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La rappresentazione dell'altro
nella sofferenza e nella quotidianità

1. Premessa

“Olivabassa era un paese dell’interno. Cosimo ci arrivò dopo due giorni di cammino, superando pericolosamente i tratti di vegetazione più rada. Per via, vicino agli abitati, la gente che non l’aveva mai visto dava in grida di meraviglia e qualcuno gli tirava dietro delle pietre, per cui cercò di procedere inosservato il più possibile. Ma man mano che si avvicinava a Olivabassa, s’accorse che se qualche boscaiolo o bifolco o raccoglitrice d’olive lo vedeva, non mostrava alcuno stupore, anzi gli uomini lo salutavano cavandosi il cappello, come se lo conoscessero, e dicevano parole certamente non del dialetto locale, che in bocca loro suonavano strane, come: - Senor! Buenos dìas, senor!” (I. Calvino, 1998)

Con la forza evocativa della prosa de “Il barone rampante” di Italo Calvino, appare fin da subito evidente la prospettiva da cui muoverà questa breve ricerca sulla rappresentazione dell’Altro.
La condizione di straniero, di estraneo, di alterità è connessa inevitabilmente alla relazione Noi-Loro: la differenza, che implica l’essere altro, non è una caratteristica oggettiva, naturale, che lo straniero porta con sé.
L’essere straniero non è definito da una sua qualità intrinseca, ontologica, bensì entro una relazione con un Noi che definisce e nomina la realtà che lo circonda. L’Altro presuppone sempre un incontro con il Noi, centro del discorso, che traccia un confine, fissa un dentro e un fuori, un positivo – sfera della solidarietà e dell’appartenenza – ed un negativo – sfera dell’esclusione, della paura, della mancanza di fiducia dove l’Altro è collocato – per definire la propria identità. L’Altro, in questo processo di significazione, è mancanza, negazione del Noi e più avanti, nella seconda parte della ricerca, diventerà evidente questa dimensione di manchevolezza nelle modalità di costruzione dell’alterità, nelle pratiche quotidiane attraverso le quali il Noi si relaziona con l’Altro. All’immigrato e allo straniero, in altre parole, non è concessa un’identità positiva:

Conosci le parolacce in italiano?” “Sì” “Dimmene una!” “Extracomunitario!” “Ma dai! Anche gli svizzeri e gli americani sono extracomunitari!” “Quindi non è una parolaccia?” “Certo che no!” “Anche se ci definisce per quello che non siamo?” “Sì” “Allora spiegami perché un ragazzino di 14 anni, solo perché è nato in Italia, mi ha dato dell’extracomunitario, a me che sono in Italia da ormai trent’anni, lavoro, pago le tasse, che mi sono ingozzato di chili di spaghetti e pizza [...]e per di più ho la cittadinanza italiana, sposato con una italiana con figli italiani?... Forse perché sono nero?” (Kossi Komla-Ebri, 2004)

Il Noi e i suoi tratti distintivi divengono la normalità, l’Altro la negazione di essa.

Il mio amico senegalese Pap chiese a sua moglie italiana di raccontargli la trama del film che era andata a vedere. “E’ la storia di una coppia: lei normale e lui gitano che...” “Come? Non ho capito!” “E’ la storia di una coppia. Lei è una normale, cioè italiana e lui gitano. Hai capito?” “Lei normale! Certo ho capito: come fra me e te io sarei anormale e tu la normale! Vero?” (ib. 2004)

