Home Sociologia
Home Sociologia
Pagina 1 di 2
L'efficacia dell'aiuto allo sviluppo

Le agenzie di aiuto allo sviluppo stanno migliorando?

Nel settembre 2007 il professore W. Easterly, insegnante presso la New York University e autore del libro “I disastri dell’uomo bianco”, ha rilasciato un working paper (tutti i dati relativi alle statistiche qua non riportate potete consultarli direttamente nel documento originale) dove analizza i progressi compiuti dalle agenzie internazionali nel rendere più efficace l’aiuto allo sviluppo.

Fin dall’istituzione degli Obiettivi del Millennio (MDGs) le agenzie internazionali (sia istituzioni multilaterali, come il Fondo Monetario – FMI – e la Banca Mondiale – WB – sia governi nazionali) hanno insistito sulla necessità di un programma di più larghi contributi allo sviluppo (si veda ad esempio i parametri dell’UE che hanno imposto ai paesi membri un preciso percorso per arrivare a versare entro il 2015 lo 0,7% del PIL). Tuttavia, trent’anni di tentativi e mancate promesse hanno dimostrato che di per sé l’aiuto allo sviluppo non è sufficiente. Diversi sono i contributi che richiamano l’attenzione sull’efficacia dell’aiuto estero nel creare le condizioni dello sviluppo economico (si vedano ad esempio gli articoli comparsi sull’Economist o quelli delle diverse ong impegnate sul campo, come ActionAid International). Se, infatti, non c’è unanimità nel sostenere quali metodi e strategie renderebbero l’aiuto più efficace, c’è però un esteso consenso nell’affermare che deve essere migliorato.

I problemi più evidenti evidenziati nei report delle agenzie multilaterali e nelle commissioni nazionali che si sono succedute nel tempo sono pressoché sempre gli stessi.
In primis, il mancato coordinamento del sistema di allocazione delle risorse: un fenomeno che nel migliore dei casi rende l’aiuto meno efficiente e, nel peggiore, compromette le prospettive di sviluppo dei paesi nel lungo termine. Altri problemi: l’aiuto legato e l’imposizione di non necessarie condizioni, il peso del debito e molti altri.
Jeffrey Sachs, professore e coordinatore del programma Millenium Project, in un suo report (“Fixing the aid system”), riassume l’insieme dei differenti problemi in una formula precisa “tradurre gli impegni in azione”.

Dalla famosa Commissione Pearson del 1969 (la commissione che per prima negli Usa sollevò il problema dell’efficacia dell’aiuto) alla Commissione per l’Africa istituita da Tony Blair nel 2005, le questioni che ostacolano lo sforzo di rendere la retorica del “making poverty history” un’azione realmente concreta ed efficace sono le seguenti:

· Coordinamento dei paesi e delle istituzioni donatrici: la molteplicità delle agenzie, infatti, e la mancanza di coordinamento produce una sovrapposizione dei programmi di intervento e uno sperpero di forze che riduce l’efficacia dell’aiuto

· Il sistema di allocazione e la selettività dell’intervento: a cosa deve essere collegato il prestito? Alla performance, alle policies commerciali, alle istituzioni o alle necessità di ogni paese?

· Aiuto legato: l’aiuto legato è uno delle questioni più spesso denunciate dalle ong del mondo. Esso, infatti, altro non è che uno strumento politico e commerciale, in quanto si lega l’offerta dell’aiuto alla condizione che quei fondi siano investiti in beni e servizi del paese donatore. Tale pratica, dicono le stime, riduce l’efficacia dell’aiuto dal 10 al 30%.

· L’aiuto diretto in termini di beni alimentari: sebbene essenziale in contesti di crisi, nelle strategie di sviluppo l’aiuto diretto in termini di beni alimentari sembra essere più costoso che l’approvvigionamento locale, oltre a creare una condizione di dipendenza economica forte che impedisce uno sviluppo dei mercati e della produzione del paese ricevente.

· Assistenza tecnica: come nel caso dell’aiuto alimentare diretto, l’assistenza tecnica in termini di consulenti e tecnici spesso risulta controproducente nell’aiuto, in quanto non implica un trasferimento del know how e dell’expertise necessario a favorire uno sviluppo autonomo. Non è un caso che sempre più ong si affidino a personale locale nel ricoprire ruoli di consulenza tecnica.

· Annullamento del debito: se da una parte il debito mantiene le economie del sud dipendenti da quelle del nord e stritola lo sviluppo economico e la spesa pubblica; dall’altra, l’annullamento del debito nelle modalità fino ad ora portate avanti non sempre si è risolto in una strategia capace di impedire ai paesi beneficiari di indebitarsi nuovamente.

