Di seguito la traduzione dell'intervista concessa nel 2000 dai due sociologi francesi alla rivista Le Nouvel Observateur appena dopo la pubblicazione di due libri degli autori sui limiti dell'economia come pensiero unico dominante del mondo attuale.

[04/09/2007]

Il discorso economico è la religione del mondo moderno, con i suoi guru e le sue credenze. Nei due libri, "Le strutture sociali dell'economia" di P. Bourdieu e "La credenza economica. Gli economisti tra scienza e politica" di F. Lebaron, i due sociologi contestano a questi specialisti il diritto di reggere le nostre vite e alla dottrina economica di ergersi a scienza pura, quando in realtà, secondo i due, possiede più le caratteristiche di una religione che erige modelli teorici con il valore di dogmi, piuttosto che con criteri di scienza. Leggiamoli.

Traduzione dal francese di Manuel Antonini dell'articolo "Et si on repensait l’économie?" apparso su Le Nouvel Observateur N°1852, Settimana del 04 maggio 2000.

D. A leggere i vostri due libri, si ha l'impressione che i sociologi contestano oggi la supremazia della scienza economica, ma anche degli economisti come nuovi maestri del mondo?

F.L. C'è senza dubbio, all'interno dei nostri due libri, una certa volontà di rimettere in discussione l'egemonia di un certo modo di pensare economico, e forse anche – bisogna ammetterlo – l'arroganza di certi rappresentanti di questa corporazione. Sebbene tutto ciò avviene sempre sul piano della critica e delle costruzioni scientifiche. E' su questo piano che l'economia oggi socialmente dominante può e deve essere discussa, in particolare dalla sociologia e dalle altre scienze sociali, come l'antropologia e la storia.

P.B. La messa in discussione non può restare confinata al terreno strettamente scientifico. Noi, infatti, siamo messi di fronte all'onnipresenza della scienza economica nel linguaggio quotidiano e alla forza inaudita delle credenze e delle categorie economiche, che si estendono con la loro benedizione sempre più spesso ben al di là dell'universo teorico.

F.L. Sì, per esempio attraverso il linguaggio dell'economia, la visione economica (o economista) arriva nei media – anche quelli più critici – che hanno abituato il pubblico a una sorta di sottomissione o di rassegnazione alle leggi ferrea dell'economia.

P.B Del resto il fatto che il giornalismo sia uno dei grandi veicoli della credenza economica spiega la nostra presenza oggi qui (e la nostra traduzione sul sito n.d.t.)

F.L. L'economia si impone come il linguaggio della vita pubblica, e impone i suoi schemi, i suoi sistemi argomentativi, i suoi modelli cognitivi. Come per esempio nel caso del futuro delle pensioni, che è pensato in termini di contabilità statale e non come una questione di solidarietà inter e intragenerazionale, e anche tra gruppi sociali.

D. Le vostre proposte sono abbastanza radicali poiché, infondo, ciò che voi contestate è che l'economia sia veramente una scienza?

F.L. Più esattamente, contesto il fatto che l'economia possa essere descritta con sicurezza come “la più scientifica delle scienze sociali”. E provo a dimostrare, a partire da un'inchiesta fondata su osservazioni empiriche e su indagini statistiche, che l'economia è forse per certi versi più vicina al campo religioso (o filosofico) che a un campo scientifico autonomo.
In realtà, non faccio altro che riattivare un certo numero di “dubbi esistenziali”, che sono abbastanza vecchi come l'economia stessa e che sono stati formulati da economisti tra i più prestigiosi proprio riguardo l'economia: essa non fa scoperte, dice Malinvaud; essa si appoggia su fatti non osservati, dice Leontief; essa è essenzialmente normativa, dice Sen; essa è il luogo di mode intellettuali tra le più contraddittorie e di una ipersofisticazione matematica , dice Allais. Tante caratteristiche che, se le si uniscono, portano ad annoverare l'economia accanto a certe teorie filosofiche piuttosto che vicino alle scienze fisiche o biologiche, senza parlare poi di quelle matematiche.

D. Tuttavia non esagerate un po' quando parlate di economia come di una nuova religione?

F.L. Potrei accontentarmi di rispondere che non faccio che prendere sul serio, come rivelatori di una certa inconscienza collettiva, i dossier sui “nuovi preti dell'economia”, i discorsi sui guru dell'economia di Wall Street, o ancora la beatificazione laica di Alan Greenspan (al momento dell'intervista ancora in carica come presidente della banca centrale americana n.d.t.). Non bisogna distorcere così tanto la realtà per ritrovare nelle diverse figure sociali degli economisti quelle dell'ordine religioso: il teologo, il prete, il missionario, l'eretico, il riformatore...

P.B. Senza dimenticare gli esaltati, fedeli e un po' fideisti. Ce n'è a sufficienza tra i giornalisti che hanno avuto a che fare con qualche corso di economia di Scienze Politiche.

