Pochi giorni fa a Milano, nella sede dell'Ispi, Amnesty International ha presentato il suo rapporto annuale sullo stato dei paesi nel mondo. Al centro della presentazione il complesso rapporto tra la paura e i diritti. L'evento è stata un'occasione per alcune riflessioni su tema complesso e centrale nelle dinamiche attuali di potere e di organizzazione sociale.
Nell'articolo intendo analizzare proprio questo rapporto in relazione sia alle sue strategie mediatiche e politiche sia ai campi che influenzano e costruiscono queste strategie, senza alcuna pretesa esaustiva ma piuttosto di riflessione aperta.

Prima di presentare gli spunti di analisi è utile procedere con un chiarimento sulle definizioni delle parole al centro dell'articolo, parole generalmente fonte di incomprensioni: con il termine “paura” qui si intende il sentimento diffuso di insicurezza e di minaccia al proprio benessere fisico-materiale e alla propria identità soggettiva e sociale percepito dagli individui. In tale prospettiva, paura e insicurezza verranno utilizzate come sinonimi.
Con il termine “potere”, al contrario, ci si riferisce a due differenti, e fra loro connesse, dinamiche di dominio: sia in senso focaultiano, come circolazione di pratiche discorsive che impongono una visione del mondo e uno specifico “sentire la realtà”; sia in senso istituzionale, come potere organizzato all'interno di istituzioni formali e legittimate alla gestione del controllo sociale. I due concetti, sebbene qui presentati come due momenti distinti, nella realtà interagiscono e si contaminano in un unico processo di gestione del dominio che concorre a formare, mantenere e riformulare l'ordine economico, sociale e simbolico delle relazioni umane all'interno dei sistemi sociali.

Il tema diritti e paura chiama in causa necessariamente il potere e le sue forme organizzative: Michael Moore, al termine del film Fahrenheit 9/11, come postilla di chiusura riprende la nota riflessione di George Orwell esposta in “1984” per mostrare come le politiche che diffondono insicurezza e paura siano uno strumento nelle mani del potere organizzato per legittimarsi e legittimare la propria azione, ridurre le garanzie giuridiche formali e spostare l'attenzione dell'opinione pubblica da temi più pressanti e scomodi. In altre parole, attraverso le politiche della paura e dell'insicurezza le istituzioni di potere hanno la possibilità di rendere legittimo un maggiore controllo sociale (il potere diviene un meta-potere: uno strumento per rafforzare il potere stesso).

L'utilizzo della paura e del desiderio di sicurezza, tuttavia, ha risvolti non solo politici e sociali, ma anche economici: i rapporti annuali del Sipri e il rapporto del 2003 dello United for a Fair Economy mostrano come le campagne elettorali spesso siano finanziate dai produttori di armi e, viceversa, è evidenza quotidiana come nelle dinamiche politiche (propoaganda, dibattiti, talk-show, comizi etc.) per la conquista del potere il tema della sicurezza ricopre un ruolo sempre dominante (nelle elezioni presidenziali del 2002 un fattore di non poco conto nella sconfitta di L. Jospin fu certamente l'intenzione nel suo programma politico di emanare un divieto sul possesso di armi da guerra per la popolazione civile).
Sempre dal Sipri abbiamo visto come l'intervento in conflitti armati, alimentare l'insicurezza nazionale e internazionale, la paura di essere al centro di futuri possibili attentati o di una minaccia costante nella vita di ogni giorno, siano strategie che aumentano le spese militari degli stati e, di conseguenza, gli utili delle industrie produttrici che tanta parte hanno nel bilancio economico di uno stato (nell'ultimo rapporto del Sipri la spesa mondiale delle armi è aumentata del 3,5% tra il 2005 e il 2006).