Easterly si domanda nel suo paper se le agenzie internazionali e nazionali siano state capace di compiere dei progressi in relazione a questi punti

Come calcolare, però, il progresso?

L’autore prende come parametro di riferimento il comportamento ideale nell’aiuto allo sviluppo così come considerato e definito dalle agenzie stesse. In altre parole, il progresso, se c’è, consisterebbe nella riduzione del gap tra ciò che le agenzie ritengono essere il comportamento ideale e il modo in cui realmente si comportano. Easterly, dunque, cerca di capire come le agenzie di aiuto abbiano corretto il loro comportamento sulla base di ciò che è stato da loro condiviso come comportamento ideale o “perfetto”.

Un tale tipo di auto correzione avviene solitamente attraverso due processi, distinti ma non separati:

1. apprendimento
2. risposta a un nuovo e maggiore sostegno politico verso l’obiettivo della riduzione della povertà nel mondo

L’apprendimento delle agenzie internazionali a sua volta avviene almeno attraverso tre fonti:

I. esperienze accumulate affrontando alcuni dei problemi prima delineati
II. reagendo alle nuove conoscenze negli studi scientifici
III. reagendo al fallimento di precedenti strategie

Il miglioramento del comportamento può essere esito di entrambi i processi: derivante sia da un apprendimento negli errori compiuti, sia da un cambiamento politico che favorisce il sostegno politico degli obiettivi contro la povertà (come ad esempio la fine della guerra fredda).
L’assenza di miglioramento nei casi in cui le lezioni dell’esperienza, nuove conoscenze o precedenti fallimenti sembrano essere abbastanza ovvi, può essere ragionevolmente spiegato con la difficoltà di superare le pressioni politiche e gli incentivi organizzativi a far sì che lo status quo non cambi.

Vediamo ora nel dettaglio i differenti problemi e quali progressi sono stati compiuti dalle agenzie internazionali (Easterly nel report considera le cinque maggiori agenzie internazionali: FMI, WB, USA, Regno Unito, Francia e Giappone – trascurando probabilmente l’Unione Europea sia per la mancanza di dati in prospettiva storica sia per lo scarso coordinamento a livello comunitario degli aiuti).

Apprendimento attraverso le esperienze accumulate

Coordinamento dei donatori

Il primo problema affrontato da Easterly è la mancanza di coordinamento e l’enorme costo amministrativo degli interventi di aiuto, provocando non solo uno sperpero dei fondi versati, ma pure una inutile quanto costosa duplicazione degli sforzi.
In un recente documento, Fondo Monetario e Banca Mondiale hanno evidenziato come la necessità di scrivere differenti reports per i diversi programmi sanitari richiesti dalle agenzie assorbe circa il 50/70 % del tempo di un funzionario sanitario in un distretto medico in Tanzania.

Il problema però non è solo nei resoconti degli interventi: la mancanza di un coordinamento crea anche costi ulteriori nel commissionare studi di fattibilità prima dei progetti, studi poi che non sono condivisi o consultati tra gli stessi donatori.

Per risolvere la mancanza di coordinamento, Easterly si richiama alla parola magica “harmonization”, ossia un processo di adeguamento delle burocrazie e delle strutture preposte al versamento e all’utilizzo dei fondi. La questione dell’armonizzazione è stata già sollevata nella Dichiarazione di Parigi del 2005 sull’efficacia dell’aiuto, ma fino ad ora sono pochi i passi concreti spesi in questo senso.

Il problema, poi, non riguarda solo gli aspetti formali e burocratici: una delle cause principali di dispersione dell’efficacia risiede anche nell’incapacità di armonizzare gli interventi sul campo tra le diverse agenzie. Capita quindi di essere in presenza di svariati progetti non comunicanti e, anzi, concorrenti nelle stesse aree. Invece di preferire la specializzazione in un settore e demandare ad altre agenzie l’intervento in settori con meno competenze e qualifiche, ogni agenzia sembra voler essere presente in ogni settore e in tutti i paesi, L’eccesso di onnipresenza e onnipotenza, che Easterly definisce con la metafora in realtà poco gloriosa “del piantare la bandiera”, riduce ovviamente l’efficacia dell’aiuto se confrontato con una politica condivisa di specializzazione per settore e per paesi.