F.L. Ma è precisamente perché l'economia si da le apparenze dell'autonomia (solitamente attraverso l'uso della matematica) che essa sembra sfuggire a una riduzione totale verso il religioso. In realtà, si dovrebbe dire, parafrasando Durkheim e Weber, che è in ogni caso una forma complessa della vita religiosa, una forma moderna e altamente razionalizzata

D. L'originalità del suo lavoro, professor Lebaron, consiste nell'interessarsi alla formazione degli economisti: chi sono? In quale scuola hanno studiato? Il suo libro è a tratti una storia sociale e una psicanalisi sociale.

F.L. Ho studiato il modo di produzione di un insieme di particolari disposizioni sociali, che sono associati al fatto di essere oggi degli economisti. Mostrando subito che era illusorio pensare a queste disposizioni come omogenee: l'economia è un campo, strutturato da opposizioni sociali e dottrinali. Insistendo poi sul fatto che la formazione economica ha per funzione quella di ritradurre in un linguaggio particolare, e in certi casi molto formale, le disposizioni banali, largamente incoscienti, di un habitus borghese e maschile, secondo il caso “ingegneristico” o “manageriale”: valorizzazione del successo individuale; propensione al calcolo, all'anticipazione, all'accumulazione del capitale sociale ed economico; propensione all'astrazione deduttiva, etc. Il gusto per i modelli e le adesioni a teorie così poco realistiche come quelle delle anticipazioni razionali trovano la loro origine, e in ogni caso il loro appoggio pratico, in un determinato modo di porsi verso il mondo sociale.

D. Il suo libro, invece, professor Bourdieu, è abbastanza differente in quanto non analizza gli economisti, ma mira semplicemente a togliere loro l'oggetto di studio. A partire dalla descrizione etnologica di una scena molto concreta, la conversazione tra un compratore di una particolare casa e il venditore, lei ricostruisce tutto ciò che è necessario affinché una tale scena possa accadere così come è realmente avvenuta.

P.B. Il mio intento non è prendere agli economisti il loro oggetto, ma di prendere per oggetto, con gli strumenti ordinari delle scienze storiche, un qualcosa considerato solitamente come economico: l'acquisto di una casa. Questo ci porta a scoprire che , per comprendere una transazione di per sé singolare e perfettamente banale, bisogna ricostruire l'insieme delle decisioni che hanno definito la politica del credito (ai singoli ma anche alle imprese edili), ossia, tra le altre cose, la storia delle consultazioni all'interno delle commissioni, tra i banchieri e gli alti funzionari più o meno inclini ad adottare la visione neoliberale secondo la loro formazione scolastica e i loro corpi di appartenenza.

F.L. Tante cose che i modelli economici ignorano in nome del diritto all'astrazione...

P.B. Sì. Il signor Camdessus (il protagonista della scena raccontata nel libro n.d.t..) invoca sempre l'economia (che senza dubbio non legge molto), ma gli economisti non fanno alcun posto nei loro modelli per il signor Camdessus, anche quando ha lavorato direttamente per produrre l'oggetto stesso dei loro calcoli. Lo Stato, che solitamente si ama opporre al mercato, è presente, molto praticamente, all'interno del mercato. Il venditore di case che aiuta il potenziale cliente a riempire un dossier per la richiesta del credito agisce, pur senza saperlo completamente, in favore della banca e dello Stato, che gli delega tacitamente una parte di autorità che esercita sul cliente.

D. A questo proposito, la trovo un po' audace quando in un paragrafo annulla la distinzione tra Stato e società civile.

P.B. Ma vede bene che degli agenti che si potrebbero classificare senza discussioni dalla parte della società civile, come il venditore un'impresa privata, sono in realtà dominati dal pensiero di Stato e agiscono come mandatari ufficiali dello Stato.

D. Da qui, passo dopo passo, sono tutti i dogmi della dottrina economica che voi cercate di minare: l'offerta e la domanda, la scelta razionale degli individui...

P.B. In effetti, quanto si scopre, se ci si interessa alle condizioni reali del funzionamento degli scambi economici, è che tanto l'offerta quanto la domanda così come sono valutate in un dato momento rappresentano delle costruzioni sociali. La domanda, perché dipende per larga parte dall'aiuto statale (...). L'offerta, perché dipende allo stesso modo dalle forme di credito che le banche, con il sostegno dello Stato, accordano alle differenti categorie di costruttori. Ma non è tutto: comprendere realmente l'offerta, significa valutarla nella sua forma di struttura, o, più precisamente – scusatemi se sarò un po' complicato – significa cogliere il mercato dell'offerta, valutato nella sua diversità e nella sua dispersione estrema, dalla grande impresa costruttrice di case prefabbricate che ne produce migliaia all'anno fino al piccolo artigiano che offre qualche casa su un mercato strettamente locale, come un campo, ossia come un luogo di rapporti di forza che determinano e limitano le relazioni di concorrenza tra le differenti imprese e coloro che le dirigono.

