Patricia Ariza, attrice e drammaturga colombiana, è co-fondatrice della Casa della Cultura di Bogotà, diventata poi il teatro La Candelaria, nato nel 1968. Attivista politica fin dalla giovinezza, più volte imprigionata per aver partecipato a manifestazioni contro la guerra in Vietnam, è da anni presidente della Cooperazione colombiana del teatro, uno spazio culturale e creativo che lavora a stretto contatto con situazioni di marginalità. Con il compagno Santiago Garcìa da anni porta avanti un progetto di recupero dei giovani emarginati della periferia di Bogotà.

L’approccio complessivo del teatro politico, di quello sperimentale e anche di quello ufficiale non regge, poiché l’arte è sovversiva quando si concentra su piccoli e rivoluzionari cambiamenti1

La situazione economica e sociale della Colombia, come è noto, è piuttosto disastrosa, nonostante sia uno stato molto ricco di risorse e con un’incredibile biodiversità. La guerriglia, i conflitti armati e il narcotraffico sono le tre piaghe più dolorose che pesano sulla popolazione che, se ricca, si rifugia nei palazzi lussuosi del centro, altrimenti si adatta a sopravvivere nei ghetti dei quartieri popolari, dove vige la legge del più forte e dove la polizia, corrotta, alimenta invece che combattere il malessere.

L’esperienza pilota che aprì la strada del lavoro teatrale per Patricia Ariza con gli emarginati, fu il lavoro con Carrasco, un attore del teatro La Candelaria con grossi problemi psichici e una storia di lunga data di violenza e droga. Durante uno dei suoi periodi passati fuori dell’ospedale le chiese di lavorare con lui ed insieme assemblarono parti di uno spettacolo su cui lui aveva già lavorato. Al debutto lui invitò alcuni amici di cui la maggior parte erano ragazzi di strada, gliñeros.
In Colombia gli ñeros (parola che deriva da compañero) sono giovani ed emarginati che conducono la propria vita nei vicoli abbandonati delle metropoli: non vanno a scuola, non hanno un lavoro, si muovono in bande consumando quotidianamente droga e violenza. Alcuni di loro, vedendo quello che aveva fatto con Carrasco, dopo qualche mese le chiesero di poter lavorare con lei:

Per via del loro aspetto credetti che mi volessero assalire, invece mi chiesero di fare uno spettacolo con loro. Sembrava affascinante ma allo stesso tempo mi sentivo a disagio e ridicola perché avevo creduto che volessero aggredirmi. Mi ero spaventata moltissimo, avevo chiuso la porta e li avevo ricevuti fuori dall’ufficio. Dopo, sentendomi in colpa, dissi che potevamo cominciare a lavorare immediatamente.2

Fu così che la Ariza iniziò a incontrare questi ragazzi: erano giovani senza una casa, dormivano nel piccolo spazio della Fundaciòn, lo stesso dove si svolgevano le prove; quando chiuse infatti, tornarono a dormire sulla strada: erano sporchi, provati:

la situazione era penosa perché non si può lavorare con le necessità culturali di queste persone se allo stesso tempo non si lavora per migliorare le loro condizioni materiali.3

Il lavoro intanto continuò, anche se spesso alle prove partecipavano pochi, pochissimi ragazzi ed era diventato molto difficile trovare degli spazi che li ospitassero, per via dei pregiudizi che la gente nutriva nei loro confronti. Piano piano, però iniziò a prendere forma uno spettacolo, uno spettacolo fatto di storie, canzoni, balli e scene di teatro; i ragazzi alla fine delle prove dormivano fuori del teatro, il più grande di Bogotà.

Questo “movimento” colse l’attenzione di un altro gruppo di ragazzi, dei rappers. Con il tempo la Ariza diventò loro amica, avvicinandosi a quel mondo che conosceva pochissimo: l’occasione fu la richiesta da parte loro di far da garante per l’affitto di un teatro prestigioso di Bogotà per lo svolgimento di un festival rapper. Titubante, accettò:

Intorno alle cinque del pomeriggio di quel giorno passai da quelle parti, chiedendomi se avrei trovato le ceneri del teatro, chiedendomi quali danni avrei dovuto pagare, perché era un festival rap. (…). Io arrivai e mi commossi, non solo perché non c’erano danni da pagare ma perché li vidi in scena.4

Si conobbero così, e per sei mesi lavorarono “come bestie” e misero in scena l’"Opera Rap". Il dramma raccontava della morte di un ragazzo che viene disseppellito dagli amici per un’ultima serata di baldoria in cui diventa amico della morte. L’opera si concludeva con gli amici che accompagnano l’amico su un bus diretto al mare, luogo in cui aveva desiderato andare quando era vivo.

Il gruppo si diede il nome Gotas de Rap (Gocce di Rap) ed era composto da giovani dai 17 ai 22 anni, che, pur essendo molto poveri, avevano un grande senso della musica, del ballo, una notevole plasticità nel corpo e strumenti (come tastiere e amplificatori) che loro stessi riuscirono ad acquistare. L’Opera Rap ebbe un grande successo di pubblico e avvicinò molte persone che tradizionalmente non frequentavano i teatri, vittime di una sorta di esclusione sociale e culturale. Con la vendita delle cassette, furono paradossalmente i giovani stessi che prestarono soldi alla Fundacion, al momento in grave crisi economica, e finanziarono molte altre attività e viaggi per promuovere il lavoro che si stava facendo.

L’aspetto più interessante dell’esperienza, a mio avviso, fu la capacità di aver svolto con tutte queste persone (Carrasco, gli ñeros e i rappers) un lavoro sviluppato su un rapporto non gerarchico ma orizzontale, con continui scambi in entrambe le direzioni. Una doppia emancipazione: dei ragazzi dai ghetti poveri, degli artisti dai ghetti elitari della cultura.


Note bibliografiche:
1 BERNARDI, Claudio, Sull’antropologia del teatro, in ID., CUMINETTI, Benvenuto, DALLA PALMA, Sisto (a cura di), I fuoriscena. Esperienze e riflessioni sulla drammaturgia nel sociale, cit. p. 45.
2 VARLEY, Julia, Gocce di rap. Conversazione con Patricia Ariza del teatro «La Candelaria», in “Teatro e storia”, XI (1996), n. 18, p. 362.
3 VARLEY, Julia, Gocce di rap. Conversazione con Patricia Ariza del teatro «La Candelaria», cit. p. 362.
4 Ibi, p. 365.


L'articolo è tratto dalla tesi di Vittoria Perico, Povero teatro! Problemi e potenzialità del teatro sociale nel terzo mondo