Fatto il quadro della situazione, l’autore passa a valutare le statistiche per vedere se sono stati fatti dei progressi in quest’area verso un’allocazione delle risorse maggiormente coordinata tra le agenzie dell’aiuto e all’interno delle agenzie stesse. I dati non segnano alcun trend positivo: la denuncia di frammentazione non è stata seguita da azioni concrete e strutturali che hanno invertito il metodo fin ora seguito. Ciò significa che gli aiuti, ad oggi, non risultano più coordinati, nonostante i proclami fin qui fatti.

L’aiuto legato

L’aiuto legato è stato uno strumento di cooperazione molto in voga negli ultimi decenni e, come in ogni moda, diverse sono le critiche ad esso rivolte. Essenzialmente esso consiste nel versamento di fondi vincolati all’acquisto di beni o servizi di imprese del paese donatore. Come appare evidente, il principio che si cela dietro l’aiuto legato, oltre a rafforzare la dipendenza dell’economia ricevente a quella del donatore, non favorisce nemmeno la possibilità di gestire e concentrare i fondi secondo l’uso migliore possibile.

In questo campo, le ripetute e insistenti denunce delle associazioni civili hanno fatto sì che fin dall’inizio degli anni ’90 si registrasse un drastico declino nella percentuale riservata all’aiuto legato nel complesso dei fondi versati. Tuttavia, il segno positivo è offuscato dalla mancanza di dati certi per alcuni paesi: gli Stati Uniti, ad esempio, dal 1996 si rifiutano di fornire i dati statistici riguardo l’aiuto vincolato, così come la Nuova Zelanda e, sorpresa, l’Italia.
Allo stato attuale, suggerisce Easterly, le pacche sulle spalle per i risultati raggiunti nel complesso non ci dicono tutta la verità, se a mancare dalle statistiche ci sono paesi che risultano essere tra i maggiori donatori.

Assistenza alimentare e tecnica

L’assistenza alimentare è un genere di aiuto che comporta la fornitura diretta di beni alimentari prodotti nei paesi del nord del mondo. Sebbene in situazioni di crisi e di emergenze essa è la principale e più importante forma di aiuto, quando si parla di cooperazione allo sviluppo lo scenario cambia e laddove prima c’era un campo di fiori, ci si ritrova a saltellare su un terreno assai pericoloso.

L’assistenza alimentare, infatti, nelle politiche di sviluppo ha effetti deleteri che devono essere considerati come primari, in quanto il meccanismo virtuoso per favorire la crescita economica dei paesi del sud e la loro emancipazione dagli aiuti non può esimersi dal considerare la cornice istituzionale ed economica nella quale gli aiuti sono inseriti. In altre parole, lo sviluppo dell’Angola non passa solo dai fondi stanziati per quel paese, ma anche e soprattutto da relazioni commerciali e politiche coerenti che assicurano a quei fondi la piena realizzazione dei loro obiettivi, in un contesto di diritti affermati e rispettati.

L’assistenza alimentare, al contrario, non va propriamente in questa direzione: oltre a presentarsi come una forma di sussidio per la propria produzione nazionale, essa disincentiva i produttori di beni alimentari del paese ricevente e riduce drasticamente i prezzi, impedendo ai mercati locali di ripagare gli investimenti fatti durante l’anno.

In questi anni, la critica all’assistenza alimentare, che denota oltretutto il classico approccio assistenzialista del benefattore senza minare la questione dell’ingiustizia che produce la situazione stessa di bisogno, è stata criticata suggerendo l’uso di fondi in due alternative:

· per acquistare cibo sui mercati locali (sebbene tale formula alzerebbe probabilmente i costi in modo non proporzionale ai reditti)
· per garantire prestiti e microcredito così da stimolare il reddito e la produzione locale di cibo (non ultimo il caso Youssou N’Dour e Benetton)

L’assistenza tecnica, invece, è una forma di aiuto che, come le precedenti, risulta vincolata all’assunzione di personale tecnico del paese donatore, spesso col risultato di inficiare la trasmissione di expertise e konw how ai tecnici locali (il punto qui discusso è molto delicato in quanto i pareri sono contrastanti. Inoltre si legano alla questione più ampia di come debbano avvenire gli investimenti commerciali in Africa: si veda ad esempio il caso della Cina che ha stretto diverse partnership commerciali e imprese di sfruttamento delle riserve petrolifere coinvolgendo in minima parte il personale locale).

Sia l’assistenza alimentare che tecnica sono forme di aiuto, ci spiega Easterly, molto popolari nei paesi ricchi, in quanto si cela, dietro la lotta alla povertà, dei sussidi all’economia nazionale.

