A cura di Manuel Antonini

Leggendo i tuoi racconti e i tuoi articoli (per una raccolta dei suoi articoli è possibile consultare il suo sito), si ha un'impressione differente dell'Africa rispetto a quella che siamo abituati a vedere nei media tradizionali. In particolare, attraverso i media, spesso viene raccontata un'Africa sulla base dell'etichetta che si vuole appiccicare al continente. Nei tuoi scritti, invece, viene fuori con forza il luogo Africa con tutte le sue realtà e contraddizioni. Insomma quell'Africa che vive ogni giorno e che non siamo abituati a sentire...

M. T. Per quel che mi riguarda sono fermamente convinto che ci sia bisogno di questo tipo di narrazione. Nel vocabolario giornalistico, la parola Africa è sinonimo di guerre, di crisi umanitarie e di devastazioni. Intendiamoci, queste realtà esistono...se oggi, infatti, circa 300 milioni di persone in Africa vivono con meno di due dollari al giorno, se 32 dei 50 paesi più poveri al mondo si trovano nel continente africano, se a sud del Sahara c'è un medico ogni 25.000 abitanti, significa che esistono dei problemi, gravi e urgenti. Tuttavia, queste realtà non devono spingerci a liquidare l'Africa come un continente sull'orlo di un baratro e destinato a soccombere.
Ogni qualvolta, infatti, che i commentatori internazionali hanno profetizzato uno scenario apocalittico si sono sempre sbagliati: l'Africa è un continente talmente vasto che non solo, come suggeriva Kapuściński, è inappropriato parlarne al singolare, ma dispone inoltre di un'infinità di risorse che le permettono di sorprenderci.
Risorse come la giovane età degli africani. Oggi oltre il 70% della popolazione in Africa ha meno di 15 anni: una potenzialità immensa per l'investimento nel futuro. Questo significa che al di là della sua storia millenaria, l'Africa è un continente giovane, dinamico e come tale non sopporta interpretazioni schematiche.
Al contrario noi siamo abituati a ragionare per cliché, i quali fanno comodo sia ai lettori, che preferiscono scandalizzarsi per i grandi numeri della tragedia piuttosto che concentrarsi su un reale interesse verso le dinamiche quotidiane; sia ai media, i quali sono incapaci di parlare di Africa al di fuori delle semplificazione e del catastrofismo. E questo per diverse ragioni.

Quali sono queste ragioni?

M.T. Per prima cosa, è più facile parlare di una situazione complessa riducendola a buoni e cattivi.
Secondariamente, i giornalisti tendono ormai a raccontare l'Africa restando comodi nelle loro redazioni italiane. Oggi, sono molto pochi i reporter e gli inviati sul posto, per non parlare dei corrispondenti. E non è solo per via delle scarse risorse che possiedono i giornali, ma anche a causa di un'incapacità dei giornalisti di andare sul posto, scovare delle storie, scoprire dei personaggi per raccontare un'Africa diversa e più interessante.
Molti giovani giornalisti si presentano nella nostra redazione con la presunzione di parlare di un paese o di una guerra restando comodamente seduti a casa, spulciando le informazioni da internet e facendo qualche telefonata. Internet però non spiega tutto e là di fuori, nel mondo e soprattutto in Africa, esistono moltissime storie che aspettano di essere raccontante, tanto che ci si inciampa contro.
In altre parole, il racconto di un'Africa immobile e sempre uguale a se stessa è il risultato non solo della pigrizia culturale del lettore o dell'interesse di marketing dell'editore, ma anche della scarsa capacità del giornalista di andarsi a cercare le notizie.
Sono, dunque, diversi i fattori che portano a una narrazione stereotipata dell'Africa, a scapito di un'Africa che sono convinto è meno dannata e meno scontata di come vogliono farci credere.

In questa narrazione stereotipata qual è il ruolo delle ONG? Perché non assistiamo mai a una battaglia comune degli attori della solidarietà internazionale per chiedere un racconto più preciso e puntuale dell'Africa?

