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Lippmann e Dewey: riflessioni sull'opinione pubblica

Walter Lippmann è in assoluto lo studioso che ci ha lasciato la valutazione più impressionante dell'incapacità di giudizio critico dei cittadini. Giornalista e saggista statunitense, negli anni venti dedicò quattro saggi al problema dell'opinione pubblica: Test of the News (1920), Liberty and the News (1920), Public Opinion (1922) e The Phantom Public (1925).
La prima concettualizzazione teorica dell'opinione pubblica, così come la intendiamo oggi, è da ricercare senz'altro in Public Opinion, pubblicato a New York nel 1922. Questa opera è stata scritta subito dopo la Prima Guerra Mondiale, evento che rappresenta la svolta decisiva per l'affermazione definitiva dell'importanza delle dinamiche di opinione e dei processi di comunicazione collettiva attraverso i mass media. Tale momento storico ha segnato la nascita di due nuove dimensione rilevanti per lo sviluppo della democrazia e dell'opinione pubblica nella modernità: l'avvento della propaganda politica e la nazionalizzazione delle masse, cioè la piena integrazione politica e simbolica dell'intera popolazione nella società e nelle sue istituzioni.

Public Opinion è considerato da tutti una delle pietre miliari della riflessione sul rapporto tra giornalismo, opinione pubblica e democrazia.Il libro si divide in due parti: la prima riguarda i modi attraverso cui veniamo a conoscenza dei fatti che non possiamo vedere. Nella seconda parte si esaminano invece le conseguenze di ciò sulla società democratica.
Il punto di partenza dell'analisi è la guerra. Durante la guerra ognuna delle parti avversarie crede nella propria immagine del nemico, considerando reale ciò che suppone essere reale. Nel conflitto le immagini simboliche si caricano di significati e poiché l'offerta di simboli è più scarsa in tempo di guerra che nei periodi di pace si hanno poche immagini emotivamente cariche dei dati non visti di persona.
Anche in tempo di pace tuttavia, "qualsiasi società che non sia talmente assorbita nei suoi interessi, né tanto piccola che tutti siano in grado di sapere tutto su ciò che vi accade, le idee si riferiscono a fatti che sono fuori dal campo visuale dell'individuo e che perlopiù sono facili da comprendere (…) Il solo sentimento che si può provare per un fatto di cui non si ha un'esperienza diretta è quello che viene suscitato dall'immagine mentale di quel fatto"1.
Da queste affermazioni Lippmann trae la tesi della sua indagine ossia: "ciò che l'individuo fa si fonda non su una conoscenza diretta e certa, ma su immagini che egli si forma o che gli vengono date"2.

Lippmann scrive che tra i fatti e l'individuo si crea uno pseudoambiente, un ambiente che non è quello reale, ma è quello delle immagini che gli sono state offerte. Egli ritiene che fin quando i filosofi non riusciranno a comprendere questo pseudoambiente che costituisce l'orizzonte mentale degli individui, difficilmente si potranno prevedere le loro azioni.
Nell'ultima parte dell'introduzione del volume, Lippmann constata come "la democrazia, nella sua forma originaria, non abbia mai seriamente affrontato il problema derivante dalla non automatica corrispondenza delle immagini che gli individui hanno nella loro mente, alla realtà del mondo esterno"3.
Questo problema verrà affrontato ampiamente nella seconda parte del libro. Qui Lippmann si chiede, infatti, come sia possibile il governo dei cittadini se essi non hanno una conoscenza diretta delle questioni sulle quali sono chiamati a decidere, e se l'immagine di tali questioni non possa essere del tutto fuorviante rispetto alla realtà dei fatti.
Nella prima parte del libro Lippmann ci presenta alcuni esempi tratti in gran parte da episodi relativi alla prima guerra mondiale, così da poter documentare le proprie tesi attraverso l'analisi del modo nel quale si diffondevano le notizie in tempo di guerra. Il discorso viene ampliato e l'autore estende la propria considerazione all'analisi della censura e della segretezza che in guerra erano accettate come normali, e alla modalità secondo la quale vengono conosciute e trasmesse le notizie nella moderna società industriale. Lippmann osserva come le reali possibilità di venire in contatto con i fatti da parte dei cittadini siano fortemente condizionate da vari fattori, tra cui il reddito, il tempo disponibile, l'interesse e la capacità di attenzione. Inoltre anche tra coloro ai quali l'accesso alle notizie è consentito, non è comunque assicurata la piena comprensione di esse, in quanto le notizie stesse sono condizionate dalle esigenze dello stile giornalistico: esigenze di sinteticità che tendono a concentrare molteplici informazioni in un testo breve. L'autore ci fa l'esempio delle conferenze di pace e dei condizionamenti che i mezzi tecnici imponevano: i fatti dovevano essere comunicati con poche parole, chiare e velocemente. Tali esigenze rendevano la notizia sintetica, ma sacrificavano altri aspetti fondamentali.

