Basandoci sui dati aggiornati al 2006, è possibile determinare la presenza di extracomunitari nel nostro Paese con una proporzione che rende una precisa idea del fenomeno: le cifre ci parlano di un immigrato ogni 20 residenti. Si tratta di un dato significativo che dimostra in quale misura l’Italia sia ormai diventata una delle destinazioni più importanti del flusso migratorio, almeno in ambito europeo. I dati del Ministero dell’Interno, elaborati nel Dossier Immigrazione della Caritas-Migrantes, contano infatti sul suolo italiano 3.035.000 soggiornanti regolari, superiori ai 2.875.000 della Gran Bretagna e di poco inferiori a Spagna (3.371.394) e Francia (3.263.186).

Nonostante l’importanza del fenomeno, alcuni cercano di sottovalutarlo pensando che l’Italia sia solo una “terra di passaggio” per gli immigrati, specialmente per coloro in cerca di un lavoro. In realtà, i dati ci dicono il contrario, visto che la maggioranza dei permessi di soggiorno sono a carattere stabile: circa 9 immigrati su 10 sono presenti per lavoro e per famiglia, cui si aggiungono altri motivi anch’essi connessi con una certa stabilità del soggiorno, come lo studio.1

La stabilità è un elemento fondamentale poiché ci fa comprendere che l’immigrazione è un fenomeno destinato ad incidere positivamente sulla nostra società almeno in due direzioni. Innanzitutto, la popolazione italiana in questi anni sarebbe diminuita se non ci fossero stati immigrati a contribuire nel mantenere alto il numero medio di figli per donna. Questo indicatore, che per le sole donne italiane è pari a 1,24 figli, è di 2,45 figli per le donne straniere residenti: in pratica le donne straniere mostrano una propensione riproduttiva doppia di quella delle donne italiane. Sappiamo bene che l’Italia sta andando incontro ad un progressivo invecchiamento demografico della popolazione: senza i figli degli immigrati, il numero dei decessi avrebbe superato il numero delle nascite. In secondo luogo, la presenza di forza lavoro immigrata ha permesso nell’ultimo decennio la rivitalizzazione di interi settori produttivi altrimenti in decadenza. Questo avviene perché i lavoratori stranieri sono disposti ad accettare i lavori che gli italiani hanno abbandonato, (basti pensare all’agricoltura o alla pastorizia in Sardegna) pur essendo mal pagati e mal tutelati.
A tal riguardo, il Dossier Immigrazione 2006 afferma che nel mondo del lavoro non sempre «gli immigrati hanno la percezione dei propri diritti, né del modo di farli valere, essendo per definizione in posizione più debole degli italiani e, a volte, ricattabili anche per via del permesso di lavoro».2

A dimostrazione di ciò, la retribuzione media registrata per i lavoratori non comunitari nel 2003 è stata di 785 euro mensili: il loro lavoro viene pagato poco più della metà rispetto a quello di un lavoratore italiano medio.3 Inoltre, in una società in cui ciò che più conta è il denaro, occorre sottolineare che gli immigrati producono il 6% del PIL e pagano le tasse (cosa non scontata in Italia).
Un altro importante elemento che emerge dalle statistiche è l’elevata eterogeneità dei gruppi nazionali di provenienza, che è una delle caratteristiche peculiari dell’immigrazione straniera in Italia. Gli stranieri presenti vengono letteralmente da ogni parte del mondo, dall’Europa dell’Est, dal Maghreb, dall’Asia, dall’Africa, dal Centro e dal Sud America. La bassa concentrazione è confermata dalle cifre.
Una quota pari ai due terzi della presenza regolare è assorbita da 15 differenti cittadinanze, di ogni area geografica del pianeta. Il restante terzo della quota totale si distribuisce in tre differenti cittadinanze (Romania, Albania e Marocco), tutte ben oltre le 200 mila presenze. Si tratta dunque di un fenomeno talmente variegato da essere anomalo rispetto all'attuale panorama dell'immigrazione nell'Unione Europea.
L’Istat sottolinea gli aspetti positivi di questa caratteristica: «A priori, una così elevata frammentazione per nazionalità favorisce assai meno l’eventuale formazione e l’affermarsi di forti minoranze compatte culturalmente e prevalenti rispetto alle altre; dunque appare un fattore intrinseco che riduce preventivamente il rischio della formazione di ghetti culturali, religiosi e metropolitani, fortemente connotati etnicamente. Allo stesso tempo, invece, può favorire, in misura maggiore che altrove, il nascere di un “comune denominatore” nella componente di origine straniera della società italiana, nella quale il fattore unificante – l’aspirazione alla effettiva cittadinanza – sia prevalente rispetto a quello divaricante. Il rischio di “ghettizzazione” o autoesclusione, dunque, appare a priori minore di quanto invece non sia stato e non sia per i turchi in Germania, i maghrebini in Francia o i sudamericani in Spagna».4

Le statistiche non ci parlano del livello di integrazione (o al contrario, di discriminazione) degli immigrati in Italia perché non è possibile misurare empiricamente questo dato. Possiamo però citare i dati forniti dall’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), un organismo attivo dal 2004 che promuove un “Contact Center” al quale si possono rivolgere le vittime della discriminazione razziale. Nel corso del 2005 gli esperti dell’UNAR hanno ricevuto 282 telefonate relative ad altrettanti casi di discriminazione o molestie su base etnica.

Diffusione della discriminazione razziale in Italia nel 20055