a cura di Manuel Antonini

Da ormai dieci anni, oltre al teatro e all’arte, sei impegnato attivamente nell’associazione Sunugal, quali sono i progetti promossi da questa realtà?

M. Gueye Con l’associazione Sunugal portiamo avanti diversi progetti, sia in Italia sia in Senegal. In quest’ultimo abbiamo cominciato da molti anni programmi di alfabetizzazione. Parafrasando Thomas Sankara (presidente del Burkina Faso assassinato nel 1987 n.d.r.), crediamo infatti che imparare a leggere e scrivere è come essere riacquistare la vista da ciechi. Poi ci siamo impegnati in micro-progetti artigianali, in particolare con le donne: siamo partiti inizialmente con corsi e laboratori di batik, per arrivare a creare una scuola di taglio e cucito. Attualmente sono quasi un centinaio le studentesse che frequentano i corsi, mentre quaranta i diplomati usciti.
Abbiamo poi progetti culturali (come la costruzione con fondi privati, messi a disposizione da emigrati, del centro culturale Ker Toubab, nel villaggio di Beud Dienged) ed altri più tecnici, come la messa in opera o la rimessa in funzione di strutture idriche nei villaggi della zona di intervento.
Oggi i programmi promossi dall’associazione stanno diventando sempre più importanti per lo sviluppo delle comunità del territorio dove operiamo. Quando siamo partiti con il primo progetto agricolo c’era molta diffidenza: il “giardinetto” iniziale, però, si è trasformato in un’area di cinque ettari, tolti all’aridità e di nuovo coltivabili. Questo ci rende orgogliosi perché significa che stiamo lavorando verso la direzione giusta, verso quell’aiuto “che aiuta ad uccidere l’aiuto”. Con i nostri interventi, infatti, intendiamo offrire ai ragazzi del posto non occasioni per sopravvivere, ma opportunità per innescare processi autonomi di sviluppo e di vita dignitosa.

Hai citato Thomas Sankara, “l’aiuto che aiuta ad uccidere l’aiuto”. In termini concreti, cosa significa questa affermazione?

M. Gueye In termini pratici significa “basta con l’assistenzialismo”, con un modo di fare cooperazione che porta solo spreco di soldi e poi, quando i cooperanti lasciano il paese, i progetti si fermano. Gli interventi di cooperazione vanno fatti insieme alla gente locale, ai beneficiari. Con loro e non per loro.
Alcuni nostri progetti sono partiti inizialmente senza la disponibilità di fondi, grazie all’iniziativa della comunità dei villaggi che si sono adoperati a ricercare soluzioni. Forti del nostro appoggio si sono fatti portatori e protagonisti di uno sviluppo, senza esserne solamente passivi beneficiari. Ciò significa che le popolazioni del sud del mondo sono capaci di andare avanti da sé, di farsi promotrici del loro stesso sviluppo, e che l’intervento cooperativo in sé non è sufficiente per promuovere autonomia.
I progetti di intervento, poi, devono avere la capacità di generare altri progetti, un villaggio che ha sperimentato soluzioni positive deve farsi carico di diffonderle ai villaggi vicini e così via, in una reazione a catena. Recentemente, a seguito di alcuni progetti sviluppati dalle popolazioni dei villaggi dove operiamo, alcuni rappresentanti dei villaggi vicini si sono fatti avanti e hanno cominciato a dialogare con loro con l’obiettivo di condividere percorsi validi di sviluppo. In questo caso non vengono a chiedere assistenza, ma un sostegno: noi non diamo loro soldi, ma spieghiamo loro come abbiamo fatto per arrivare al punto in cui siamo, forniamo consigli e suggerimenti su come investire le loro risorse, non solo finanziarie.

Un punto delicato della cooperazione non governativa è spesso quello di promuovere attività che rischiano di deresponsabilizzare i governi locali, lasciando alla collaborazione tra agenzie e partner locali lo sforzo di assolvere a compiti che, tuttavia, spetterebbero agli amministratori locali. Cosa ne pensi in proposito?

M. Gueye Sì il punto che sollevi è delicato e importante. Partiamo però da una premessa: se deresponsabilizzo il governo assicurando servizi di base, significa che prima il governo non aveva assunto alcuna responsabilità. In molti dei villaggi che siamo intervenuti, l’associazione insieme alle comunità si è dovuta fare carico di alcuni servizi (dall’acqua potabile all’elettricità…). Se da un lato, dunque, è necessario operare direttamente svolgendo ruoli che spettano all’amministrazione, dall’altro bisogna poi far conoscere agli amministratori quello che si è fatto. Diverse volte ho avuto l’opportunità di parlare con rappresentati del governo o con autorità dei villaggi per richiamarli alle responsabilità dei loro compiti. E’ importante, infatti, che i cittadini facciano pressione su chi dovrebbe rappresentarli e, anzi, che siano loro stessi un giorno a farsi rappresentante in seno alle istituzioni politiche dei loro problemi. Chi meglio di loro, infatti, può conoscere i problemi dei quartieri?

