I luoghi pubblici adibiti allo svolgimento di manifestazioni sportive e, in particolare, quelli legati alla passione calcistica hanno, da sempre, avuto a che fare con problematiche legate al mantenimento ed alla gestione dell’ordine pubblico.
Il riferimento, qui, va a quei gruppi, più o meno organizzati, che generalmente vengono definiti come frange estreme delle tifoserie o, più semplicemente, ultrà.
Le arene del tifo e le frange che le compongono, da decenni ormai, sembrano caratterizzarsi per il fatto di essere il contesto ideale dove pulsioni di natura violenta ed anti-democratica trovano la loro naturale valvola di sfogo, in un mix indecifrato di caratteristiche e variabili, tra le quali, certamente:
- l’appartenenza di gruppo;
- la rivendicazione di pseudo-identità locali e/o politiche;
- l’anomia;
- la devianza.
I gruppi, secondo la teoria di McGrath [1984] “sono quelle aggregazioni sociali che implicano reciproca consapevolezza e una potenziale reciproca interazione, e che in base a questa definizione sono relativamente piccoli e relativamente strutturati e organizzati”. Questo variegato insieme di unità sociali può essere circoscritto considerando quei gruppi con modelli di relazione, ovvero, formati da individui che condividono un set di valori, costumi, abitudini e che possono essere, a loro volta, più o meno istituzionalizzati.
Nel caso delle frange estreme dei tifosi del calcio, il vero e proprio rigetto, individuale e di gruppo, dei valori dominanti nella società, manifestatosi in occasione di tutti quei comportamenti registrati dall’informazione di cronaca, sembra essere la risultante ultima di una più o meno diffusa condizione di anomia cronica intesa come uno stato di dissonanza cognitiva tra le aspettative normative e la realtà vissuta. Tale condizione, tuttavia, non sembra escludere, il fatto che esista, tra queste persone, una relazione di condivisione di valori, mete, abitudini e così via.
La devianza, enfatizzata e rappresentata dall’informazione dei mass-media, costituisce, allo stesso modo, motivazione e manifestazione, da un lato, delle forme di anomia individuale e, dall’altro, degli impulsi di natura violenta di questi gruppi.
Il nesso anomia devianza, per quanto risulti veritiero, tuttavia, sembra essere eccessivamente semplificatorio di una realtà così duratura nel tempo e in continua evoluzione quale è, in Italia, quella delle frange estreme del tifo.
In questo senso, quella che abbiamo chiamato rivendicazione di pseudo-identità locali e/o politiche, in concomitanza con una sempre maggiore strutturazione, sia intra-gruppo che, inter-gruppi, riesce a dar conto di quella reciproca consapevolezza, tra gli individui appartenenti a queste fazioni, che sempre più viene canalizzata nella direzione di uno scontro sistematico con le istituzioni e con la legalità.
A questi tratti, certamente rilevanti ai fini di un approccio alla natura di tali pulsioni violente , va poi aggiunta, la concezione della realtà del tifoso ultrà che, in questi ultimi anni, sembra avere assunto le connotazioni di un vero e proprio status sociale definito. Manifestare la propria appartenenza ad una tifoseria ultrà non sembra più essere, semplicemente, una fede calcistica vissuta all’interno di un gruppo, un consumo culturale, una follia di gruppo, bensì, qualcosa di meno mutevole che sembra assumere le sembianze di un vero e proprio mestiere, passando, ovviamente, per la definizione di uno stile di vita.
Estremamente significativo è sottolineare il fatto che, da questi gruppi, emerga una campione statistico, perlopiù, rappresentato da adolescenti e giovani.
A questo tipo di rappresentanza è comunque associata, lo abbiamo detto, una struttura organizzativa di comunicazione/interazione ben radicata e multiforme tale cioè da sconfinare di gran lunga dal contesto spazio-temporale circoscritto degli eventi calcistici. L’essere ultrà non è più un vestito da levare alla domenica sera, bensì, un modo di essere e di intendere le cose. Radio locali, fanzine, associazioni e siti web ne sono la testimonianza.
Sicuramente, la questione del tifo violento rientra, in qualche modo, nella categoria dei quesiti riguardanti il modo in cui la cultura giovanile si inserisce tra gli spazi della nostra società.
Troppo spesso, infatti, tra le multiformi espressioni della cosiddetta cultura giovanile è possibile riscontrare, in maniera diretta o indiretta, un alto grado di tensione con le istituzioni e il caso degli ultrà non è certamente l’unico. Basti ricordare i fatti di Genova, nel luglio 2001, fra tutti. Questo attrito tra le autorità, le istituzioni preposte e le nuove generazioni, indubbiamente, non è una peculiarità dei nostri tempi, tuttavia, oggi, sembra frammentarsi tra modalità differenziate, in una comunque sempre maggiore flessione del cosiddetto senso civico, a tutti i livelli. Queste forme di devianza, di alegalità non si riscontrano soltanto negli stadi italiani o nei contesti limitrofi, sovente si parla di alegalità diffusa. La questione del bullismo scolastico, ad esempio, non può non essere considerata, a monte, come una questione dalla rilevanza cruciale e strategica.
