Secondo l'Istat, nel 2007 il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è stato pari al 20,3% (di circa 14 punti superiore al tasso totale di disoccupazione). Le differenze di genere si mantengono rilevanti: il tasso di disoccupazione giovanile delle donne italiane (23%) supera quello maschile di oltre 5 punti percentuali. Il confronto europeo conferma la gravità del problema. Infatti, l'Eurostat riporta un tasso di disoccupazione pari al 21,3%.

Lo studio di Rosolia e Torrini dal titolo The generation gap: relative earnings of young and old workers in Italy (2007) evidenzia come in Italia, negli ultimi anni, i lavoratori più giovani sembrino incontrare difficoltà crescenti nel costruirsi una carriera lavorativa che consenta il pieno sviluppo delle attitudini e delle capacità individuali, con una conseguente maggiore dipendenza dalle famiglie di origine. Vi è cioè il timore di un possibile arretramento delle condizioni di vita delle nuove generazioni, rispetto a quelle godute dalle generazioni precedenti.
Lo studio di Rosolia e Torrini (2007) mostra, poi, che il salario relativo dei lavoratori dipendenti più giovani si è effettivamente ridotto nel corso degli anni '90 del secolo scorso. Secondo i dati dell'indagine sulle famiglie condotta dalla Banca d'Italia, alla fine degli anni '80 le retribuzioni nette medie mensili degli uomini tra i 19 e i 30 anni erano del 20 per cento più basse di quelle degli uomini tra i 31 e i 60 anni; nel 2006 la differenza era quasi raddoppiata in termini relativi, salendo al 35 per cento. Un fenomeno, a mio avviso, da attribuirsi anche alla considerazione che spesso i giovani, pur di ottenere un lavoro, si accontentano di un compenso meno remunerativo.

Considerando un campione di lavoratori dipendenti del settore privato, estratto dagli archivi dell'Inps, si stima che nel periodo 2001-2006 il salario mensile iniziale (misurato ai prezzi del 2006) sia diminuito di oltre l'11% per i giovani entrati sul mercato del lavoro tra i 21 e 22 anni, presumibilmente diplomati (da 1.200 euro mensili a meno di 1.100€); il calo è dell'8% per i lavoratori tra i 25 e i 26 anni, potenzialmente laureati (da 1.300 a 1.200 euro mensili). Per entrambe le classi di età, i salari d'ingresso, a prezzi costanti, sono tornati nel 2006 sui livelli di venti anni prima. La riduzione del salario d'ingresso non è stata controbilanciata da una carriera e, quindi, una crescita delle retribuzioni più rapida. La perdita di reddito, in termini reali, nel confronto con le generazioni precedenti risulta quindi in larga parte permanente.

Una prima possibile spiegazione di questi andamenti si basa su considerazioni dal lato dell'offerta. La teoria economica suggerisce che, all'aumentare della disponibilità di un fattore produttivo, il suo prezzo diminuisca. Le tendenze demografiche vanno, però, nella direzione opposta: il calo della crescita della popolazione e il suo progressivo invecchiamento avrebbero dovuto contribuire a sostenere i salari dei più giovani, diventati meno numerosi e maggiormente istruiti. Inoltre, non vi sono indicazioni che l'aumento del numero di lavoratori più istruiti (per esempio, i laureati), a cui le persone più giovani contribuiscono con quote crescenti, abbia generato un eccesso di offerta e abbia frenato la crescita dei rispettivi redditi.

Una seconda possibile spiegazione è che modificazioni nella domanda di lavoro abbiano favorito un ingresso più rapido che in passato dei lavoratori meno abili, riducendo in media la produttività, e quindi le retribuzioni, dei nuovi assunti. In questo caso, però, si dovrebbe osservare un aumento della dispersione dei salari d'ingresso, che invece non emerge dai dati. In conclusione, le preoccupazioni per il peggioramento relativo delle carriere lavorative delle generazioni più giovani sono fondate, anche in un contesto economico generalmente meno soddisfacente per tutti.

Questa situazione determina una maggiore permanenza dei giovani nelle famiglie di origine. I dati Istat sulle famiglie italiane attestano, infatti, due caratteristiche che contrassegnano l'attuale rapporto genitori-figli. La prima è data dalla lunga permanenza dei giovani italiani nelle rispettive famiglie di origine, dal momento che l'età mediana di uscita dalla famiglia è di 29,7 anni per i maschi italiani e di 27,1 per le ragazze. L'altro aspetto qualitativo è che vi è un buon clima relazionale in casa e che i conflitti genitori-figli appaiono molto ridotti; la libertà è molto ampia ed anche i ruoli genitoriali si sono smussati divenendo protettivi, partecipativi ed orizzontali (se non quasi amicali) (Istat, 2007). Insomma la figura del "padre padrone" è definitivamente relegata in soffitta.

Ernesto Parisi

Articolo tratto dalla tesi I consumi culturali dei giovani tra i 18 ed i 25 anni