A volte, dunque, le mancate responsabilità dei governi locali africani si generano anche da una debole coscienza politica della popolazione?

M. Gueye Più che debole coscienza possiamo proprio parlare di ignoranza, di non consapevolezza politica che le strutture di governo di molti paesi africani hanno sempre cercato di mantenere nella popolazione. In Africa ormai è molto diffusa l’idea che la politica sia una cosa “sporca” e molti cittadini non hanno idea di quali diritti e doveri spettino alla loro cittadinanza. Quando mi ritrovo a parlare nei quartieri della mia città e dico che i soldi dell’amministrazione non sono lì per essere spesi dal sindaco e dai suoi figli, molti mi prendono per un predicatore pazzo e mi domandano “come si fa?”
Credo che la prima cosa da fare sia non allontanarsi dalla politica, sia portare propri rappresentanti nelle istituzioni e renderli responsabili. In altre parole, se vogliamo responsabilizzare i governi, per prima cosa dobbiamo responsabilizzare la cittadinanza. Seconda cosa, fare in modo che vi sia maggiore rappresentatività all’interno delle istituzioni politiche: cioè, devono emergere rappresentanti politici locali capaci di farsi carico del proprio quartiere o villaggio.

Alcuni lamentano la presenza di politici locali che hanno studiato lontano dall’Africa e poi al loro ritorno si sono fatti portatori di interessi diversi da quelli delle popolazioni africane e di modelli non adatti alle realtà africane. Condividi la critica?

M. Gueye L’errore di molti amministratori che hanno studiato all’estero è stato quello di aver creduto che sarebbe bastato importare puri e crudi modelli occidentali per il contesto africano. Al contrario ci vuole un sistema locale, bisogna partire dai problemi del contesto e non dai modelli suggeriti dall’esperienza occidentale perché le situazioni sono differenti. In Italia, ad esempio, abbiamo una ricchezza che in Senegal non c’è, e, viceversa, in Senegal c’è una ricchezza che in Italia non c’è. Come possiamo adottare lo stesso modello? Un detto consiglia all’uomo di adattarsi all’ambiente e non il contrario: parafrasando, è, dunque, importante adattare i sistemi al luogo.

Alcuni ritengono un errore approcciarsi allo sviluppo come se fosse una soluzione lineare che è possibile raggiungere rimuovendo alcuni ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione. In realtà, dicono, lo sviluppo è un processo che avverrà per gradi, per avanzamenti e per salti. Ritieni che sia corretta questa interpretazione?

M. Gueye E’ vero che non si può ottenere tutto subito, ma bisogna voler cambiare. Gli ostacoli, infatti, esistono e sono gli uomini e le loro volontà a farsi carico della rimozione di questi ostacoli. Guardiamo ad esempio il recente problema di sicurezza alimentare generato dall’aumento del prezzo dei cereali. Gli interessi commerciali ed economici sono scelte e spesso creano ostacoli allo sviluppo. Questi sono ostacoli che devono essere rimossi e perché ciò avvenga non possiamo solo affidarci al tempo, ma dobbiamo mettere in gioco la nostra volontà di cambiarli.
La volontà dello sviluppo deve essere presente anche nei governi locali che si susseguono al potere. Non importa quanto dureranno (l’intera legislatura o solo due anni), ma devono avviare il percorso e quelli successivi proseguire su quella strada. Altrimenti è il gioco dell’elastico: tendo l’elastico il più possibile, ma se chi viene dopo di me lo taglia mi ritrovo daccapo a tirare, solo con un pezzo di elastico più corto. A lungo andare, andando avanti così, ci si ritrova infine senza più corda.

A proposito dei governi locali, spesso i media parlano delle crisi politiche e sociali africane in termini di crisi etniche. E’ davvero così?

M. Gueye Un giorno una signora al bar mi disse “Ah poveri questi africani che stanno facendo la guerra e si stanno ammazzando tra di loro”. Le ho chiesto: ma lei ha riflettuto sul fatto che questa gente si sta uccidendo perché qualcuno dell’Occidente ha venduto loro le armi in cambio di qualche preziosa risorsa e perché quelle guerre sono utili a qualche interesse per poter poi installare su quei terreni i propri impianti?
Non possiamo nasconderci, infatti, che molte crisi africane sono state alimentate dall’occupazione coloniale o commerciale di paesi stranieri: il caso esemplare quello che è avvenuto in Rwanda, dove divisioni sociali sono state trasformate in divisioni etniche, o in Costa d’Avorio.

