“Una famiglia di New York che ha trascorso le vacanze in Florida decide di riportare a casa come souvenir dei piccoli alligatori. Per qualche tempo gli animali vengono coccolati e nutriti, ma con l’ aumento della loro mole diventano ingombranti e fastidiosi. Gli spensierati proprietari non trovano allora di meglio per sbarazzarsi che buttarli nel gabinetto e tirare più volte lo sciacquone. Ma gli alligatori nelle fogne sopravvivono cibandosi di topi e di rifiuti, fino ad assumere dimensioni enormi. Nelle fogne newyorchesi circolerebbero quindi giganteschi alligatori bianchicci e semiciechi, pronti a divorare qualsiasi cosa capiti loro fra i denti”.

La storia sopra citata è un classico esempio di leggenda metropolitana che ha fatto il giro del mondo, fino ad arrivare qui in Italia. Essa ha addirittura ispirato il film Alligator, diretto da Lewis Teague nel 1980. Le leggende metropolitane sono un esempio di narrazione popolare. Si differenziano dalle fiabe per la loro credibilità e per la frequente assenza di un lieto fine; dai miti in quanto ambientate in un passato piuttosto recente, con persone comuni come protagonisti invece che divinità.
In esse sono presenti, talvolta, antichi temi appartenenti al folklore, che si ripetono con ambientazioni sempre diverse. Il termine leggenda viene utilizzato per definire questo genere narrativo, poiché in essa, anche se gli eventi vengono trasfigurati dalla fantasia, il tempo e il luogo in cui si svolgono i fatti sono generalmente reali. Bonato, inoltre, ha osservato che “Le leggende metropolitane, come quelle tradizionali, continuano a trasmettere immagini, fantasmi, valori e modelli comportamentali”. Entrambe trovano origine nella tradizione culturale dei paesi in cui si diffondono.

Le leggende metropolitane devono il loro nome alla traduzione dell’ espressione inglese urban legend, che ha iniziato a diffondersi negli Stati Uniti negli anni Settanta. Esse vengono dette urbane o metropolitane per differenziarle dai miti e dalle leggende antiche, ma soprattutto per evidenziare il legame con la società moderna in cui sono ambientate.
Paolo Toselli ritiene più appropriata la locuzione leggenda contemporanea poiché le vicende in essa narrate possono essere ambientate sia nelle grandi città che nei piccoli centri, sia in zone urbane che in campagna. I protagonisti di questo tipo di narrazioni sono persone del nostro tempo, sia che siano reali, sia che siano frutto di fantasia.
Toselli ha fondato nel settembre del 1990 ad Alessandria il Centro sulle Voci e le Leggende Contemporanee, il cui scopo non è solo raccogliere e studiare le leggende metropolitane, ma anche diffondere a livello nazionale le informazioni su questo argomento.

J.H. Brunvand, noto studioso di folklore che si è occupato negli ultimi vent’ anni di raccogliere e analizzare le leggende urbane, ha rilevato che “Nel mondo delle moderne leggende metropolitane non c’è di solito nessun distacco geografico o generazionale fra chi racconta la storia e la storia stessa. La storia è vera; ha davvero avuto luogo, e da poco tempo, ed è capitata sempre a qualcun altro che è abbastanza vicino al narratore o che per lo meno è «l’ amico di un amico»”.

Voci, dicerie e pettegolezzi

Prima della diffusione del termine leggenda metropolitana, lo stesso fenomeno veniva chiamato voce, in inglese rumor. L’ esatta origine del termine urban legend è ignoto, Brunvand ritiene che esso sia stato utilizzato per la prima volta dallo studioso del folklore Richard M. Dorson in un suo lavoro, nel 1968.
Allport e Postman, i due pionieri della ricerca condotta negli Stati Uniti sull’ origine di questo particolare tipo di storie, hanno definito la voce come “a specific proposition for belief, passed along from person to person, usually by word of mouth, without secure standards of evidence being present” (” Una precisa affermazione destinata ad essere creduta, trasmessa da persona a persona, solitamente di bocca in bocca, senza che siano presenti prove certe della sua veridicità”).
L’asserzione secondo la quale la voce viene trasmessa di bocca in bocca evidenzia l’ influenza dei media in questo processo, in particolare la stampa e negli ultimi anni Internet.

Knapp (1944) la definisce una dichiarazione riferita all’attualità, che pur non essendo verificata viene accettata come vera.
Ambrosini la considera “a form of verbal communication that is spontaneously propagated and whose content is unauthenticated information, usually with no discernible source” (“Una forma di comunicazione verbale che viene trasmessa spontaneamente, il cui contenuto é un’ informazione non verificata, solitamente con una fonte non accertabile”).

Per Peterson e Gist (1951) la voce tratta di una persona, di un evento o di una questione di pubblico interesse. Essa è, quindi, un’ informazione il cui destino è di essere creduta e che ha l’ intento di convincere della propria veridicità. Il sociologo americano Shibutani (1966) la considera un’ azione collettiva il cui scopo è spiegare fatti poco chiari. Voce è per Benvenuto “qualsiasi informazione non di prima mano, la quale potrebbe essere vera oppure falsa”.
Fine e Rosnow (1980) ritengono centrale il principio secondo il quale la voce prospera in assenza di chiare prove che la contraddicano.
Talvolta la voce è ritenuta sinonimo di diceria, in realtà questi due termini hanno un significato piuttosto simile, ma si differenziano per alcuni aspetti. La diceria può essere comprovata dai fatti in misura differente a seconda dei casi, mentre non c’è mai una chiara evidenza di verità nel caso delle voci.
Un’ ulteriore distinzione è evidenziata dall’ oggetto di discussione che nella diceria sono le vicende private degli individui, laddove la voce si incentra sugli argomenti più vari. La voce può essere, quindi, descritta come un metodo di comunicazione così come un suo prodotto. Può essere diffusa facilmente, ma non è altrettanto semplice fermarla (Rosnow, 1974).

L’ espressione inglese gossip, utilizzata da Rosnow nel suo confronto con la voce, può essere tradotta in italiano oltre che con la parola diceria, anche con il termine pettegolezzo, pur avendo essi accezioni diverse. Il secondo, infatti, ha un valore negativo, che non fa onore a chi lo diffonde ed esprime un’ opinione soggettiva circa il contenuto di una voce.
Benvenuto ritiene il “pettegolezzo un ciarlare attorno alla vita privata degli altri – e soprattutto attorno a ciò che c’ è di più intimo nella vita privata, quella sessuale”.


L'articolo è tratto dalla tesi di Valentina Garino. Le leggende metropolitane. Come nascono e perchè si diffondono

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