Il prodotto finale dell’industria promozionale si traduce in pubblico con la pubblicità commerciale, che può essere considerata una delle forme culturali dominanti nelle società capitalistiche contemporanee. Anche se sta ai consumatori decodificare, selezionare e tradurre nella concretezza delle loro esigenze i significati promossi dalla pubblicità, difficilmente potranno sottrarsi totalmente ai messaggi pubblicitari, compresi quelli che offendono il loro senso del pudore. Vediamo che nel tentare di adempiere alla funzione commerciale che gli è propria la pubblicità si ritrova spesso a svolgere una funzione ideologica, vista ad esempio nelle diverse visioni di maschilità o femminilità, con il solo scopo di far risultare più gradito un prodotto, facendo però anche da cassa di risonanza per tali visioni. Questa diversità delle immagini promozionali possono sì produrre modelli dell’identità, della famiglia, del genere, ecc. funzionali alla riproduzione delle gerarchie e delle differenze sociali consolidate, ma anche ospitare visioni minoritarie e persino sovversive, specie con lo svilupparsi di mercati di nicchia, sempre più diversificati.

L’industria promozionale nella sua funzione propria deve per forza cavalcare le tematiche apologetiche che riconoscono la sovranità del consumatore, libero di esprimere se stesso mediante l’agire di consumo. E’ evidente che la pubblicità commerciale ha il compito di associare a tale agire una serie di aspirazioni individuali positive: felicità, socialità, giovinezza, allegria, divertimento. Anche i prodotti più banali e modesti spesso vengono associati a immagini, a volte stravaganti, di realizzazione personale. La pubblicità spesso vorrebbe alleggerire il consumatore di quel residuo di senso di colpa suscitato ogniqualvolta si adombra lo spettro del consumismo nella sua accezione negativa, della vanità, del greve materialismo.
Se in alcuni casi il consumo viene in questi spazi rappresentato come un momento di riproduzione delle energie funzionali alla disciplina richiesta dal lavoro (ad esempio per quanto riguarda gli spot ai farmaci o agli integratori), sempre più spesso esso ha acquistato una legittimità culturale, tale da essere ritratto come un’azione fine a se stessa.
Anche dove vengono riprodotte scene di lavoro il momento del consumo rappresenta una possibilità di evadere dalla fatica e dalla noia: uno svago che giustamente l’individuo può concedersi per ripagarsi della routine lavorativa. In questo svago poi spesso rientrano connotazioni almeno in parte estranee a tali ambiti come quelle dell’erotismo, sempre più frequenti.

Il discorso pubblicitario è per toni, stile e obiettivi, incommensurabile ai discorsi della teoria economica, della critica sociale o della filosofia morale. Eppure frequentemente i discorsi sul consumo tendono a cadere nella celebrazione o viceversa nella censura, aderendo a una serie di opposizioni strutturali che tendono a ingabbiare i ragionamenti in rigide dicotomie, prima fra tutte quella libertà/oppressione. L’utilizzo di questo meccanismo rende, nella definizione di Umberto Eco attuata nel volume “Apocalittici e integrati” (1964), il consumo un «concetto feticcio» o generico, utilizzato «come testa di turco per polemiche improduttive» o per «operazioni mercantili di cui noi stessi quotidianamente ci nutriamo»; uno strumento che ha «la particolarità di bloccare il discorso, irrigidendo il colloquio in un atto di reazione emotiva» (Eco, 1964, pp. 3-14), sia essa di rifiuto sommario o di esaltazione incondizionata.
Eco stabilì il titolo in chiave scherzosa e allo stesso tempo provocatoria, proprio per criticare questa tipicizzazione estremizzata in termini, ritenuti dallo studioso generici e polemici («feticci»), in contrapposizione alla varietà delle sfumature degli atteggiamenti umani.