Ma non è riduttivo affidare le colpe solo a fattori esterni? E le responsabilità dei leader politici africani?

M. Gueye Certo, infatti i politici locali coinvolti in queste crisi sono, nel 90% dei casi, corrotti. E’ ovvio: come esiste corruzione in Europa, esiste corruzione anche in molti paesi africani. Sono amministratori che a volte governano senza essere mai stati eletti e senza rappresentare la popolazione. Spesso hanno poi il sostegno di qualche potenza esterna purché appoggino i loro interessi e quelli delle multinazionali.
Le divisioni tribali, insomma, sono mosse da interessi e sono alimentate per difendere questi interessi, non sono qualcosa di connaturato all’essere africano.

L’Africa è una realtà complessa e vasta. Oggi, infatti, si parla sempre più di Afriche. Ciò significa che non esiste solo la crisi keniana o in Darfur, ma anche paesi dove si stanno facendo importanti passi avanti. Secondo la tua percezione quali sono i paesi che più di altri hanno intrapreso un buon percorso?

M. Gueye Ti posso parlare di quanto sta avvenendo in Senegal. Il presidente
Abdoulaye Wade è un buon politico che ha molta voglia di fare, ma è circondato da molti personaggi ambigui. Purtroppo un presidente difficilmente può controllare l’affidabilità di tutti i suoi collaboratori. Questa è una delle cause dell’attuale situazione del Senegal, dove vi è una grande voglia di cambiamento e, dall’altra parte, una sorta di sviluppo selvaggio.
La gente, comunque, politicamente si sta responsabilizzando e c’è un dialogo aperto. Segnali importanti per il futuro.
Altro paese sulla giusta via è il Ghana: ho letto recentemente diversi articoli sui progressi del paese e devo dire che c’è molto ottimismo.
Segnali incoraggianti vengono poi da tanti altri paesi, come il Marocco.

Adesso vorrei parlare con te di pregiudizi e sviluppo. Spesso, per un europeo (in particolare un italiano) non è facile accettare che un africano sia ricco. Pensiamo che la sua ricchezza sia meno legittima di fronte alla povertà dei suoi concittadini…

M. Gueye E’ un pensiero malato. Si ritorna al discorso di prima, sull’asssistenzialismo. Molti pensano che l’africano o il terzomondista debba sempre restare povero, quasi fosse costretto a morire di fame per sempre. Non si capisce perché non si debba sviluppare l’imprenditoria in Africa come si è sviluppata in altre aree del mondo. Anzi, una via per avviare lo sviluppo è proprio quella di aumentare gli investimenti e il business con imprenditori africani senza imporre posizioni di potere.
Prendiamo Youssou N’Dour. Molte persone che non lo conoscono cercherebbero di evitarlo perché nero, ma nel momento in cui lo conoscessero e venissero a sapere che è ricco comincerebbero a criticarlo. Troverebbero i suoi modi “un fare da snob”, ma questo è esattamente quello che caratterizza la maggior parte degli imprenditori del mondo.
A me non interessa la ricchezza, perché preferisco stare tra la gente. E’ una mia scelta. Chi decide il business, al contrario, lavori duramente per raggiungerlo sempre rispettando gli altri e senza mai sfruttare nessuno. Youssou N’Dour, a mio parere, è un modello in questo senso. Non è solo un’artista, ma è un promotore di cultura e di un business etico che ha migliorato la condizione di molti africani. E ha fatto tutto questo senza andare in giro ad elemosinare, ma lottando e soffrendo.

Insomma, se l’africano rientra nelle categorie che gli abbiamo assegnato può essere accettato, altrimenti…

M. Gueye Ti porto due mie esperienze personali. Qui in Italia ho notato che ci sono teatri che mi evitano o che evitano MaschereNere (compagnia teatrale della quale M. Gueye è presidente) quando proponiamo loro qualche festival perché invece che andare lì a fare le scimmie, c’è un direttore artistico africano.
Ancora, recentemente ero a un incontro presso un comune del bergamasco, dove l’Assessore alla Cultura esprimeva il desiderio di vedere un giorno proporsi un festival organizzato e diretto da associazioni senegalesi. Qualcuno della giunta cominciava già a storcere il naso.
Questi due esempi sono abbastanza esemplificativi di alcuni modi di ragionare presso i posti del potere e tra la gente comune: modi di ragionare che alimentano assistenzialismo e frenano spesso l’emergere di uno sviluppo autonomo dei paesi africani.

