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Sociologia economica: il mito dell’economia formale

L’economia in sociologia

La questione economica è stata al centro degli studi sociologici fin dagli albori della disciplina. Qualsiasi organizzazione sociale, infatti, ha tra le sue funzioni prioritarie quella di assicurare i mezzi e le risorse per soddisfare le esigenze della collettività e assicurare la sussistenza materiale.

Tale concezione dell’economia, che caratterizza l’approccio sociologico, si è andata formando a cavallo tra i secoli XIX e XX, diffondendosi grazie agli sviluppi dei classici sociologici quali Marx, Weber, Durkheim, Veblen e Polanyi. Principalmente quest’ultimo ha delineato con maggiore chiarezza e attenzione nella sua opera i caratteri teorico-metodologici della sociologia economica, in contrasto con l’allora corrente principale della teoria economica (mainstream), ossia la cosiddetta economia neoclassica1.

L’economia neoclassica concepiva, infatti, l’economia come allocazione razionale di risorse scarse per il soddisfacimento di fini alternativi.2 In questo senso, il concetto di economia si sovrapponeva a quello strumentale di economizzazione, massimizzazione, ossia trarre il maggior vantaggio possibile da una combinazione razionale di risorse scarse. La massima efficienza di questa allocazione ( e quindi il massimo vantaggio per tutti i partecipanti allo scambio) è definita dal concetto paretiano di “ottimo”, quella situazione per la quale dopo numerosi o “infiniti” scambi non è più possibile alcuno scambio in grado di aumentare l’utilità di uno senza peggiorare il bene di altri.

All’interno della prospettiva neoclassica, che poi ha costituito le basi dell’intero approccio economico successivo, l’azione economica fa riferimento all’individuo singolo3, che orienta le proprie azioni attraverso la razionalità strumentale, ovverosia calcolando razionalmente tra mezzi e fini quelle risorse che permettono di raggiungere lo scopo e il modo più efficiente e vantaggioso. A muovere l’attore quindi è il perseguimento del benessere individuale, la motivazione utilitaristica.

Introducendo brevemente l’economia neoclassica, quello che ci interessa qui sottolineare è la sua identificazione del concetto economico con le parole chiave del pensiero del XIX secolo: individualismo, razionalizzazione e utilitarismo. Al di là delle analisi di Weber e Pareto sulla debolezza di un’interpretazione strumentale e razionale dell’azione, il punto cruciale della questione sta nel fatto che l’economia così interpretata non lascia spazio a modelli alternativi di organizzazione economica. L’unico spazio legittimo e appropriato, infatti, concesso agli attori sociali dall’economia neoclassica per organizzare le proprie attività economiche è quello del mercato, ossia mercato concorrenziale, uno spazio dove le scelte dell’attore sono orientate dalle sole regole valide sotto le condizioni che soddisfano il buon funzionamento del mercato, vale a dire libera concorrenza perfetta, ottima informazione, capacità razionale di calcolo di ogni attore della propria utilità e della sua massimizzazione.

All’interno di quest’arena mercantile, qualsiasi principio o regola sociale, e spesso anche politica, è interpretata come un’interferenza, un impedimento agli scambi e alla mobilità dei fattori produttivi proprio verso la realizzazione dell’ottimo paretiano che soddisferebbe ogni attore in gioco. Guardando questo ragionamento da un altro punto di vista, quello che emerge significa che qualsiasi modello alternativo di regolazione delle attività economiche o semplicemente qualsiasi interferenza con il funzionamento del mercato costituiscono un peggioramento dell’efficacia e dell’efficienza degli scambi economici. In altre parole, qualsiasi formula che si allontana dal mercato è un’organizzazione “primitiva”, o comunque meno evoluta, della funzione economica di una collettività.

A questo punto, il lascito dell’economia neoclassica è particolarmente stimolante per l’approccio sociologico nascente almeno per due considerazioni: da una parte perché declina un assoluto storico, l’economia, in una delle sue manifestazioni; dall’altra perché esclude qualsiasi aspetto sociale dalla comprensione di attività che poi, nella realtà, si svolgono all’interno del tessuto sociale stesso.

Cerchiamo di vedere come la sociologia economica ha affrontato questi due punti, cercando di tracciare in linea generale un approccio comune derivante dalle sue diverse riflessioni fondato sul concetto chiave formulato nella teoria di Polanyi di embeddeness, che verrà più ampiamente ripreso nel secondo paragrafo per introdurci a modelli alternativi di economia rispetto al mercato.

Per prima cosa, come si è detto all’inizio, l’economia in sociologia economica viene identificata con tutte quelle attività svolte per fini di sussistenza; ciò significa che, a differenza degli economisti, per il sociologo l’aggettivo “economico non è vincolato solo a quelle attività che si svolgono nella sfera del mercato, bensì a tutti quei processi che contribuiscono a soddisfare i bisogni individuali e collettivi. Il sociologo, dunque, guarda al manifestarsi di queste attività secondo una prospettiva storica e sociale, ritenendo il mercato solo una forma delle possibili che l’economia può assumere.

A proposito di questa distinzione, Polanyi, nel suo libro “La grande trasformazione”, ritiene che i mercati abbiano dominato l’allocazione delle risorse solo per un breve periodo di tempo: egli sostiene, infatti, che altri sistemi allocativi, alla base dei quali non vi è un comportamento economizzante, hanno caratterizzato l’organizzazione economica delle società europee e non. Egli ritiene che sia un “errore logico” attribuire all’economia, fenomeno vasto e generico, la forma di una sua specie, il mercato. Ed è sulla base di questa distinzione che solitamente si parla di economia sostanziale riferendosi alla definizione della prospettiva sociologica, mentre si parla di economia formale riferendosi al mainstream neoclassico (perché, appunto, esso si concentra solo su una forma assunta dall’organizzazione economica).

Il secondo punto di divergenza riguarda la razionalità strumentale, alla quale gli economisti vincolano l’azione economica. In sociologia economica, infatti, non si riconosce più l’esistenza di una sola forma di razionalità, ma si guarda ai suoi diversi modelli che danno senso all’azione (dove per razionalità si intende lo strumento che da senso all’azione e ce la rende intellegibile). Lo stesso Polanyi, oltre a criticare la teoria economica perché considera il mercato un fenomeno naturale, rifiuta il corollario neoclassico collegando l’economia ad un particolare tipo di razionalità.

Infine, da queste due considerazioni si arriva a desumere che in sociologia economica è fondamentale per la comprensione stessa delle attività e delle scelte economiche l’analisi del contesto sociale nel quale le stesse sono inserite. Un’attività economica è sempre svolta all’interno di relazioni sociali (embeddeness) e non è mai isolata. Come Durkheim spiegava nella sua “La divisione sociale del lavoro”, qualsiasi sistema economico non può fondarsi solamente sulle sue regole in assenza di un consenso sociale che garantisca quelle risorse necessarie affinché il sistema stesso funzioni in modo efficiente, come ad esempio la fiducia. Il sociologo francese poneva il caso del contratto, mentre Weber nella sua analisi dell’evoluzione del capitalismo sottolineava come esso si fosse sviluppato a partire da una concezione etica comune, dalla condivisione dei valori di ceto, che ha creato quell’ambiente favorevole allo sviluppo di un determinato modello di attività economica.

Per meglio comprendere, tuttavia, il significato di un’economia inserita nel tessuto sociale, ossia di un’economia embedded, approfondiamo il pensiero di chi, più di ogni altro, ha concentrato i suoi sforzi nello studio di questo oggetto.



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