Porre l’attenzione sulla rappresentazione dell’escluso significa dunque riconoscerne il carattere processuale, relazionale, contestuale e sempre situato. Ciò che ieri era straniero domani potrà non esserlo più perché qualche altra discontinuità verrà posta come differenza significativa per tracciare il confine tra il Noi e il Loro.
Cosimo, il baroncino protagonista del libro di Calvino, deciso un giorno di vivere fino alla morte sugli alberi, è straniero, selvaggio, ignoto nei paesi d’attorno a Olivabassa, ma una volta giunto in questo abitato la sua condizione muta improvvisamente: non è più estraneo perché incontra un nuovo Noi, una nuova collettività – centro del discorso sull’Altro – che ha già conosciuto “altri” come lui, ossia una comunità di nobili spagnoli esiliati costretti a vivere sui rami e sugli spalti frondosi per non incorrere nella violazione del divieto regio.
La condizione paradossale di essere straniero di Cosimo evidenzia ancora più efficacemente, e poeticamente, come l’essere Altro è esito di una definizione attiva dell’uomo, risultato di un’azione umana e sociale di classificazione, selezione e costruzione attraverso il linguaggio e le pratiche quotidiane.
Il breve estratto narrativo, nondimeno, richiama all’attenzione un altro aspetto interessante che caratterizza l’essere straniero ossia il carattere di ambivalenza legato alla sua posizione particolare di vicinanza/lontananza, di essere pur sempre incluso nel noi ma non parte del noi (o almeno non più nel caso di Cosimo). Il ragazzo saltando tra le frasche suscita stupore, meraviglia, attrazione e al contempo grida, orrore e repulsione in coloro che lo incontrano: è essere umano ma si muove e vive come una scimmia, un selvaggio irrompendo con forza nella classificazione del Noi, sovvertendola e frantumandola senza adeguarsi ad essa, seppure solo quale residuo, quale mancante – come accade allo straniero che non vive in mezzo al Noi- del centro che nomina la realtà. Lo straniero, in questa condizione marginale, di liminalità è colui che porta il lontano (l’esotico, la paura) nel vicino (il quotidiano, la comunità e le sue relazioni abitudinarie) e viceversa – porta la vicinanza in ciò che è sempre stato posto fuori, lontano dai confini. Cosimo è pur sempre il figlio del Conte di Piovasco di Rondò, ma allo stesso tempo solleva diffidenza, paure, dubbi: “E’ uomo o animale selvatico? O è il diavolo in persona?”.
L’Altro attrae e respinge, punto di unione di una polarità irrisolvibile che per Simmel costituisce la condizione tipica della relazione sociale, quindi del nostro vivere in società e della stessa formazione della nostra identità: sballottati su una scomoda barca fra le perenni onde dell’identificazione e della differenziazione, della vicinanza e della lontananza che ogni relazione sociale implica.
La forza del brano di Calvino è posta nella sua evidente paradossalità, nell’inconsistenza e nell’irrealtà su cui si basa la differenza che segnala Cosimo come Altro: inconsistenza che mostra chiaramente come la diversità sia un quid costruito dal contesto e non una condizione materiale a-storica che si presenta all’uomo e sulla quale scaricherebbe le sue tensioni o patologie mentali.
Il Noi ricerca sempre un porto quieto, una “casa sicura” e l’irrealizzabilità di questo edificio armonioso per via dell’aporia, dello scollamento che si crea tra realtà e progetto porta la comunità a costruire un capro espiatorio, una categoria sociale, l’estraneo che vive in mezzo a noi, che sia la causa del fallimento del progetto collettivo. L’Altro è così minaccia che si insinua fra la comunità, ne satura ogni spazio e scompiglia qualsiasi possibilità di ordine, non permette più di essere padroni a casa propria.

Una sera, mentre era al lavoro, dei ladri provarono a entrare in casa di Gabri, una mia amica italo-etiope di carnagione chiara. Se ne accorse l’indomani, vedendo infranto il vetro esterno della finestra a doppi vetri. Sul pianerottolo incontrò una vicina che glielo confermò: “E’ stata fortunata se non fosse per l’anziana signora del piano di sopra, che si è sporta dal balcone e li ha cacciati via minacciandoli di chiamare la polizia [...]”. Riconoscente, si presentò dopo qualche giorno con una pianta dalla sua salvatrice per ringraziarla. Lei rispose: “ Ah! Non so neanche che coraggio ho avuto, mi è venuto naturale, non ho neanche pensato che poteva essere uno di quei negri...sa, quelli sono senza scrupoli: ti aspettano e poi, dietro l’angolo, si vendicano!” (ib. 2004)

La ricerca prenderà le mosse da questa breve premessa: si cercherà di osservare le modalità attraverso cui il Noi segnala la distinzione che definisce l’Altro – analizzando la dimensione poetica del discorso (come si articola il linguaggio e le pratiche attraverso cui si costruisce il sapere sulla realtà) – per poi risalire al confine stesso che viene tracciato nella relazione Noi/Loro e quali implicazioni, aspettative e condotte sulla realtà esso comporta – in quanto “ il sapere, una volta applicato nel mondo reale, ha effetti reali e in questo senso almeno “diviene vero”(S. Hall “The work of Representation”). In tale prospettiva Focault parla di sapere/potere.


2. Obiettivo della ricerca

Giovedì 20 maggio 2004 comparse sul “Corriere della Sera” una foto (fig. 1 pag. 4) nella quale era ritratto un uomo palestinese in braccio al quale vi era un bambino ferito mortalmente da alcune schegge di un bombardamento israeliano.
La didascalia sottostante recitava così: “Un uomo urla mentre porta un bambino morto. Alla manifestazione partecipavano migliaia di persone.”
La domanda che subito mi si presentò alla mente fu apparentemente banale e semplice come l’oggetto che andavo osservando e forse, per tali motivi, ancora più rivelatrice di riflessioni: “Perché non viene sottolineato alcun legame di parentela fra il bambino e l’uomo? Chi mi assicura che quello non sia suo padre o suo fratello o un qualsiasi suo parente?” A queste prime domande ne seguirono subito delle altre: “Cosa implica questa costruzione della sofferenza altrui sulla rappresentazione che mi faccio di lui? Il loro dolore, così costruito, è posto uguale al nostro? Quale confine viene tracciato attraverso la sofferenza? La rappresentazione della morte, della sofferenza può divenire una modalità per segnare un confine tra Noi e Loro? E se ciò accade, come accade?”
Da questa selva di questioni nascono i punti principali sui quali si concentrerà la prima parte della ricerca:
I. si osserverà come viene costruito la rappresentazione della morte dell’Altro nella foto (con l’annessa didascalia). La loro e la nostra sofferenza ha lo stesso peso? La modalità di costruzione verrà analizzata sia attraverso un’analisi denotativa sia connotativa;
II. in secondo luogo si cercherà di capire quale confine, quale differenza – che si determina, come detto, nella relazione Noi-Loro – viene tracciato attraverso queste modalità di rappresentazione del dolore altrui;
III. infine si proverà a capire quali implicazioni produce sulla realtà (indifferenza, distacco o empatia con l’Altro?) una tale rappresentazione.
In sostanza, in questa prima parte della ricerca si partirà dalla premessa che una modalità attraverso cui l’Altro è costruito (specificatamente l’arabo) sia la particolare rappresentazione della sua sofferenza e dolore. Ovviamente questo è solo un aspetto del più ampio e complesso processo di costruzione al quale esso concorre.

