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Sviluppo e solidarietà: prospettive

Sociologia economica: il mito dell’economia formale

Il termine “decrescita” è stato introdotto nel dibattito economico solo recentemente sebbene l’idea di una società della decrescita fosse stato già elaborata negli anni sessanta da studiosi quali appunto Illich: la società dei consumi, della scienza, del progresso era stata messa in discussione a causa del fallimento dello sviluppo del Sud del mondo e del venir meno del Nord come punto di riferimento. Per decrescita dobbiamo, dunque, intendere l’allontanamento dall’obiettivo della crescita intesa come ricerca del profitto e del progresso; essa deve essere considerata come una critica allo sviluppo e come il tentativo di individuare quegli elementi che potrebbero condurre ad un progetto alternativo a quello incentrato sull’economicismo (Latouche, 2007). In altri termini, la società della crescita è intesa come una società in cui la crescita diventa l’unico obiettivo - o, comunque, quello principale. Il processo di globalizzazione in atto, con la sua realizzazione di un mercato senza frontiere, rappresenta il trionfo di tale concezione. Tuttavia, una società di questo tipo non può continuare a crescere incessantemente a causa dei limiti del nostro pianeta.
Già nel pensiero economico classico alcuni economisti quali Smith, Maltus, Ricardo e Mill non reputavano possibile una crescita costante ed infinita, ma sostenevano che prima o poi si sarebbe verificato un arresto dell’accumulazione che avrebbe portato al cosiddetto stato stazionario: la crescita si sarebbe ad un certo punto bloccata, ma il sistema economico avrebbe continuato a funzionare senza alcun problema, grazie all’effetto delle proprie forze interne.
Concetti simili a quelli formulati dagli economisti classici sono state elaborate dopo la crisi del 1929: le teorie della stagnazione portate avanti da studiosi quali Hansen, Higgins, Keynes, si fondavano sull’idea che il capitalismo fosse ormai giunto alla sua fase matura, con la conseguenza che si sarebbe prodotta una stagnazione non a causa della scarsità delle risorse naturali, ma per la minore crescita demografica, la riduzione delle occasioni di investimento, l’inadeguatezza delle innovazioni tecnologiche.
La nostra società si fonda sulla necessità di mantenere un sistema economico in cui l’accumulazione deve essere illimitata che, tuttavia, crea un circolo vizioso, poiché sostenere la spesa pubblica, il sistema pensionistico, il lavoro richiede un costante aumento del prodotto interno. Ciò obbliga a mantenere livelli di crescita sempre più elevati che, tuttavia, diventano insostenibili dal punto di vista ecologico e sociale. La finitezza del nostro pianeta non può essere conciliata con ritmi di crescita infinita.
Lo stesso Illich sosteneva che una società della crescita non è auspicabile per diverse ragioni. Innanzitutto, essa da origine a disuguaglianze ed ingiustizie dal momento che, stando ai dati forniti dall’Undp, se nel 1970 il divario di ricchezza tra il quinto della popolazione più povera e il quinto dei quella più ricca era di 1 a 30, nel 2004 tale rapporto era divenuto di 1 a 74. Inoltre, una società di questo genere crea un benessere illusorio, poiché la necessità di aumentare il Pil porta a reputare positivamente ogni tipo di produzione e di spesa, comprese le produzioni considerate nocive e le spese necessarie a combattere i loro effetti negativi: in tal senso, un chiaro esempio è fornito dagli investimenti in attività volte ad eliminare l’inquinamento. Infine, una società della crescita sviluppa una “antisocietà” malata della sua ricchezza: quest’ultima, infatti, è il maggiore flagello della società moderna dato che la felicità che la società della crescita dovrebbe arrecare in realtà si traduce in una accumulazione di beni di consumo, in un forte aumento del livello di stress, insonnia e malattie di diverso genere che conducono ad un disagio individuale caratterizzato da depressione, consumo di tranquillanti e sonniferi, turbe psichiche, tentativi di suicidio, ecc. In altre parole, come afferma lo stesso Latouche, “l’alchimia mercantile, l’economia si è dimostrata in grado di produrre una crescita del valore monetario senza crescita della qualità [della vita, n.d.t.], quando quest’ultima non è addirittura decresciuta”. In egual modo, nei termini di Georges Didier, il problema è “diminuire la tirannia dell’onnipotenza per aumentare la qualità relazionale” (Latouche, 2007). Il monito di far prevalere l’autonomia dell’essere sulla dittatura dell’avere, nel quale le parole poc’anzi citate potrebbero essere declinate, non è certo cosa nuova: già Erich Fromm nel suo saggio Avere o Essere aveva sollevato la questione. Tuttavia, il punto centrale del pensiero di Latouche è quello di trasformare tale base di partenza in un progetto politico alternativo, in una paradigma strutturale sul quale fondare una nuova idea di economia – e quindi di società – dove non bisogna “quantificare ciò che non è mercantile, attribuire un prezzo a ciò che non ne ha, dalla natura al volontariato” (Latouche, 2007) proprio come accade nella prospettiva economicista e utilitarista.3. Anzi, l’idea di assegnare un valore economico a tutte le variabili dell’esistenza umana per poter sostenere una concezione non strettamente economica della ricchezza e del progresso è una contraddizione che segna, di fatto, nei nostri giorni la vittoria definitiva dell’economia come valore supremo, come unica giustificazione credibile delle azioni in favore di certi valori, quali la giustizia, le relazioni sociali o l’etica. (Gadrey, Jany-Catrice, 2005). Una contraddizione che va sempre nel segno dell’imperialismo economico sull’esistenza e su qualsiasi parametro o criterio di valutazione delle azioni, che si imporrebbe, dunque, come valore supremo.
L’obbiettivo di Laotuche, invece, è proprio quello di rifiutare tale dominio e onnipotenza per presentare un progetto politico, pur anche un’utopia societaria, dove la relazione tra essere e avere di Fromm non è demandata all’individuo4, bensì diviene una prospettiva d’azione collettiva nella quale l’ordine dei valori, e non solo la misurazione dello sviluppo o della felicità (come in Sen) sia completamente rivisto. ”Nell’ottica della costruzione della decrescita”, infatti, “il problema non è cambiare l’unità di misura per trasformare la società, ma cominciare a cambiare i valori e di conseguenza i concetti a cui intendiamo rifarci”(Latouche, 2007). Ripensare lo sviluppo, allora, significa riconcettualizzarlo, ossia identificarlo non semplicemente con nuove misurazioni su scale o con indicatori differenti, bensì con nuovi criteri che, ad esempio, prendano come ispirazione le idee di Henry David Thoreau5 e “la sobria ebbrezza della vita” di Ivan Illich.
