Due discipline fondamentali che hanno permesso di raggiungere importanti risultati [nello studio del linguaggio] sono la semiotica e la linguistica. La differenza tra esse può apparire a prima vista molto sottile; ma, in realtà, la linguistica consiste nello studio scientifico e sistematico del linguaggio, mentre la semiotica, o semiologia, è una forma di analisi culturale: riguarda lo studio di ogni tipo di segno linguistico, visuale e gestuale, prodotto in base ad un codice accettato nell’ambito dell’ambiente sociale.

Non solo linguaggio, quindi, ma anche pragmatica; non solo lo studio delle regole grammaticali, fonetiche, sintattiche; ma anche lo studio del rapporto tra linguaggio e performance.

Ecco quindi che i maggiori riferimenti all’interno di questa analisi si indirizzeranno verso la semiotica, piuttosto che la linguistica.

Partiamo così da un personaggio e da un concetto fondamentali all’interno di questa disciplina: de Saussure (1857-1913) e il segno. Il segno costituisce la materia da cui partire in un’analisi di tipo semiologico e il suo valore va ricondotto a questa grande figura di riferimento, de Saussure.

Sostanzialmente, la sua eredità può essere riassunta nella seguente affermazione: il linguaggio è un sistema di segni, dove per segno si intende la corrispondenza tra significato e significante (1916). Apparentemente banale, in realtà fondamentale.

Non è questa la sede per affrontare un’analisi dettagliata di quello che concerne tale disciplina, ma è importante soffermarsi su due aspetti. Un primo aspetto riguarda il segno di per sé: è importante infatti comprendere che il segno, inteso appunto come la corrispondenza tra significato e significante, è un elemento utilizzato quotidianamente e continuamente per indicare sia relazioni logiche che relazioni emozionali. Possiamo inoltre trovarci in presenza del segno sociale, ovvero un segno di più ampia portata che si rivolge alle identità di gruppo, alla membership, a dei ruoli sociali.

Un secondo aspetto, di fondamentale importanza, è proprio questa “scoperta” della relazione tra significato e significante. Il significato di questa relazione può essere spiegato come segue: ogni volta che si utilizza una parola o un’espressione, così come si sta facendo anche in questo momento, ci si trova di fronte ad un “contenitore”, il significante (la parola o l’espressione), che viene colmato da un “contenuto”, il significato (ciò che si vuole esprimere), il quale però è costruito socialmente. La relazione tra questi due elementi, il cui risultato è appunto il segno, è quindi arbitraria, socialmente costruita e frutto di un’interpretazione. Una tale consapevolezza è ciò che rende importante lo studio del linguaggio agli occhi della sociologia.

Si tratta di un concetto così ovvio che, in realtà, si tende a dimenticarlo, così come si dimentica il fatto che si possiede una grande capacità di interpretazione, la quale potrebbe aiutarci a sviluppare un maggior senso critico nei confronti dei discorsi entro cui siamo inseriti quotidianamente.

Tutto il peso di questi studi si direziona quindi verso il significato: prodotto e scambiato ogni volta che si crea una forma di interazione (tra due o più esseri umani, ma anche e soprattutto attraverso la mediazione dei mezzi di comunicazione di massa), espresso anche attraverso le scelte di consumo, punto di riferimento importante per la costruzione della nostra identità.

Abbiamo affermato che il significato è socialmente costruito, riflette un codice culturale accettato e condiviso dai membri di una data comunità. Ma in che modo viene creato il significato? In che modo viene creata corrispondenza tra il codice che utilizziamo per realizzare una comunicazione e ciò che vogliamo comunicare?
In generale, come abbiamo già evidenziato, il significato è espresso attraverso un codice che crea le correlazioni tra il sistema concettuale e il sistema linguistico. Tre approcci importanti interpretano in modo diverso la realizzazione di queste correlazioni.

Un primo approccio è di tipo riflessivo: il significato è già di per sé inserito nelle cose e il linguaggio non fa altro che assolvere alla funzione riflessiva tipica di uno specchio, ovvero riflette il vero significato così come già esiste nel mondo. Appare palese come in questo caso non vi sia alcuno spazio per la possibilità di concepire un’influenza di tipo sociale o culturale all’interno di tale processo e quindi risulta essenzialmente inadatto a sostenere le nostre tesi.

Un approccio di tipo intenzionale sostiene invece che chi parla è colui che impone il suo unico significato del mondo attraverso il linguaggio; le parole indicano ciò che l’autore vuole significare. Passaggio fondamentale perché ciò possa realizzarsi è che i significati comunicati come personali rientrino nelle regole, nei codici e nelle convenzioni del linguaggio condiviso, pena il rischio di non essere compresi.

Esiste infine un approccio di tipo costruzionista, il quale riconosce il carattere pubblico e sociale del linguaggio: le cose non significano, siamo noi che costruiamo il significato, utilizzando dei sistemi di rappresentazione che abbiamo imparato ad utilizzare. L’approccio costruzionista non nega l’esistenza del mondo materiale, dove cose e persone esistono, ma non è da questo che parte la trasmissione del significato: il punto di partenza è costituito dalle pratiche e dai processi simbolici di cui rappresentazione, significato e linguaggio si servono per poter operare.

L'articolo è tratto dalla tesi di Erica Luppi, La figura dell'immigrato nella stampa inglese e tedesca. Riflessioni sul concetto di rappresentazione come pratica di costruzione sociale