M.T. Non sono un esperto di ONG, ma credo che l'arcipelago associativo laico-cattolico che si occupa di Africa in Italia sia tra i più frammentati al mondo. In nessun altro paese esistono così tante ONG come da noi. Certo, da una parte tanto associazionismo che guarda alla solidarietà internazionale è una ricchezza; dall'altra, però, vi è anche un'incapacità di aggregarsi e mettere insieme le risorse per via del solito campanilismo. Manca spesso nell'associazionismo italiano una visione più ampia, preferendo limitarsi al proprio tornaconto.
Bisogna considerare anche un'altra questione. I media hanno cominciato da qualche anno a rincorrere l'emergenza umanitaria. Le piccole e grandi ONG hanno fiutato il business e la gran parte di queste, oggi, si muove solo quando ci sono le grandi emergenze umanitarie, ossia là dove arriva l'obiettivo della telecamera e, quindi, i soldi della gente.
La responsabilità delle ONG è quella di aver buttato troppe volte in pasto ai giornali solo notizie intrise di pietismo, con la tendenza a mostrare le situazioni perennemente in emergenza. La gente ha cominciato a stufarsi di questo genere di approccio e gli stessi giornali sono saturi.
Lo spazio, insomma, per raccontare qualcosa di diverso, un'Africa meno scontata, esiste: soltanto che scardinare il meccanismo che c'è tra ONG e giornale non è semplice. L'ONG ha bisogno di dare visibilità alle sue attività, invita il giornalista a documentarle, spesso in contesti di emergenza senza la possibilità di uscire o di muoversi liberamente. All'ONG va bene così, il giornalista fa il suo lavoro e il tipo di resoconto che ne esce è qualcosa di già letto o ascoltato. Questo non è un giornalismo in grado di raccontare l'Africa.

Cosa deve avere un giornalismo capace di raccontare l'Africa in modo differente?

M.T. Kapuściński, uno dei più grandi cronisti dell'Africa di questi decenni, non lavorava per Newsweek o per il Times, ma per una poverissima agenzia di stampa polacca. Si muoveva con i mezzi locali, chiedeva passaggi, costretto così a stare in mezzo alla gente. La scarsità dei mezzi messi a sua disposizione dal giornale, è stata la sua ricchezza come giornalista, in quanto gli ha permesso di vivere le storie di ogni giorno del continente africano.
Oggi molti giornalisti non hanno voglia o non sono in grado di sporcarsi le mani, di stare in mezzo alla gente, di uscire dall'itinerario tracciato a tavolino. Tutte cose essenziali per scovare una storia che valga la pena di essere raccontata.
Poi ci deve essere la capacità di andare oltre gli schemi e le idee che ti porti con te alla partenza.
Non si deve andare in un posto cercando conferme a quanto si voleva documentare, magari non ascoltando voci difformi in spazi e luoghi che si sono ignorati.
Anzi, il lavoro del reporter costringe a interfacciarsi con le situazioni di ogni giorno, con realtà diverse e ignorate, dormendo nei tuguri, chiedendo ospitalità ai missionari o un passaggio a chi lavora con le ONG. Tutte circostanze che ti mettono in contatto con mondi diversi, permettendoti attraverso le loro prospettive di decifrare una situazione complessa che il cronista, presente solo per pochi giorni, non può avere certo la presunzione di comprendere al volo.

Come nel teatro, allora, anche nel lavoro di un bravo cronista l'imprevisto è una risorsa? L'accidente che ti capita durante un viaggio può permetterti di conoscere nuove persone e nuove prospettive sulla realtà che cerchi di documentare?