Si cercherà quindi di capire come attraverso questa foto viene veicolata un’immagine dell’altro e quale immagine in particolare viene così costruita. La ricerca si concentrerà su tre quotidiani nazionali, oltre al Corriere della Sera, anche Libero e Il Giornale, nei quali lo stesso giorno è apparsa la stessa foto. Si analizzerà, quotidiano per quotidiano, come viene costruito il discorso sull’altro attraverso la rappresentazione del suo dolore e, come detto, quale confine viene così tracciato, istituito tra noi e loro nella sofferenza.
Infine si cercherà di effettuare un’analisi comparativa tra i differenti discorsi lasciando spazio al concetto teorico foucaultiano di rappresentazione come arena, campo conflittuale fra diversi discorsi sull’altro

Alcune premesse, tuttavia, sono necessarie prima di proseguire: in primis chi scrive non crede che “il “come” sia costruito l’altro attraverso questa rappresentazione della morte (ossia ciò che è scritto in didascalia, l’angolazione della foto che ritrae l’uomo e il bambino e tutte le sfumature che concorrono a dare significato alla morte dell’altro) sia esito di una piena e consapevole strategia. Anzi, al cuore di questa ricerca vi è l’idea che questa, come molte altre pratiche e forme comunicative (non tutte ovviamente) con cui il Noi costruisce l’altro siano inconsapevoli, non intenzionali e per questo ancora più rivelatori sulla loro “autenticità”. La costruzione quasi inconsapevole dell’altro ci dice molto di più su come l’altro è percepito e definito di una qualsiasi dichiarazione esplicita e conscia.
Inoltre chi scrive è tanto meno interessato a chiedersi il perché di una certa costruzione dell’Altro piuttosto che un’altra: non si guarderà alle strategie politiche sottostanti bensì alle modalità, consapevoli o meno non ci importa, con cui l’altro è definito le quali a loro volta ci diranno quale differenza è posta tra il Noi e Loro e quali implicazioni essa ha.

La seconda parte sarà concentrata su una breve raccolta di episodi quotidiani nei quali viene evidenziato, con semplice umorismo e sottile ironia, come le comuni pratiche di relazionarci con gli immigrati africani definiscano l’Altro e le aspettative del Noi nei loro confronti. La serie di rapidi racconti è contenuta nel libro “Imbarazzismi” di Kossi Komla-Ebri e nel suo seguito “Nuovi Imbarazzismi”. La scelta è caduta su questi due testi per diversi motivi: innanzitutto per la disarmante semplicità e quotidianità delle pratiche quotidiane raccontate attraverso le quali una collettività, ossia la nostra, costruisce l’immagine dello straniero che vive in mezzo al Noi, cioè l’immigrato africano che si incontra nelle nostre città. I racconti mostrano come sia la banalità dei nostri gesti, dei nostri discorsi a forgiare l’immagine dell’altro e la nostra condotta/aspettativa nei suoi riguardi: in sostanza si pone in rilievo la “banalità del razzismo”, richiamando in parte il titolo del saggio di H. Arendt.
In secondo luogo perché come dice Laura Balbo nell’introduzione attraverso questi testi si ha la possibilità di “leggere scritti che ci rimandano l’immagine del noi che hanno gli altri e che descrivono, da punti di vista che non sono i nostri, situazioni del vivere quotidiano [...]”
Infine per l’eloquenza del titolo “Imbarazzismi” in cui è contenuto con una forza e una brevità elicitate al massimo grado tutta l’ambivalenza che caratterizza la posizione dello straniero e la relazione del noi nei suoi confronti: da una parte imbarazzo, sensazione di vergogna che si prova nei riguardi di chi si percepisce vicino, di chi è come noi – e dunque vicinanza – e dall’altra razzismo, ossia giudizio negativo dell’altro, lontananza e repulsione.
In questa parte della ricerca si mostrerà così come, attraverso queste pratiche relazionali sospese tra imbarazzo e razzismo, si definisce l’altro nella quotidianità, quali implicazioni porta con sé la rappresentazione e come si orienta la nostra condotta, i nostri comportamenti producendo così “effetti reali”.

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