Tra gli oggetti di analisi e discussione della sociologia politica vi sono le campagne elettorali negative e i loro effetti. E' considerazione comune credere che gli attacchi mediatici condotti in campagna elettorale per demonizzare l'avversario sortiscano effetti utili a chi alimenta i discorsi negativi. Ma davvero una campagna negativa porta più voti a chi la conduce? O, quantomeno, riesce veramente a spostare gli elettori indecisi dall'intenzione di votare il candidato bersaglio dell'attacco mediatico per dirigerli verso il proprio schieramento? In altre parole, una campagna negativa conviene davvero?

Paolo Segatti e Hans M. Schadee, docenti dell'Università di Milano in Sociologia Politica e Metodologia della ricerca psicologica, hanno cercato qualche anno fa di trovare una risposta a queste domande in una ricerca condotta tra il 2000 e il 2001. Una ricerca dai risultati affatto scontati. Secondo i due scienziati, infatti, una campagna negativa non sortisce gli effetti sperati, con buona pace di chi, come Berlusconi, ha sempre temuto uno spostamento di voti quale esito di ripetute e continue demonizzazioni in campagna elettorale. Ma cerchiamo di capire meglio.

Durante le campagne elettorali negative l'obiettivo è attaccare su un piano personale, e non politico (ossia sulla sostanza programmatica dell'offerta politica), il proprio candidato avversario. La convinzione strategica che sottende ad una simile tattica è l'idea radicata che porre in cattiva luce, demonizzare l'avversario permetta di spostare più voti a proprio favore, in modo particolare quelli degli indecisi. Con la premessa che gli effetti delle campagne negative sono differenti a seconda degli elettori raggiunti, la loro maggiore influenza si osserverebbe proprio nel peggiorare il giudizio sul candidato al centro della campagna, soprattutto fra gli indecisi.

In altre parole, la demonizzazione dell'avversario non intende tanto rafforzare il proprio elettorato o instillare il dubbio negli elettori di segno opposto (effetti considerati marginali e residui), quanto piuttosto accaparrarsi la fetta più grande possibile degli indecisi nelle intenzioni di voto fra gli schieramenti. E sia chi è al centro dell'attacco, sia chi l'attacco lo porta, è pronto a giurare, con statistiche e cifre, che gli effetti sono reali, i voti si spostano e la lotta si radicalizza. Anzi, i primi a rassicurare su tali effetti, e a lamentarsene, sono proprio i candidati al centro della polemica sollevata dalla campagna.

I dati raccolti dai due studiosi, invece, sembrano indicare dei risultati completamente opposti. Studiando le campagne negative prima delle elezioni politiche italiane del 2001, i due contestano la tesi sostenuta dai più secondo la quale demonizzare Berlusconi avrebbe avuto “effetti efficaci e utili politicamente” al centro sinistra. Al contrario, non solo una campagna negativa non mobilita gli indecisi verso i partiti o i candidati che ne fanno uso, ma favorisce la non partecipazione politica ed elettorale. Dati alla mano (è possibile consultare il saggio sul primo numero 2003 della rivista Italianieuropei), i due studiosi mostrano come la campagna negativa sia controproducente sia per gli uni (gli obiettivi della demonizzazione) sia per gli altri (chi sostiene la campagna) in quanto smobilita gli elettori indecisi, aumentando la loro disaffezione politica, mentre rafforza le identità politiche degli elettori tradizionalmente schierati (in altre parole, un elettore di destra sarà ancora più determinato a votare il proprio segno a seguito della demonizzazione e viceversa).

Analizzando tre variabili (esposizione alla campagna, giudizio verso il candidato demonizzato e comportamento di voto) i due docenti cercano di risalire all'effetto delle campagne negative: se la tesi avanzata dai più fosse valida, i dati raccolti nella loro ricerca dovrebbero mostrare una correlazione positiva tra esposizione alla campagna, cambiamento del giudizio e comportamento di voto favorevole allo schieramento politico avversario. Al contrario se l'effetto reale è quello proposto dai due studiosi, al cambiamento di giudizio sopravvenuto con l'esposizione alla campagna dovrebbe seguire una smobilitazione, ossia una decisione di non voto per alcun schieramento. E i dati mostrano proprio quest'ultimo trend. La maggior parte di coloro che hanno cambiato giudizio sull'avversario demonizzato non si sono tradotti in elettori del campo politico avversario, bensì hanno ingrossato le fila dei disaffezionati, dell'astensione o dell'annullamento della scheda elettorale
Nel saggio i due studiosi affermano: “se confrontiamo i dati relativi a chi ha cambiato in peggio il giudizio su Berlusconi con quelli relativi a coloro che non hanno modificato la loro opinione sul leader di Forza Italia, possiamo osservare che tra i primi la percentuale di voto per l’Ulivo e la Casa delle Libertà ‘scende’, mentre ‘sale’ la percentuale di non voto o voto per le formazioni minori”.

Perché? Un altro dato interessante della ricerca ci suggerisce una risposta: “coloro che hanno cambiato in peggio il loro giudizio su Berlusconi hanno anche modificato in peggio il giudizio sui più importanti leader del centrosinistra”. Tradotto “vuol dire che qualunque sia stata la causa del cambiamento in peggio del giudizio su Berlusconi essa ha probabilmente attivato anche una sorta di distacco emotivo dalla politica e dai suoi principali attori, o almeno dalle opzioni politiche offerte dalle due coalizioni principali”. In altre parole, la campagna negativa non solo ha danneggiato il politico al centro della demonizzazione, ma pure chi sperava di trarre vantaggio dalla campagna in quanto il motivo che ha generato un cambiamento di giudizio verso il candidato al centro dell'attacco si è riflesso a cascata sul sistema politico e sulla generalità dei suoi attori. Una campagna negativa, dunque, tende a generare una sfiducia verso il sistema politico generale e non solo verso la figura politica particolare (in questi passaggi del saggio i due studiosi si appoggiano a scienziati politici internazionali come Norris, Ansolabehere, Iyengar e altri).

Il saggio si chiude con alcune considerazioni finali importanti: in primis, avvertono gli studiosi che la ricerca e i suoi dati, come ogni lavoro fondato su statistiche parziali, non devono essere assunti come valori di verità inconfutabili, ma come spunti che indicano alcune cose. Ossia che la realtà elettorale è spesso più complicata delle tesi che la vogliono rappresentare e influenzare e che, secondariamente, gli elettori sono fra loro differenti e a giocare nelle loro intenzioni di voto subentrano sempre meccanismi cognitivi e emozionali che non possono essere liquidati semplicemente come qualcosa di meccanico e facilmente intuibile.
I due studiosi utilizzano per spiegare ciò la metafora della pioggia. La campagna negativa è acqua piovana e gli elettori sono terreni differenti, alcuni più fertili e altri molto più impermeabili: in nessun caso la pioggia genera sempre lo stesso effetto sui diversi terreni che bagna.

Epicuro temeva che alla lunga, per abitudine, un male può spesso sembrare un bene rispetto al male peggiore. E pur tuttavia resta pur sempre un male. La conclusione della ricerca sembra in parte almeno smentire un po' questa abitudine mentale: non sempre basta parlare male di qualcuno per poter essere visti a propria volta come il male minore. E non sempre apparire come il male minore è sufficiente per essere visto come un bene rispetto al candidato avversario. O almeno si spera.


di Manuel Antonini