Probabile il fatto che, anche per questo tipo di situazioni, sia necessario affermare una dura critica alle cosiddette politiche sociali di lungo termine, tanto evocate nell’immediato, successivamente agli eventi di cronaca, ma, di fatto, del tutto prive di ogni fondamento di fronte a veri e propri indicatori di allarme sociale.
Le azioni delle frange estreme del tifo violento, per tornare sull’argomento, sono un fenomeno di ormai lunga durata che, nel corso degli ultimi due decenni, ha registrato un significativo mutamento nella tipologia degli atteggiamenti.
La prevalenza che si aveva, almeno fino ad una decina di anni fa, degli scontri tra gruppi di diverse tifoserie è, ad oggi, una modalità ritenuta del tutto marginale, rispetto all’evidente prevalenza degli scontri direttamente finalizzati al contatto con le forze dell’ordine.
La qualità degli interventi di ordine pubblico è, nel tempo, mutata sensibilmente; se inizialmente era prevalente l’intervento teso a sedare gli scontri tra gruppi, ad oggi, sono nettamente maggioritarie le azioni di repressione o contenimento delle violenze nei confronti delle forze dell’ordine.
Si è passati, dal punto di vista della sociologia dei gruppi, dall’espressione violenta di una identità di tipo locale che opponeva gruppi di tifosi dalla differente provenienza, all’espressione, comunque violenta ed anche aggravata, di un identità di tipo politico-eversiva, sia di destra che di sinistra, rivolta esplicitamente allo scontro con le istituzioni. In questo senso la logica degli ultrà è riuscita a costruire un segmento comune tra opposte fazioni locali e politiche stravolgendo, di fatto, il modo tradizionale di intendere la tifoseria.
È utile ricordare, ai fini di questa riflessione, come tale mutamento negli atteggiamenti di queste frange estreme sia andato di pari passo con un progressivo e ben noto inasprimento del settore legislativo che agisce in tali situazioni. Le ultime vicende di reazione violenta delle tifoserie organizzate di domenica 11/11/2007, in seguito alla drammatica uccisione del ragazzo tifoso della Lazio da parte di un agente della polizia stradale, sono state, indubbiamente, di una gravità inaudita. Di fronte a tali azioni di sommossa si è andato e si andrà generando un precedente giuridico di non poco conto: alcuni degli arrestati, in seguito al tentativo di assalto della caserma della polizia di via Guido Reni a Roma, sono stati indagati con l’aggravante di terrorismo.
Gli interventi del legislatore in merito alla questione del tifo violento si erano sempre misurati sul terreno dell’inasprimento delle sanzioni in merito ad un fenomeno catalogato e circoscritto: quello della violenza negli stadi.
Il presupposto di considerare l’aggravante terroristica scaturisce dalla presa di coscienza, da parte delle autorità, della maggiore strutturazione ed interdipendenza, a fini eversivi, acquisita nel tempo da questi gruppi. Interdipendenza che si è manifestata a pieno, durante quella triste domenica, come in un vero e proprio processo di azione–reazione, tra la divulgazione della notizia dell’uccisione del tifoso laziale ed il successivo spargersi, in più stadi e città della penisola, di un vero e proprio clima di tensione e violenza ultrà.
Scene di guerriglia urbana che solo nove mesi prima avevano fatto perdere la vita ad un agente di polizia, in quel di Catania. Scene già viste.
Il Ministro degli Interni Giuliano Amato ha spiegato in Parlamento che l’uccisione di Gabriele Sandri è stata per i tifosi violenti "l’occasione cercata e trovata per rialzare le bandiere ammainate dopo la morte di Raciti. C’è stata rabbia cieca ed eversiva. In Italia ci sono troppe palestre di violenza, tema che ancora non abbiamo affrontato".
Lo slittamento della questione tifo violento nell’ambito dei temi legati all’eversione e al terrorismo lascia intendere la possibilità da parte del legislatore di metter nuovamente mano alla normativa cambiando totalmente impostazione. Il tema potrebbe passare da un contesto giuridico quasi esclusivamente connesso alla gestione dell’ordine pubblico a situazioni legate alla prevenzione ed al contrasto delle organizzazioni eversive che attentano alla sicurezza dello Stato.
Il parere che sento di dover ribadire, alla luce delle riflessioni maturate in questa sede, è che ad una seppur commisurata risposta sanzionatoria e legislativa all’illegalità di tali organizzazioni e manifestazioni, deve corrispondere una adeguata autocritica delle dirigenze pubbliche rispetto al fatto di aver per troppo tempo trascurato questioni cruciali della società italiana che suonavano e suonano come allarmi in più settori: dal disagio giovanile, alla precarietà del lavoro, la famiglia, la scuola, il vuoto morale ed istituzionale e solo alla fine della catena, alla fine del processo c’è il giovane che esce di casa e va in discoteca, esce con gli amici e, con il gruppo, va allo stadio, troppo spesso, forse, trascurato da quelli che, utilizzando un certo registro, vengono definiti agenti primari della socializzazione.

di Andrea Villa