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Una paga da fame
Come (non) si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo. Il racconto della giornalista americana Barbara Ehrenreich della sua esperienza tra i milioni di persone che vivono di lavori dequalificati in America

[04/10/2007]

Il libro recensito di questo mese, “Una paga da fame”, è il resoconto dell'esperienza di Barbara Ehrenreich, critico sociale e giornalista che collabora con diverse testate americane, tra cui “Time”, “Harper's Magazine”, “The New York Time Magazine”, la quale nel 1998 decide per un paio di anni di sospendere la sua carriera e di abbandonare la sua casa e il suo ambiente per condurre la vita di milioni di americani che lavorano ogni giorno duramente per salari modesti, a volte così miseri da diventare duro tirare la fine del mese.

Lasciate a casa le sue carte di credito, si mette a cercare lavoro e accetta prima di fare la cameriera, poi la donna delle pulizie presso un'agenzia di servizi e infine commessa in una delle più grandi catene di supermercati americane, Wall-Mart.
Il filo conduttore della sua esperienza attraverso questi lavori è sempre lo sfruttamento con la quale si trova a fare i conti. Orari a volte massacranti, per una paga da fame che rende difficile non solo vivere, spesso anche sopravvivere nell'America della ricchezza.

E il punto sottolineato dall'Ehrenreich è proprio la contraddizione di una nazione che si crede ricca perché si dimentica dei suoi poveri o dei milioni di persone che ogni giorno duramente combattono e si sacrificano per avere poi il salario minino, a volte nemmeno 7 dollari, e con questo dover vivere.
Come lei stessa constaterà nella sua esperienza, da donna sola, non solo a caccia di un lavoro senza qualifiche – si presenterà sempre ai colloqui senza i propri titoli accademici, reinventando una nuova biografia – ci si scontra con umiliazioni, ma a volte è necessario pure cercare due lavori per fare fronte alle necessità e alle esigenze dei costi della vita in America.

E quando questo succede, il libro prende toni divertenti, ironici per raccontare i mali che il suo corpo non riesce a sopportare. Tuttavia, lei è consapevole che la sua è solo un'esperienza alla quale può mettere fine in ogni momento, tornando alla sua vita di sempre, fatta di lavori ben remunerati e di una casa accogliente e ampia. Per questo i toni non riescono a nascondere poi lo sfondo cupo che il libro trasmette, lo sfondo della vita grama delle donne che lavorano con lei per qualche dollaro e non possono ribellarsi alle degradanti condizioni, alle umiliazioni o alle bizzarrie dei propri datori, pena la perdita del lavoro, senza avere nessuna altra vita che le aspetta, nessuna casa che le accoglie se non quella per cui devono pagare l'affitto.

Nel libro, oltre ad episodi più o meno divertenti, che vedono la giornalista affrontare un infortunio sul lavoro, la formazione presso Wall-Mart attraverso video noiosi e manipolatori, con colleghi solidali ed altri più cinici, emergono tutti gli stratagemmi disperati che le persone ai margini del successo devono mettere in campo per vivere dignitosamente, con la consapevolezza che il domani offrirà poche speranze in più rispetto all'oggi. E come osserva l'autrice più volte fra le pagine, sono proprio gli stratagemmi e le condizioni alle quali sono sottoposti a rendere più cinici i lavoratori stessi. L'idea vittoriana dell'abiezione morale causa del lavoro umiliante è qui ancora una volta ribaltata: in questi passaggi le derive marxiste della Eherenreich emergono e si percepisce chiaramente come consideri l'alienazione fisica e morale dei lavoratori una conseguenza di condizioni di lavoro umilianti, esperienza che lei stessa in quei due anni sente di subire.

In altre parole, il resoconto di Barbara Ehrenreich è un viaggio alla scoperta del mondo dimenticato che fa funzionare l'America, che la fa splendere perché poi viene messo in un angolo e non mostrato, che la innalza perché si mette ai suoi piedi e lei ci sale sopra coprendo tutto con un vestito un po' più lungo. E' un viaggio che mostra una parte spesso dimenticata da politici e intellettuali, abituati ad un mondo di melassa e zucchero e lontani dal fiele che le esigenze quotidiane dispensano invece a milioni di persone. Ma il libro non è solo una rivendicazione sociale e politica, è anche una ricerca etnologica che ci mostra gli espedienti messi in campo e le storie di vita di persone costrette a vivere con “una paga da fame”.
Persone considerate povere che, come dice la stessa autrice, “sono in realtà i grandi benefattori della nostra società. Trascurano i propri figli affinché i figli degli altri siano accuditi; abitano in alloggi schifosi affinché le nostre case siano splendenti e perfette; sopportano ogni privazione pur di mantenere bassa l'inflazione e alte le quotazioni in Borsa. Agli occhi del resto del mondo, un povero che lavora è un donatore anonimo, un filantropo sconosciuto”.
L'immagine consegnata ai nostri occhi dall'immaginario collettivo viene così ribaltata e ci troviamo a fare i conti con una realtà alla quale siamo abituati a guardare in altro modo. Una realtà che poi non è necessario andare fino in America per poterla osservare.

Certo alla fine il libro sembra più un pamphlet che una ricerca sociologica, ricerca che non è forse nemmeno nelle intenzioni dell'autrice, ma si è deciso di recensirlo sia perché si presenta come un lavoro etnografico coraggioso ai quali non siamo più abituati, sia perché le nuove povertà devono restare al centro del dibattito della disciplina sociologica, la quale non deve perdersi solamente fra i giochi di potere del marketing e della pubblicità politica o commerciale.

di Manuel Antonini
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