La distinzione riguarda la relazione tra le forme della modernizzazione e la qualità del sapere, due modi opposti di accostarsi al tema degli effetti prodotti sul pubblico dai media, e più in generale dalla cultura di massa. Gli apocalittici, rappresentati sia dai postmodernisti che dai fautori della retorica anticonsumistica, sono profeti di una barbarie digitale in grado di distruggere in pochi anni un bagaglio culturale costruito faticosamente nel corso di secoli. Essi sono convinti della prossima fine dell'Homo sapiens e dell'avvento di un Homo Videns ipnotizzato dalla televisione e dal computer. Lugubremente, prevedono la morte dell'intelligenza, dell'infanzia (Postman), e addirittura della realtà (Baudrillard). Preconizzano l'avvento di una nuova razza di umanoidi semi-inebetiti dalle immagini e incapaci di riflettere.

Gli integrati, di cui senz’altro fanno parte tutti gli apologeti del consumo, al contrario sono gli apostoli di un progresso tecnologico capace di guidarci in maniera quasi automatica verso una terra promessa nella quale scompariranno per incanto la maggior parte delle nostre limitazioni. Per costoro, con varie gradazioni, i media, e perciò la cultura di massa, stanno modificando il sensorio degli uomini e contribuiscono alla nascita di un nuovo linguaggio, capace di rendere più immediata la comunicazione. Un linguaggio simile al pensiero, che non si muove seguendo schemi rigidamente sequenziali come l'alfabeto, ma "balza" qua e là, da concetto a concetto, proprio come un ipertesto.

Eco rimproverava sia agli atteggiamenti apocalittici che a quelli celebratori di non tentare mai «uno studio concreto dei prodotti e dei modi in cui vengono consumati». Gli atteggiamenti pessimisti e apocalittici e quelli ottimisti e celebratori sono in effetti due modi, diversi ma complementari, di consolare i consumatori facendo loro intravedere mondi in cui una libertà assoluta esiste e passa attraverso le ricette, apparentemente semplici, del totale rifiuto o della totale accettazione. La stessa adozione di un termine come «cultura del consumo» è estremamente vaga, appiattita sulle immagini pubblicitarie e livellata sulla sua negatività, e proprio per questo può fungere da artifizio retorico. Essa lascia poi presagire una passione consumistica da cui è stata esclusa ogni propensione all’equilibrio, che può diventare caricaturale. Al contrario consumare spesso non è un abbandonarsi al desiderio, ma la capacità di attribuire valore ed esige nella pratica anche una insospettata dose di disciplina. D’altro canto considerare il consumo come una sfera di realizzazione individuale non meglio qualificata distoglie l’attenzione dal fatto che, a differenza di quanto sostenuto dagli slogan liberisti, difficilmente dal perseguimento degli interessi individuali sgorga il bene collettivo. Infatti l’apertura delle possibilità di competizione sul terreno dei consumi alla più parte della popolazione non ha cancellato le differenze sociali: se i gruppi meno favoriti consumano ormai anche con scopi dimostrativi, la loro posizione non muta. Ciò ha però l’effetto complessivo di surriscaldare la domanda, portando a una forte instabilità sociale ed economica, oltre che a pericolosi effetti sull’ambiente.

L’enfasi sulla soddisfazione individuale inoltre rischia di far perdere di vista la necessità dei consumi collettivi di servizi pubblici forniti dallo stato all’intera popolazione. La crisi dello stato sociale può portare facilmente all’illusione che tutto possa essere privatizzato con ottimi risultati in termini di efficienza economica, col rischio di creare nel lungo periodo forti differenze in termini di risorse economiche, sociali e culturali.
L’idea che tutti, nelle società dei consumi, siano molto più liberi di acquisire lo stile di vita e l’identità che vogliono corre il rischio di farci scivolare in un mondo immaginario, fatto di eguali opportunità e di libera realizzazione individuale. E’ invece evidente, anche osservando le immagini pubblicitarie che inneggiano al consumo come sfera della realizzazione umana, che solo un certo tipo di identità, solo un certo aspetto fisico, un certo modo di sentire e, ovviamente, solo certe merci, sono riconosciuti come inequivocabilmente positivi.


Articolo tratto dalla tesi di Marco Espertino, Comunicazioni simmetriche e asimmetriche nella società dei consumi, dove nel primo capitolo vengono ripercorsi i principali contributi di autori classici, quali Simmel, Veblen, Bourdieu e M. Douglas, sul fenomeno sociale del consumo e delle sue interazioni con il gusto.