioni che possono a loro volta generarsi in altrettante alternative.

Questa conclusione è particolarmente interessante anche in relazione a quegli studi in psicologia sociale che hanno cercato di mettere in mostra le condizioni ottimali per processi decisionali dei gruppi. La tendenza di un gruppo ad escludere pensieri divergenti, se in apparenza rinsalda e rafforza la sua coesione, presentandosi così come una risorsa funzionale, dall'altra riduce l'innovazione e, creando un clima di consenso dominante, non permette di vagliare tutte le possibili alternative.
Un po' come nella spirale del silenzio, escludere la minoranza divergente implica rinunciare alla possibilità di alimentare la riflessione e, così, di poter valutare la validità delle proprie opinioni o decisioni, rischiando di fossilizzare il gruppo su posizioni errate o non ottimali. In altre parole, sebbene l'eterno conflitto tende a immobilizzare il gruppo in senso opposto, l'assenza di scontri riduce la linfa vitale del gruppo, rendendolo come un corpo alimentato artificialmente, vegetale e inerte. Nonostante in certe condizioni sia necessario l'uniformità del gruppo e l'assenza di frizioni per prendere decisioni rapide; nella maggior parte dei casi, specie in occasione di decisioni politiche, l'assenza di opinioni divergenti risulta pericolosa.

Come mostrato da Janis, spesso il gruppo, quando condivide le stesse opinioni, può essere soggetto ad una sensazione di invulnerabilità: ogni membro si sente maggiormente vincolato al mantenimento della coesione (più è coeso un gruppo maggiore è la pressione al conformismo) e desidera avere consenso, pena la perdita dell'illusione di essere inattaccabile.
In altre parole maggiore è la coesione, maggiori sono le pressioni normative e maggiore è il costo dell'esclusione per l'individuo: la difficoltà, in questo modo, di reperire nuove informazioni o opinioni divergenti e la sensazione di invulnerabilità porta ad un pensiero “gruppale” (Janis parla di group think) che può condurre a decisioni decisamente errate o pericolose con la convinzione, tuttavia, radicalmente opposta (come Janis ha dimostrato in un suo studio sulla decisione di invadere la Baia dei Porci nel 1961).

di Manuel Antonini