A due anni dall'entrata in vigore delle legge 30/2003, G. Altieri dirige una ricerca realizzata dall' IRES e da NIdiL-Cgil, finalizzata ad una verifica dei percorsi e degli esiti lavorativi dei soggetti coinvolti in forme di collaborazione1. Questa indagine empirica consente contemporaneamente una verifica delle caratteristiche e delle condizioni del lavoro svolto in collaborazione, e di cogliere il livello di soddisfazione/insoddisfazione dei collaboratori, nonchè i bisogni e le aspettative che essi hanno nei confronti del sindacato e della politica.
Obiettivo dichiarato della riforma era anche quello di produrre fenomeni evolutivi nelle forme contrattuali già in essere, in particolare nell'area del lavoro subordinato, tali da garantire maggiore efficienza ed equità nel sistema del lavoro italiano. L'introduzione del lavoro a progetto nelle intenzioni del legislatore avrebbe, infatti, dovuto spingere verso il lavoro dipendente le false posizioni autonome, cosicché le difficoltose condizioni di lavoro e di vita dei "falsi collaboratori", avrebbero dovuto trovare una loro positiva risoluzione.
La ricerca ha analizzato il mondo delle collaborazioni nelle sue diverse articolazioni. Infatti sono stati intervistati, tra giugno e agosto 2005, 640 lavoratori e lavoratrici che, al momento della rilevazione avevano un contratto di collaborazione occasionale o un contratto a progetto, oppure che avevano una di queste forme contrattuali a giugno del 2004. Fanno parte del campione anche i lavoratori del settore pubblico, poiché, pur non essendo direttamente coinvolti nella legge 30, rappresentano ormai un gruppo numeroso del popolo dei collaboratori. Negli ultimi anni la pratica di attivare contratti di collaborazione in ambito pubblico, soprattutto a livelli locali, si è infatti ampiamente diffusa.

I principali risultati della ricerca sono i seguenti:
- a due anni dall'entrata in vigore dalla legge 30/2003 quasi la metà (46%) dei collaboratori coordinati e continuativi è oggi un lavoratore a progetto;
- della restante parte il 23% era ed è rimasto un co.co.co. nel pubblico impiego.
Ciò significa che circa il 70% permane nella condizione di para-subordinato.
Il 5,8% ha invece aperto la partita Iva: si tratta spesso di collaboratori che, con l'introduzione della riforma, sono stati indotti dal proprio committente ad aprire la partita Iva.
Soltanto il 6,5% degli ex collaboratori ha infatti oggi un contratto a tempo indeterminato e il 6% è invece stato assunto a tempo determinato, un altro 5% ha un contratto di lavoro in somministrazione o a contenuto formativo.
La quota di coloro che sono stati stabilizzati è peraltro non molto superiore a quella di coloro i quali sono stati invece espulsi dal mercato del lavoro o spinti nell'area del sommerso: il 7,3% degli ex co.co.co. oggi non lavora più o lavora senza contratto.

Indipendentemente dal loro percorso contrattuale, la percezione degli intervistati, infatti, è che le condizioni di lavoro siano rimaste prevalentemente uguali a quelle di prima.
Soltanto per il 28% la situazione lavorativa è migliorata; per il 22% invece, è addirittura peggiorata.
In particolare resta pressoché immutata la percezione della propria autonomia. La situazione poi non migliora, anzi spesso peggiora, sul piano delle tutele e dei diritti.
Soltanto chi è uscito dal mondo delle collaborazioni ed è approdato a un lavoro dipendente riconosce un miglioramento delle proprie condizioni di lavoro e di tutela, seppur con alcune eccezioni.

Sembra significativo notare, inoltre, che una quota significativa dei collaboratori, sebbene appartenenti alla generazione dei trentenni, vive ancora con i genitori.
La stragrande maggioranza non ha figli. Una condizione particolare che riguarda le donne, che sono circa la metà dei collaboratori.
È emblematico che, alla soglia dei quarant'anni, soltanto il 40% delle collaboratrici abbia dei figli.
D'altra parte è facile immaginare che la scelta della maternità, in assenza di supporti e di un sistema sociale di garanzie, possa essere un momento critico per questo gruppo di lavoratrici, poiché l'uscita dal lavoro – o comunque un minore impegno nell'ambito lavorativo a seguito degli impegni nel lavoro di cura – può significare l'allontanamento da quella comunità professionale e dunque anche dalla possibilità di riprendere la propria professione.
La continuità economica è uno dei problemi maggiormente sentiti dai collaboratori, e in effetti i contratti sono piuttosto brevi: il 23,8% degli intervistati ha nel 2005 un contratto della durata massima di sei mesi e il 56,5% di un anno.
Soltanto una minoranza esigua può contare su contratti di durata pari a due o tre anni.