Il punto di maggior interesse di tutta l'opera è tuttavia l'analisi degli stereotipi. Viene analizzata la genesi degli stereotipi sottolineando come, sia nell'esperienza personale, sia nelle conoscenze delle questioni pubbliche, proprio la varietà e l'ampiezza dell'esistenza rendano impossibile un contatto diretto con i fatti. A questo proposito la cultura offre agli individui degli schemi interpretativi: gli stereotipi.
Scrive Lippmann che tale atteggiamento ci permette di risparmiare energie, in quanto il tentativo di vedere ogni realtà in dettaglio impedirebbe ogni forma di azione. In questo senso gli stereotipi sono uno strumento indispensabile al vivere.
Da questa analisi si deduce che la conoscenza dei fatti così come si presentano nella realtà risulta fortemente problematica. A questo proposito Lippmann continua ad avanzare l'istanza di una maggiore obiettività.
In ogni caso l'autore perviene ad una descrizione della conoscenza individuale e dei fatti sociali assai interessante. Egli scrive: "non vediamo quello che i nostri occhi non sono abituati a considerare. Siamo colpiti, talvolta consapevolmente, più spesso senza saperlo, da quei fatti che si attagliano alla nostra filosofia", cioè ad "una serie più o meno organizzata di immagini per descrivere il mondo che non si vede"4.
Se gli individui giudicano prevalentemente in base ad immagini e stereotipi, egli si chiede come sia possibile una conoscenza non superficiale dei fatti. Lippmann giunge ad affermare che "allo stato attuale dell'istruzione, un'opinione pubblica è soprattutto un'interpretazione moralizzata e codificata dei fatti"5.

La conoscenza degli avvenimenti che non vediamo direttamente avviene mediante simboli; tali simboli ci permettono non soltanto di vedere quella parte del mondo di cui non abbiamo esperienza diretta, ma di giudicarla. In questo senso l'opinione pubblica ha certamente a che fare con dei criteri generali relativi a ciò che è bene o a ciò che è male, e quindi alla morale.
L'esistenza di una pluralità di sistemi di immagini spinge Lippmann a chiedersi in che modo un particolare simbolo si radichi nella mente di una persona. La risposta va ricercata nei leaders. Infatti, gli individui affrontano il mondo che non vedono, attraverso le informazioni che apprendono dalle persone che considerano autorevoli: esse costituiscono i principali strumenti di conoscenza della realtà della quale non si ha esperienza diretta. Alle masse resta solo la possibilità di accettare o meno le questioni che le sono proposte dai leaders.
Nella parte di Public Opinion dedicata alle considerazioni sulla democrazia, Lippmann guarda quest'ultima alla luce dell'analisi condotta nella prima parte; vengono illustrate con grande chiarezza alcune delle sue difficoltà, con particolare riferimento a quelle dell'America di quegli anni.
Egli muove dalla constatazione che sebbene l'opinione pubblica sia un elemento fondamentale per ogni sistema democratico, non è ancora mai stato analizzato il modo in cui essa si forma. Egli ritiene che fino a quel momento l'interesse sia stato rivolto o alle modalità attraverso le quali il governo ottiene il consenso alle sue azioni, o al modo per condizionare l'opinione pubblica. Lippmann ritiene possibile il formarsi di un'opinione pubblica realistica, soltanto accettando che essa implichi tempo, denaro, attenzione, in quanto presuppone "un metodo di pensiero politico che si fonda su documenti precisi, misurazioni, analisi e confronti"6. Al contrario, usualmente, l'opinione pubblica era avvolta nel mistero, tanto che essa, sin dai padri fondatori della democrazia americana, veniva considerata espressione della volontà popolare. Per spiegare questo apparente limite di uomini come Jefferson ed Hamilton, Lippmann traccia un breve excursus del pensiero politico all'origine della democrazia americana.
I grandi pensatori politici si trovarono di fronte il problema dell'uomo egocentrico, che vedeva tutto il mondo attraverso le immagini che aveva in testa. Proprio la questione dell'uomo egocentrico in contrasto con gli altri, insieme alla necessità di garantire tra questi individui la pace, caratterizza per Lippmann la grande riflessione politica.



1. W. Lippmann, L'Opinione Pubblica, Donzelli, Roma, 1999
2. Ibidem, p. 52
3. Ibidem, p. 57
4. Ibidem p. 113
5. Ibidem p. 118
6. Ibidem p. 120


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