M.T. Assolutamente. La maggior parte delle storie che porto a casa le raccolgo su questi pulmini scassati che girano per l'Africa oppure perché durante il tragitto sono inciampato in realtà che non conoscevo. Un esempio: uno degli ultimi viaggi ero diretto verso la valle dell'Omo (in Etiopia n.d.r.) per documentare gli effetti del turismo sull'economia locale e sui rapporti sociali tra le varie etnie. Lungo la strada incontrai una biblioteca itinerante, un carrettino trainato da asini, che si chiamava "Donkey Mobile Library". Gestita da una ONG locale, la biblioteca ambulante, costruita per sensibilizzare i bambini alla lettura e alla necessità di frequentare la scuola, raggiungeva i villaggi più isolati nell'entroterra etiope, portando con sé libri di favole, romanzi etc. Era una situazione estremamente interessante che nessuno aveva mai raccontato, persino in internet non c'erano notizie.
Decisi pertanto di fermarmi qualche giorno con loro e di seguirla nel suo vagabondaggio. E' stata forse la storia più interessante che mi sia capitata: però per poterla cogliere ho dovuto cambiare i miei programmi e adeguarmi alla situazione.

Prima mi dicevi che l'Africa non è affatto scontata. Oltre a questa storia, c'è qualcosa incontrata in Africa che più di altre ha spiazzato le tue aspettative o i tuoi schemi mentali?

M.T. A dirti la verità non c'è un episodio in particolare. Ho chiara invece una percezione: più vado avanti a viaggiare in Africa, e sono ormai quindici anni, meno certezze ho su quel continente. Quando capita che missionari o scuole mi invitano per parlare di Africa, si aspettano da me delle certezze e delle interpretazioni capaci di spiegare il perché le cose funzionano così in Africa. Non ne ho e sinceramente quando prendo in mano articoli o libri sull'Africa scritti da giornalisti, ma anche da africanisti o analisti internazionali, che cercano di fare delle sintesi o di tracciare delle profezie, nella maggior parte dei casi sono fallimenti clamorosi.
Ci sono diversi esempi in proposito. Venti anni fa tutti i giornali raccontavano che l'Uganda sarebbe scomparsa presto dalle mappe per via dell'alta diffusione dell'AIDS; oggi che questo non è successo, gli stessi giornali parlano dell'Uganda come di un paese che ha sconfitto l'epidemia. In entrambi i casi due stupidaggini grottesche. Questo perché si continua a decifrare le cose che capitano in Africa con i nostri parametri. E non succede solo ai giornalisti o alle ONG, ma anche ai politici, come è successo a Clinton quando investì nell'alleanza tra Asmara e Addis Abeba per rilanciare il Corno d'Africa, affidandosi a una partnership tutt'altro che solida nata durante la guerra di liberazione contro il regime di Menghitsu. Progetto che poco dopo fallì poiché i due stati entrarono in guerra tra loro, spiazzando l'intera comunità degli osservatori internazionali che non comprese affatto quello che stava succedendo.
Per tornare alla tua domanda, quindi, in realtà sono mille le situazioni, mille i personaggi che mi vengono in mente e che ogni volta hanno messo a dura prova le certezze che ho su questo continente. Da un certo punto di vista, questa è la straordinaria ricchezza dell'Africa: se ancora oggi ho voglia di viaggiare in quella terra, è perché l'Africa è ancora in grado di stupirmi.

Prossimo viaggio in programma...

M.T. Ancora non lo so. Sto seguendo due o tre filoni, ma ancora devo capire quale può essere il più interessante. Uno di questi è l'Angola, un paese che sulla carta sta esplodendo. Ha una crescita economica molto elevata, ma con mille contraddizioni e dove buona parte della popolazione non partecipa a questa ricchezza. C'è poi il Ruanda, un altro paese che mi piacerebbe raccontare, e altri stati spesso dimenticati, come la Repubblica Centrafricana, la Guinea-Bissau, il Gabon...
Sto cercando in questi paesi qualche spunto, qualche vicenda da seguire che possa essere stimolante per me e per il lettore. Solitamente, infatti, quando scelgo di andare in un paese ho già un'idea di quale storia voglio andare a raccontare.
Questo, però, non mi impedisce di aprirmi all'infinità di vicende che le città africane offrono all'osservatore non distratto, basta viaggiare con curiosità, con interesse e con rispetto. Allora sì, è possibile raccontare qualcosa che non è ancora stata raccontata o raccontarla in maniera differente, ossia le due sfide che possono contribuire a frantumare i cliché con i quali siamo soliti pensare all'Africa.