I cambiamenti che hanno investito il mercato del lavoro (la globalizzazione dei mercati, le tecnologie IC) hanno comportato una profonda ristrutturazione della produzione, che si è tradotta, nei paesi occidentali, in un aumento della disoccupazione e della precarietà del lavoro.
La prima nel 1960 era, in Europa, su livelli inferiori al 3% (Crouch, 2001), mentre oggi si aggira tra il 7-8%, con il picco storico registrato nel 1994 dove ha toccato punte del 10,5%. Ma ciò a cui stiamo assistendo è senza dubbio "l'irruzione della precarietà all'interno dei bastioni della piena occupazione" (Beck, 1999, 3).
La ristrutturazione delle imprese, resa possibile dalle nuove tecnologie e stimolata dalla concorrenza globale, sta dando vita a profonde trasformazioni del modello fordista di regolazione del lavoro. La flessibilità intacca tutti gli aspetti della dottrina taylorista: il contratto di lavoro subordinato, la relativa stabilità del rapporto, l'orario di lavoro standard e a tempo pieno, l'ubicazione fissa del luogo di lavoro, la copertura previdenziale.
Ciò che però rende ancor più problematica questa evoluzione e che ci troviamo di fronte ad un mutamento dei termini dello scambio del modello fordista: in passato si accettava la subordinazione in cambio della sicurezza sociale, oggi nonostante questo sia venuto meno non sono ancora state definite nuove clausole contrattuali.
Anche il mercato del lavoro è entrato quindi in una fase di turbolenza e forte trasformazione soprattutto in ragione del fatto che il processo di individualizzazione del rapporto di lavoro (Castells, 2003) altro non è che la principale causa del crescente livello di flessibilità.
Esso ha dunque un doppio volto: di precarietà da un lato e di realizzazione di sé dall'altro.

Come sottolinea Fullin:
L'individualizzazione del rapporto di lavoro...ha effetti contrastanti sulle condizioni di vita delle persone: se da un lato aggrava i rischi, dall'altro ampia le possibilità d'azione, libera dai vincoli e offre maggiori opportunità d'azione sul mercato del lavoro.
Sentirsi liberi di cambiare lavoro, di scegliere nuove occupazioni, così come sentirsi imprenditori di se stessi, può essere un elemento positivo dell'esperienza dell'instabilità
. (Fullin, 2002, 565-566)

E' necessario ricordare anche che in alcuni casi l'espansione dei posti di lavoro atipici e precari hanno dato, in questi anni, a giovani e donne la possibilità di entrare nel mercato del lavoro.
Ciò significa che se l'accesso al mercato del lavoro flessibile non diventa un intrappolamento per la vita nella fascia del lavoro precario, ma costituisce un primo passo per inserirsi nel mondo del lavoro, è possibile valutare positivamente queste esperienze all'interno di un articolato processo di crescita dell'individuo.

Ciò che si può rilevare da queste prime considerazioni è, quindi, che i cambiamenti nel mercato del lavoro, non sono solo frutto di dinamiche macrostrutturali, ma indicano, in alcuni casi, la ricerca da parte degli individui di una maggiore autonomia e realizzazione di sé che determina inevitabilmente un aumento dell'insicurezza e della precarietà lavorativa rispetto al precedente periodo storico.
Questi processi di trasformazione del mercato del lavoro determinano da un lato l'affrancamento dei lavoratori da strutture aziendali fortemente gerarchizzate e da una netta divisione tra chi ha un'occupazione e chi ne è privo; dall'altro, comportano una crescita della precarietà del lavoro e dell'insicurezza sociale.

Quando oggi si parla di flessibilità del lavoro si fa comunque riferimento a molte cose, talvolta si fa riferimento all'orario di lavoro, altre volte si insiste sulla flessibilità salariale intesa come rapporto tra salario e produttività, ma la flessibilità che sollecita maggiormente l'attenzione ed il dibattito è quella cosiddetta numerica, intesa fondamentalmente come la maggiore libertà di licenziare.
Su questo tema vi è un dibattito molto acceso, alcuni economisti liberali (Ichino e Boeri per citarne alcuni) ritengono il processo di flessibilizzazione assolutamente necessario per permettere alle imprese di superare i limiti di una legislazione fortemente garantista che rende le aziende assai prudenti nell'assumere nuova manodopera favorendo in questo modo la riduzione della disoccupazione.
Dall'altro lato abbiamo gli economisti della "Rive Gauche", che non ritengono che rendere più flessibile il mercato del lavoro, sia in entrata che in uscita, produca necessariamente benefici: il rischio invece è che i lavoratori vengano lentamente privati di diritti sociali inalienabili.

Le sperimentazioni che hanno avuto luogo in altri paesi europei hanno dimostrato che la riduzione della rigidità del mercato del lavoro non sempre favorisce l'occupazione, in Gran Bretagna come in Olanda, dove si è assistito ad una diminuzione significativa della disoccupazione, si è sviluppato un efficace mix di intervento pubblico privato più che specifiche misure di deregolazione del rapporto di lavoro.
Inoltre è opportuno ricordare che il nostro paese ha una mobilità del lavoro almeno pari, se non superiore, a quella degli altri paesi del continente (Contini a cura di, 2002) senza dimenticare che l'Italia si è sempre contraddistinta per un'ampia fascia di lavoro precario od irregolare e per un gran numero di piccole e piccolissime imprese sottratte per legge ai vincoli dello statuto dei lavoratori (Paci a cura di,1980).
Occorre considerare, inoltre, che la troppa flessibilità del lavoro rischia di produrre significativi effetti collaterali, come nel caso degli Stati Uniti dove recenti studi hanno dimostrato che l'eccesso di flessibilità in entrata ed in uscita è all'origine dello scarso impegno e bassa produttività dei lavoratori.

Flessibilità così intesa rischia però di rimanere un contenitore troppo generico e per poterne comprenderne appieno il significato è necessario almeno distinguere, come afferma Regini, tra via bassa alla competitività, basata su bassi salari, bassa qualificazione del lavoro, scarso coinvolgimento dei lavoratori e bassa qualità del prodotto e via alta alla competitività, fondata su alti salari, alto grado di qualificazione dei lavoratori, alto grado di cooperazione all'interno dell'azienda e prodotti altamente innovativi (Regini, 1998).
Mentre nella via bassa prevale la flessibilità numerica in entrata e in uscita dall'azienda, in quella alta prevale la flessibilità funzionale, basata sulla mobilità tra le mansioni professionali, la versatilità delle competenze, la formazione continua e la possibilità di carriera, anzitutto all'interno dell'azienda ma anche tra aziende.

Chiaramente i due modelli spesso coabitano all'interno dei medesimi sistemi produttivi, dobbiamo accettare una certa dose di dualismo del mercato del lavoro tra via alta e bassa evitando però che questo si trasformi in un dualismo sociale e che una fascia di popolazione resti intrappolata all'interno di segmenti dequalificati e sottoremunerati.
Questa tipologia di lavoro può costituire il punto d'ingresso nel mercato dei lavori ma devono essere poste le condizioni affinché alle categorie più a rischio come giovani, donne e migranti, venga data la possibilità di accedere a livelli più qualificati come da tempo propone il modello di welfare scandinavo.
Gli ideali di uguaglianza sociale possono essere perseguiti non solo riducendo i dualismi strutturali del mercato del lavoro, ma anche costruendo una società più mobile ed aperta.

Articolo tratto dalla tesi di Stefano Calderoni, Il lavoro nella società dell'informazione