Le considerazioni che l’autore trae dalle statistiche sui progressi compiuti dalle agenzie di aiuto nell’allontanarsi da questi strumenti non sono positivi: secondo i dati solo l’assistenza alimentare negli anni sembra essere diminuita, mentre l’assistenza tecnica non segna alcun genere di variazione. In altre parole, se da una parte si è cercato di porre rimedio alle storture dell’aiuto in forma diretta di beni alimentari, dall’altra non vi sono stati miglioramenti e la percentuale riservata all’assistenza tecnica resta costante.

Apprendere dalle conoscenze

In questa seconda parte Easterly affronta quei cambiamenti nell’uso degli aiuti che sono intervenuti o che sarebbero dovuti intervenire a fronte delle nuove conoscenze emerse negli studi economici sullo sviluppo, attraverso i suoi diversi approcci.

La dottrina solitamente tende a dividere queste conoscenze in quattro grandi fasi teoriche:

1. anni ’60: durante questo periodo a prevalere sono le teorie che sostengono che lo sviluppo del terzo mondo passi attraverso la mobilitazione finanziaria volta a favorire le infrastrutture e la formazione sul posto di capitale industriale;

2. anni ’70: nel decennio successivo si è iniziato a sostenere, con maggiore convinzione, la necessità di migliorare la distribuzione della ricchezza mondiale attraverso un più sostenuto sforzo di aiuti verso le nazioni più povere. E’ l’inizio del periodo dei grandi proclami, quando si diffonde l’ottimismo che basti versare dei soldi per risolvere ogni ingiustizia, con il sottofondo ideologico che se i paesi del sud del mondo versano in quelle condizioni è per la loro arretratezza o comunque incapacità di salire sul treno del progresso (che purtroppo non si è mai fermato nelle stazioni di Kigali, di Kinshasa o di Laoré);

3. anni ’80: è il periodo in cui si assegna grande rilevanza alle policies governative e alla loro capacità di creare delle condizioni favorevoli e degli incentivi al settore privato, al libero commercio e alla stabilità macroeconomica. In quegli anni la Tatcher, da una parte, e Reagan, dall’altra, cercano di convincere il mondo “che non esiste società”, ma solo un insieme di uomini che liberamente scambiandosi beni e servizi possono giungere al benessere perfetto per ognuno. Tale approccio, poi detto neo liberale, si diffonde anche nelle agenzie multilaterali, la Banca Mondiale e l’FMI, che introducono i ben tristemente noti programmi di aggiustamento strutturale. Essi non sono altro che prestiti concessi dalle istituzioni internazionali ai paesi del sud del mondo e vincolati all’adozione di determinate policies, appunto, dirette a stimolare i capisaldi del pensiero liberale;

4. anni ’90: l’enfasi si sposta dalle policies alla qualità della politica e delle sue istituzioni governative. A essere messe sotto la lente d’ingrandimento dei paesi donatori non sono le politiche commerciali adottate dai paesi del sud del mondo, ma il contesto stesso entro il quale quelle politiche vengono prese. I punti di riferimento non sono più il tasso di inflazione e i dazi doganali del paese ricevente, bensì la sua capacità di rispondere democraticamente alla popolazione e alle sue esigenze (democratic accountability) e il controllo della corruzione.
Mentre nel decennio precedente erano ritenute efficaci per l’aiuto e lo sviluppo economico delle policies ad essi favorevoli, con gli anni ’90 la dottrina scientifica comincia a credere che ancora più importanti siano istituzioni e governi capaci di sostenere un processo democratico all’interno del paese ricevente.

Sebbene il collegamento tra policies favorevoli e aiuto pro-sviluppo sia ovvio ed elementare, la questione aperta restava nel definire quali condizioni determinassero delle policies favorevoli. In altre parole quali policies erano da considerarsi utili a promuovere lo sviluppo: la risposta negli anni ’80 era quasi unanime, quelle dirette a incentivare il libero commercio e la stabilità macroeconomica (ossia un tasso di inflazione controllato e la riduzione dei deficit statali).

Dall’insieme degli sviluppi di questi studi sono emerse tre grandi vie per definire l’allocazione delle risorse:
· in risposta al bisogno
· in risposta alle policies
· in risposta alla qualità democratica delle istituzioni

Partendo da questi tre indirizzi Easterly analizza come si è sviluppato l’aiuto delle agenzie e quali cambiamenti realmente siano avvenuti in riferimento alle conoscenze acquisite.

    1 Successiva
ARTICOLI AUTORI LIBRI DOSSIER INTERVISTE TESI GLOSSARIO PROFESSIONI LINK CATEGORIE NEWS Home

Skype Me™! Tesionline Srl P.IVA 01096380116   |   Pubblicità   |   Privacy