In sostanza una riconcettualizzazione che si richiama a una limitazione dei consumi contro le sindromi da shopping che esauriscono spesso lo spettro delle scelte possibili nelle nostre società (Bauman, 2007), a una rivalutazione dell’ambiente contro il suo sfruttamento e a un più generale riassorbimento dell’economia entro la dimensione sociale (un’economia, dunque, ri-embedded). Questo, secondo il pensiero di Illich, non per tornare a una vita di stenti e privazione, ma per liberare creatività e convivialità (Illich, 2007): la tensione verso la priorità economica, infatti, priva di valore qualsiasi cosa non sia quantificabile sul mercato, privandola di dignità e di contenuto. E, se l’economia e la sua fuoriuscita dalla dimensione sociale è un artificio dei tempi moderni (Polanyi, 2000; Latouche, 2007), allora è evidente come l’ideologia economicista si sia radicata fortemente nei valori della nostra società proprio in considerazione del valore attribuito al dono, alla gratuità e alla sobrietà di una vita non tesa all’accumulazione dei consumi. Una considerazione che, nel migliore dei casi, François Brune ci dice identifica la ricerca della semplicità volontaria con un’opzione di frustrazione masochista (Latouche, 2007).
Tale riconcettualizzazione, riconosce Latouche ha due caratteristiche fondamentali: da una parte deve proporsi come progetto politico elaborato attraverso diverse fasi (che lui stesso elenca come il programma delle “otto R”: ossia, rivalutare, ridistribuire, ridefinire, ristrutturare, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare – dove la particella “ri” segna il contrasto con i valori corrispettivi presenti nelle nostre società dell’immaginario economico); dall’altra, proprio perché progetto politico, e quindi collettivo, resta un’alternativa, o meglio un paradigma di alternative, necessariamente utopico. Infatti, “la proposta della decrescita mette in discussione la società di mercato” e, in quanto tale, “una vera alternativa che mette in discussione lo stato delle cose, dunque i rapporti di forza, si troverà sempre di fronte una serie di resistenze, anche e soprattutto da parte delle vittime, poiché il cambiamento farà vacillare i loro stili di vita e le loro forme di pensiero. Dunque l’alternativa è necessariamente piuttosto utopica, fino a quando le circostanze non avranno reso ineluttabile la sua realizzazione”(Latouche, 2007)
Il concetto di decrescita non deve essere, così, inteso come una proposta di politiche per una crescita in negativo6, piuttosto come il rovesciamento del dominio dell’immaginario economico (Latouche, 2004), in favore di un’economia inserita in una società conviviale e di un’economia vernacolare (ossia diretta a soddisfare i bisogni primari e non tesa a svilupparne di nuovi solo per sostenere e imporre l’esistenza stessa dell’economia e dei suoi valori).
Tale riconcettualizzazione dello sviluppo umano, come visto, all’inizio del paragrafo, prende spunto dalle esperienze dell’autore delle società solidaristiche visitate nei suoi viaggi tra le terre del sud del mondo. Non è un caso, che al centro del concetto di decrescita è fondamentale la rivalutazione del concetto di solidarietà e i suoi corollari di reciprocità e gratuità attraverso il contributo dell’opera di Illich. Secondo Latouche, infatti, sebbene le strutture solidaristiche delle comunità africane funzionino accanto ai rapporti mercantili, essi intrecciano e inseriscono, come già visto nei capitoli precedenti, l’economico nel sociale. Anzi, l’assenza o la debolezza della quantificazione mercantile all’interno delle relazioni solidaristiche e di reciprocità aggravano “l’ibridazione dell’economia [con il sociale, aggiungo io] al punto di snaturarla” (Latouche, 2002), ossia di farle perdere la sua essenza moderna. L’interesse, infatti, all’interno dei rapporti simmetrici di una comunità rurale è solo uno dei motivi per cui si dona, insieme al timore, alla pietà, al dovere e all’amore, e non il motivo principale o, comunque, dominante.
Secondo Latouche, dunque, la solidarietà delle comunità africane non è la struttura di una società ideale e nemmeno l’archetipo per il migliore dei mondo possibili, ma è un esempio attuale di cosa significhi stare fuori dal paradigma utilitarista e privilegiare un’esistenza che pone dinnanzi al dominio economico altri valori. E, aggiunge Latouche, proprio questo aspetto permette alle comunità africane di sopravvivere allo stritolamento dei rapporti di forza e delle condizioni commerciali dell’economia mondiale (Latouche, 2002).
Con il lavoro di Latouche, dunque, la solidarietà africana non è tanto o non è solo un fattore importante da tenere in considerazione per programmare i progetti di aiuto, bensì diviene un elemento centrale di realtà che pongono in discussione le nostre società e i modelli di sviluppo formatisi e ci interrogano sulla questione della reciprocità tra differenti ambienti culturali e su cosa siamo disposti a ricevere da quelle comunità. In altre parole, esso non solo, in presenza di determinate condizioni, è uno strumento utile a favorire un maggior benessere presso quelle comunità, anziché un ostacolo, bensì è anche un mezzo per rivalutare e mettere in discussione il nostro immaginario attorno al concetto di sviluppo.
In conclusione, la solidarietà delle comunità rurali africane ci dice che non viviamo nel migliore dei mondi e un’alternativa è sempre possibile per migliorare l’attuale concezione occidentale del rapporto tra economia e società e le sue basi filosofiche-antropologiche, fondate sul dominio economico. Un’alternativa che, come detto, è utopica ma non per questo meno reale: anche la formica di Garcia Lorca fu uccisa dalle sue compagne perché diceva di aver visto le stelle. Essa era stata, infatti, sulla cima di un albero, là dove le sue compagne non erano mai state: ma questo non rendeva le stelle meno reali.