D. Alla fine è la nozione di individuo così come l'accetta l'economia neoclassica che lei mette in questione.

P.B. Questo non è che uno dei numerosi casi in cui l'ignoranza delle acquisizioni più elementari fatte dalle altre scienze sociali porta gli economisti ad accettare senza discussione le rappresentazioni del senso comune. Tuttavia, il terreno delle pratiche economiche è senza dubbio una delle migliori occasioni per dimostrare che quanto noi chiamiamo individuo, con i suoi bisogni, le sue propensioni, le sue disposizioni, le sue attitudini, è un prodotto della storia, individuale e soprattutto collettiva. E' stato Bergson, seppure sospettato di sociologismo, a dire “Si ha bisogno di molti secoli per produrre un utilitarista come Stuart Mill”. Ciò che chiamo l'habitus economico è questo collettivo incorporato in ognuno di noi che ci rende grosso modo adatti al mondo economico di cui siamo i prodotti.

D. Non temete di essere accusato di cadere in una visione determinista?

P.B. Questo rimprovero sarebbe particolarmente mal riuscito da parte di coloro che invocano senza sosta l'ineluttabilità delle leggi dei mercati finanziari.

D. I vostri due libri terminano con un allargamento dell'analisi su di un piano internazionale. Lei analizza, professor Bourdieu, il passaggio dal campo nazionale al campo internazionale mentre lei, professor Lebaron, si interroga sull'apparente legittimazione scientifica mondiale che il premio Nobel da alle teorie economiche (si è stupiti di sapere, leggendovi, che il premio Nobel in economia non è un vero premio, ma è stato creato da una banca).

F.L. Sì, dalla banca centrale svedese nel 1968. E non è a conti fatti un caso. Queste istanze divengono sempre più indipendenti....

P.B. ...indipendenti soprattutto dagli Stati e dai cittadini, evidentemente...

F.L. ...hanno visto il loro potere accrescersi considerevolmente durante gli ultimi anni, fondando la loro legittimità, almeno parzialmente, sul sapere economico.
La Banca centrale europea non controlla solamente i tassi di interesse (...). Essa esige il rispetto di severe norme relative al budget che limitano il ricorso alla spesa pubblica, veglia per prevenire le tensioni inflazionistiche, che essa teme più nelle rivendicazioni salariali piuttosto che nella speculazione finanziaria...
Quanto al premio nobel, è valorizzato tanto all'interno che all'esterno del mondo degli economisti, in quanto avvalora l'idea che questa disciplina è a tutti gli effetti una scienza, come la fisica. Ma se si guarda le caratteristiche degli “eletti”, ci si accorge che questo premio tende a riconoscere i lavori più in linea con le forze economiche dominanti di ogni periodo. Durante gli anni '70, ha consacrato molto spesso i keynesiani interventisti, che hanno avuto il loro giorno di gloria nel periodo tra gli anni '50-'60. In seguito si assiste a uno spostamento verso il mondo dei mercati, soprattutto finanziari, molto visibile negli anni '90. Il centro simbolico della scienza economica mondiale si sposta allora verso Chicago, luogo di espressione della forma più assolutista della fede nei meccanismi del mercato. L'evoluzione del premio Nobel non è che un indizio di uno spostamento più ampio del centro del potere economico.

P.B. E' questo che hanno manifestato con clamore quelli che hanno contestato l'attribuzione del falso premio Nobel a Milton Friedman, il quale si è fatto conoscere anche per alcuni interventi politici affatto equivoci in favore di regimi politici altrettanto poco equivoci.

D. Il sottotitolo del libro del professor Lebaron parla di “economisti tra scienza e politica” e ciò deve essere inteso come una critica, ma i vostri libri presentano delle analisi scientifiche che mi sono sembrate altrettanto molto politiche.

F.L. Sì, a differenza dell'economia, che si presenta socialmente come una scienza fondamentale, ma che è in realtà fondamentalmente politica e al servizio dei poteri economici, noi ci inseriamo nel campo della scienza, ben sapendo che questa scelta non sarà senza effetti politici e che non è politicamente neutro fare opera scientifica. Piuttosto questa scelta significa affermare la necessità dell'autonomia della ricerca nelle scienze sociali in rapporto ai poteri e correre così il rischio di essere screditato dalle numerose forze sociali ostili a questa autonomia.

P.B. L'economia si crede un scienza pura e perfetta, come i modelli matematici dietro i quali nasconde i suoi presupposti, ma paradossalmente, essa si crede anche come una scienza di Stato e di governo. La sociologia attira il sospetto, in gran parte perché rifiuta di fare semplicemente (o solamente) ciò che i poteri domandano più volentieri – per esempio, oggi, di fornire dei mezzi per riparare i cocci rotti dall'economia e, indirettamente, dagli economisti, studiando la droga, la delinquenza e tutte le manifestazioni di disintegrazione sociale, che sono in gran parte effetto delle politiche economiche.
Prendere per oggetto l'economia neoclassica o invitare gli specialisti delle scienze storiche (a cominciare evidentemente da tutti gli economisti lucidi sui limiti della loro ortodossia) a prenderla come oggetto, è di per sé un atto scientifico che, dato il ruolo centrale giocato dall'ortodossia neoliberale nella razionalizzazione e nella legittimazione delle politiche economiche più favorevoli ai detentori del potere economico, è anche – che lo si voglia o meno (e credo che noi lo vogliamo) – un atto politico.