In Europa conosciamo molto poco dell’Africa, sebbene vi sia un rapporto ormai millenario. Viviamo di stereotipi e di immagini raccontate in televisione. Poi se si ha la fortuna di poter visitare alcuni suoi paesi, si torna a casa con l’idea che molte cose prima non ci erano state dette. Ad esempio che la povertà materiale non è disperazione o miseria dello spirito. Quanto incide tutto questo sullo sviluppo?

M. Gueye Un giorno ero in una scuola di Pavia, dove avevo portato dei giocattoli usati dai bambini senegalesi. La maestra dopo averli visti cominciò a dire ai suoi alunni quanto i bambini africani fossero sfortunati, quanto fossero poverini e non avessero dei bei giochi con i quali giocare. Propose infine di fare una raccolta di giocattoli usati e inviarli in Senegal. Mi sentii in dovere di correggere la maestra davanti ai suoi alunni e le spiegai che i bambini che avevano dato vita a quei giochi non erano affatto poveri, erano ricchi, creativi.
Non è sufficiente, infatti, guardare agli oggetti che circondano una persona per determinare la sua ricchezza: bisognerebbe prima osservare la sua condizione di vita e le sue opportunità.
Ciò che viene negato spesso all’africano tramite i media è la sua identità e la sua realtà. Spetta a noi immigrati, allora, farci portatori della nostra cultura e valorizzarla in uno scambio con la cultura ospitante. Per favorire lo sviluppo dobbiamo uscire dalla ghettizzazione dell’Africa come disperazione e miseria o dall’immagine folcloristica dell’Africa tutta cous cous e tamburi.
I ritratti distorti dell’Africa sono spesso anche il risultato delle immagini diffuse da chi si fa portavoce del continente per determinati fini. I meccanismi della raccolta fondi di alcune ong (non tutte per carità!), ad esempio, alimentano questi discorsi nonostante le buone intenzioni che li spingono.


Se i pregiudizi alimentano l’assistenzialismo, l’immigrazione allora ha un ruolo fondamentale nel distruggere i primi e nell’alimentare lo sviluppo?

M. Gueye L’immigrazione è sviluppo. L’essere immigrato permette di conoscere e vivere culture differenti e fare confronti tra di esse. In questo modo si può fare portatore della propria cultura, mettendo in luce i suoi valori e i suoi punti di forza. L’immigrato è una sorta di ambasciatore del suo paese e deve promuovere un’immagine differente rispetto a quella stereotipata. Non solo, la collaborazione tra beneficiari, immigrati e ong favorisce la mediazione tra le culture e permette di comprendere ancora meglio i bisogni e le necessità delle comunità che si vuole supportare. Poi l’immigrato può anche scegliere di fare un progetto di business senza nessuna sfumatura sociale, ma deve essere chiaro. Anche l’imprenditoria, infatti, è un buon ponte per unire sviluppo e promozione dell’immagine dell’Africa, solo è importante essere chiari e onesti fin dall’inizio su quanto si vuole fare.

Un’ultima domanda sul teatro, la tua vera passione. Sankara diceva che bisogna osare inventare l’avvenire. Il teatro è il luogo ideale per questo “rischio” dove rendere reale l’immaginazione e combattere in pari tempo gli stereotipi sull’Africa?

M. Gueye Sai ho fatto molti lavori prima di avvicinarmi al teatro. Il panettiere, il muratore e tanti altri. A dir la verità il teatro inizialmente non l’ho scelto. Un po’ ci sono capitato dentro e solo durante ho capito l’importanza dell’opportunità che mi si era presentata. La prima volta che sono andato a fare uno spettacolo al Teatro Verga tremavo. Poi, tutta la sera ho cantato, ballato e raccontato, e quando tutto è finito mi sono accorto di una cosa e mi sono detto “ma allora con gli italiani si può parlare!”. Ecco, considero il teatro un luogo privilegiato, efficiente e confortevole di comunicazione attraverso il quale poter conoscere e farsi conoscere, combattere gli stereotipi e diffondere i messaggi di chi ti sta attorno, italiani e senegalesi. Come artista, infatti, è mio dovere aiutare anche tutti quegli italiani che vorrebbero fare qualcosa per favorire la posizione degli immigrati ma non sanno cosa o come fare. Una volta, infatti, un sindaco leghista mi ha avvicinato chiedendomi aiuto perché voleva fare qualcosa per la comunità migrante della sua amministrazione, ma non sapeva cosa.
Ecco con il teatro è possibile superare il disagio che la differenza dei linguaggi e le barriere sociali comportano, così da incontrarsi in un luogo ideale di comprensione reciproca.