A cura di Erika Paolini e Manuel Antonini



3. Si consideri ad esempio la gran confusione costruitasi attorno alla questione dell’azione volontaria, comunque fatta rientrare in termini di egoismo dalla corrente economica e utlitarista nei termini di compensazione a livello di soddisfazione personale.
4. D’altro canto Fromm era uno psicanalista ancora prima che sociologo e la dimensione individuale prevale sull’interazione e la progettazione collettiva
5. Il pensatore americano è uno di quei personaggi affascinanti che la storia ci ha consegnato sottraendolo a qualsiasi categoria o definizione di intellettuale. Definirlo, infatti, filosofo sarebbe troppo riduttivo per una figura della cultura americana che con i suoi scritti, La disobbedienza civile e Walden, ovvero Vita nei boschi, ha profondamente segnato l’immaginario delle generazioni successive.
6. Nell’intervista citata ad inizio capitolo, Latouche spiega chiaramente questo punto “La decrescita non significa crescita negativa, è uno slogan che vuole rompere gli stereotipi della crescita, del fondamentalismo basato sullo sviluppo e dell’economicismo per mostrare la necessità di uscire da questa religione. Se si vuole essere rigorosi fino in fondo, bisognerebbe parlare di “a-crescita” come si parla di a-teismo. Perché è logico che i burkinabé, la cui impronta ecologica è meno di un decimo del pianeta, abbiano un diritto indiscutibile ad accrescerla e a conoscere una forma o l’altra di “crescita”, ossia di accrescimento dei loro raccolti, della loro produzione, del loro consumo, all’interno di una concezione più eguale di ripartizione delle ricchezze e delle risorse del pianeta”.


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