In generale i collaboratori sono lavoratori molto interni ai processi produttivi delle imprese.
Infatti, ben il 76,7% lavora presso l'azienda, l'80% è tenuto inoltre a rispettare un orario di lavoro e al 74% il committente richiede una presenza quotidiana sul luogo di lavoro.
È soprattutto nel settore pubblico che i collaboratori sembrano essere molto interni alle organizzazioni: infatti è proprio a questi che i committenti richiedono più frequentemente non soltanto una presenza quotidiana sul posto di lavoro, ma anche il rispetto di un determinato orario lavorativo.
Colpisce inoltre il fatto che oltre la metà dei collaboratori svolga un orario superiore a quello standard, ossia lavori più di 38 ore a settimana, soprattutto nel privato.
Nonostante gli orari lavorativi lunghi, ben il 46% dei collaboratori ha una retribuzione inferiore a mille euro mensili. Tra questi, poco meno di un quarto, guadagna meno di ottocento euro. Si tratta soprattutto di lavoratori del privato e del privato-sociale.
I "tecnici" e gli "intellettuali", che svolgono orari lavorativi ben al di sopra dell'orario standard, hanno dei redditi mediamente più elevati, ma comunque di gran lunga inferiori a quelli dei loro colleghi dipendenti e mai superiori a mille e cinquecento euro mensili.

In generale, i collaboratori intervistati si ritengono piuttosto scontenti del loro lavoro: ben l'80% si dichiara infatti poco o per niente soddisfatto.
I meno soddisfatti sono coloro che guadagnano meno, ma anche i collaboratori meridionali (51%) e coloro che svolgono professioni di tipo impiegatizio (55%). Per questi l'insoddisfazione è presumibilmente legata al tipo di lavoro, ma forse anche al fatto di svolgere un lavoro non autonomo di fatto e per il quale, dunque, è tendenzialmente poco giustificabile la mancanza di un contratto di dipendenza.
Tra i fattori che pesano negativamente i collaboratori segnalano soprattutto gli aspetti legati alle condizioni contrattuali e alla mancanza di diritti.
In generale, infatti sono abbastanza soddisfatti dei rapporti personali che hanno con i loro colleghi e con i loro superiori; sono contenti inoltre della varietà dei compiti che eseguono e della possibilità di svolgerli in modo relativamente autonomo.
I motivi di maggiore malcontento sono invece legati alla retribuzione, alla possibilità di crescita professionale, al coinvolgimento nelle decisioni aziendali e alla garanzia delle tutele sociali.
Un dato quest'ultimo comune a tutti, indipendentemente dal sesso, dalla professione e dai livelli di reddito. In particolare, le tutele da cui si sentono più esclusi sono legate a diritti basilari: la maternità, seguita dai diritti sindacali e dalla malattia.
In tale contesto di "tutele negate", è ovvio che la stragrande maggioranza dei collaboratori intervistati (86%) dichiari di preferire un lavoro come dipendente, così come che il 50% stia cercando anche un altro lavoro.

Coerentemente con gli scarsi livelli di soddisfazione legati principalmente alla mancanza di tutele e di sicurezza del posto di lavoro, i collaboratori e le collaboratrici chiedono prima di tutto di incentivare la stabilizzazione delle loro posizioni di lavoro: il 41% degli intervistati indica questa come priorità.
Al tempo stesso, chiedono però tutele certe in caso di malattia, infortunio e maternità.
Poco più del 20% degli intervistati, ritiene invece che sia prioritario favorire il ricongiungimento dei contributi previdenziali tra i differenti fondi INPS.
La necessità di attivare percorsi di stabilizzazione sembra essere sentita un po' da tutti i collaboratori, dall'operatore di call center al consulente della pubblica amministrazione fino al tecnico informatico o al ricercatore. Tuttavia, sono soprattutto coloro che svolgono professioni in cui è meno giustificabile la natura autonoma del rapporto di lavoro ad essere più interessati alla promozione di percorsi di stabilizzazione.

In genere sono i giovani ad essere più attenti al problema delle tutele sociali. Con l'aumentare degli anni, invece, diventa più importante la questione previdenziale e in particolare il problema dell'impossibilità di congiungere periodi previdenziali collegati a fondi pensionistici diversi. Ben il 40% di coloro che hanno più di quarant'anni indica la necessità di favorire il ricongiungimento dei contributi come prima risposta. La questione previdenziale è, d'altra parte, uno dei nodi cruciali per questo gruppo di lavoratori e lavoratrici. Lo testimonia anche il fatto che il 35,5% di loro sarebbe disposto a versare maggiori oneri contributivi, pur di avere una maggiore copertura previdenziale.


Note
1 Ricerca promossa dal NIdiL Cgil e diretta da G. Altieri, Nuovo contratto. Stessi problemi. Gli effetti della legge 30/03 nel passaggio dalle collaborazioni coordinate e continuative al lavoro a progetto, 21 Ottobre, 2005

Sara Di Paolo
Articolo tratto dalla tesi Società della conoscenza e mercato del lavoro