La disamina metodologica, che ancora oggi fatica a trovare una proficua modalità di agire comunicativo, un denkstill (stile di pensiero) per dirla con Fleck, ha caratterizzato gli ultimi decenni del dibattito contribuendo a costruire quanto mai lesivi effetti sulla produttività della disciplina. Oggi che il tema della produttività riempie la bocca della maggior parte degli opinion leaders presenti all'interno della sfera pubblica, proprio oggi, non intendiamo esimerci da una breve riflessione sul tema degli ostacoli che paralizzano i potenziali risultati dell'agire scientifico.
La sostanziale dicotomia tra metodologie qualitative (case studies, ricerche sul campo, interviste libere, analisi di testi, documenti, biografie) e quantitative (sondaggi d'opinione, interviste strutturate a campione, indagini statistiche, etc;) caratterizza il dibattito accademico, da molti anni, contribuendo alla produzione di, quanto mai, insperati integralismi dottrinali. È indispensabile promuovere la "pari dignità e necessaria integrazione" delle prospettive (Agnoli), nella consapevolezza che, da una diffusa competenza sull'utilizzo di questi alternativi strumenti metodologici, possa scaturire una maggiore qualità anche nei risultati della ricerca scientifica.

La sociologia, in quanto scienza empirica, ha la necessità di distinguere le fasi della ricerca in due momenti distinti: lo studio teorico, concettuale e quello della ricerca empirica attraverso la quale misurare, valutare ed eventualmente ripristinare la validità delle concettualizzazioni precedenti. La metodologia consente di coordinare queste due fasi delicate e la prassi tecnica della ricerca, l'esecuzione, consente di renderle reciprocamente feconde (Merton, 1968).
La distinzione tradizionale tende ad incanalare l'utilizzo delle metodologie qualitative nella prassi delle cosiddette microsociologie, viceversa l'utilizzo di metodologie quantitative, tese all'elaborazione di indici numerici, per lo studio di corposi universi statistici, lasciando, dunque, corrispondere l'efficacia di esse alla determinazione di aree problematiche profondamente diverse. A ben vedere, tale distinzione ha per lungo tempo legittimato l'operare dei differenti paradigmi teorici, siano essi sistemici, tesi al raggiungimento di regolarità espresse con un alto grado di formalizzazione ed astoricità, oppure relazionali, interpretativi, essenzialmente dediti ad indagini di tipo individuante, quand'anche tese a ricostruire la natura volontaristica dell'agire sociale, nel più complesso quadro di quell'antica dicotomia individuo versus società che caratterizza la storia del pensiero sociologico. La questione, dunque, ha la sua genesi proprio nel tipo di approccio teorico.

Certamente, la sociologia ha storicamente avuto un ruolo determinante nello scardinare, con naturale progressività, alcune delle più inamovibili credenze filosofiche ed epistemologiche. Ne citerò due. In primo luogo, credo importante, la concezione di un agire umano, immutabile ed astorico, essenzialmente egoista ed utilitarista (Hobbes, Spencer, Smith), ha lentamente lasciato spazio, almeno in ambito accademico, ad una concezione dell'agire umano, sociale, da un lato, permeato da quelle dinamiche provenienti dal sistema società, dalle istituzioni, per dirla con Durkheim da quei "fatti sociali esterni e coercitivi all'individuo", dall'altro al fondamentale ruolo dell'interazione non solo nella creazione/negoziazione del significato reale dei fenomeni e delle relazioni, ma anche nella formazione del valore (Simmel).
Il secondo caso, il più importante ai fini di questo contributo, è la raggiunta consapevolezza, data la specifica complessità ontologica della disciplina, di una sostanziale impossibilità al raggiungimento di un grado di verità tale da consentire l'edificazione di un sapere e di un sistema di leggi universali. È questa la direzione in cui muove Max Weber, da un lato con "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo", dimostrando la specificità storica del capitalismo e la possibilità di studiarne le origini da una differente prospettiva rispetto a quella di un materialismo storico che rischia di imporsi come una vera e propria religione (non diverso il discorso per il positivismo francese); dall'altro, dichiarando la necessità per il ricercatore delle scienze storico sociali del riferimento ai valori, valori non assoluti come inteso dagli storicisti tedeschi Windelband e Rickert, bensì valori storicamente e socialmente situati. Valori, tratti culturali, come mezzi per rendere possibile il verstehen, la comprensione di una realtà altrimenti priva di senso. E la rigorosità del metodo a garanzia del rendimento scientifico si manifesta nella costruzione del tipo-ideale.
Strumento metodologico, concettualizzazione frutto della esaltazione di alcuni tratti particolari di una realtà fenomenica., non già strumento teso ad una prospettiva filosofico normativa, del dover essere, o meglio, del dovrebbe essere così. Da questa esigenza di rigore, di timore di cadere nell'ideologia, scaturisce il criterio dell'avalutatività della scienza, della necessità da parte del ricercatore di non esprimere giudizi di valore, giudizi politici.

Credo, oggi, possiamo essere tutti d'accordo nel riconoscere il fondamentale ruolo di laccio delle cosiddette teorie di medio raggio (Merton). Queste si pongono quale punto di possibile negoziazione tra i grandi schemi esplicativi che non riescono ad uscire da una visione eccessivamente statica della struttura sociale, non verificabile empiricamente, e le cosiddette microsociologie che indagano il ruolo fondamentale della situazione e della interpretazione soggettiva mediante l'utilizzo di quelli che Blumer definisce concetti sensibilizzanti: "Le teorie di medio raggio si oppongono sia a quei sociologi che sembrano seguire il motto non sappiamo se quello che stiamo dicendo è vero, però almeno è importante, sia coloro che sembrano rifarsi al motto opposto: "è dimostrabile che le cose stanno così, ma non siamo in grado di stabilirne l'importanza", (Merton). Anziché considerare fine a se stessa ogni indagine particolare e costruire teorie sociologiche che assurgono al ruolo filosofico di modelli normativi non suffragati dal dato empirico, "è necessario procedere alla costruzione di teorie che siano qualcosa di più del risultato di una ricerca pur senza corrispondere a una costruzione teorica non verificabile", (Izzo). Infatti, se è vero che le teorie sono costruite per poi essere necessariamente frutto di falsificazione, questo è a maggior ragione vero per la sociologia. La falsificazione di una teoria, o meglio, il riuscire a mettere in evidenza le sfumature, le differenze, le peculiarità, quand'anche i profondi cambiamenti apportabili dal dato empirico al concetto tipo di riferimento ed ai risultati stessi della ricerca è e dovrebbe sempre essere un successo per la sociologia. Un passo in più verso l'interpretazione di quella realtà, per dirla con Weber, altrimenti priva di senso. Ciò par vero, sia per quanto riguarda le dialettiche tra differenti impostazioni e paradigmi, le cui acquisizioni sono patrimonio per tutti, sia per quanto riguarda le disamine di tipo metodologico e procedurale.


Andrea Villa