L'esposizione di questi dati portano a una considerazione necessaria: non si valuta l'opportunità delle spese militari, ma la radicalizzazione del senso di insicurezza attraverso la politica e l'economia che, definendo un mondo sotto lo scacco costante di una minaccia e di una guerra, porta a un mondo iper-militarizzato e controllato, come se in guerra vi fosse realmente.
La minaccia di un attentato terroristico è di per sé una realtà probabile, in potenza: sebbene misure di sicurezza preventiva possano essere necessarie, la salute di una società e dei diritti civili si misura, paradossalmente, anche dalla possibilità che attentati terroristici possano accadere. L'affermazione non rientra nei significati delle pratiche discorsive dominanti e per non essere al centro di facili obiezioni ha, dunque, bisogno di precisazioni: solo una società autoritaria e controllata in ogni suo ganglio può prevenire qualsiasi attentato terroristico, ossia una società che riduce le garanzie civili e politiche per allargare la rete del controllo. Un sistema nazionale che favorisce la partecipazione e le libertà civili e politiche si espone necessariamente al rischio della violenza: il successo consiste nell'intervenire sulle cause della violenza, non nel controllare le sue possibilità di espressione.

Un obiezione della tesi fin qui proposta potrebbe consistere nell'affermare che l'insistenza sui temi dell'insicurezza e della paura da parte delle istituzioni politiche ed economiche sia in realtà l'espressione del sentimento reale percepito dalla popolazione, per la quale la paura dell'altro gioca un ruolo fondamentale nella costruzione psicologica dell'identità. La politica, insomma, come cassa di risonanza dell'opinione pubblica e delle esigenze psicologiche. Cercare di capire quali direzioni esistano fra i due poli è impresa ardua ed è forse anche un'operazione non così decisiva: l'influenza tra sentimento percepito e politica non è unilaterale, ma al centro di un continuo scambio. I discorsi politici alla televisione e le notizie dei telegiornali entrano nei discorsi quotidiani, rafforzano una visione della realtà che a sua volta forma un serbatoio di immagini al quale le forze politiche traggono informazioni e ispirazioni. Il potere, inteso focaultianemente come sapere, circola nelle pratiche quotidiane, nei media, nelle istituzioni e impone una visione del mondo nel quale la paura ha un posto centrale, rispondendo a bisogni psicologici e a interessi economici e politici. Quanto è necessario, allora, è rafforzare una resistenza ai discorsi dominanti e seppure una responsabilità etica alla resistenza spetterebbe maggiormente alla politica, tuttavia, vi sono le influenze dei meccanismi strutturali di funzionamento del campo politico (per usare una definizione di Bourdieu) derivanti dalle forze economiche che impongono vincoli e marginalizzano quella stessa responsabilità in termini individuali (il finanziamento delle campagne elettorali, le necessità del bilancio etc.).

Un terzo attore nella costruzione delle politiche della paura che ha al suo interno un ruolo fondamentale e che si integra con le esigenze politiche, economiche e psicologiche (ossia gli interessi dei tre campi prima esaminati) è l'industria dei mass media: spinti dalla conquista dell'auditel per sopravvivere economicamente e dalla velocità dei tempi comunicativi a ricercare notizie e informazioni spettacolari e superficiali, giornali e telegiornali sono sempre pronti a diffondere un senso di minaccia e insicurezza (si vedano gli studi di Altheide o di Bourdieu).
Gli esempi sono diversi: i fatti di cronaca occupano sempre più spazio e sempre più sono messi in relazione ad una condizione di minore sicurezza legata a pregiudizi e cliché. Appena successa la tragedia di Campignano, ad esempio, dove una madre incinta è stata uccisa all'interno della sua casa, immediati i sospetti dei giornali sui probabili assassini extracomunitari e le immancabili interviste della gente locale a lamentarsi di “come ormai non si è più al sicuro da nessuna parte, nemmeno qui che fino a qualche tempo fa era un paese tranquillo”.
O ancora, gli appelli continui alle minacce del terrorismo o le immagini di violenza della guerra: proprio oggi, 19 giugno, sull'edizione online del corriere.it compare un articolo su un video diffuso da cellule estremistiche in Afghanistan contente l'addestramento di futuri terroristi. E il commento dice: ”Gli esperti non sottovalutano la minaccia, ma al tempo stesso ritengono che si tratti comunque di una iniziativa mediatica e propagandistica”.
Tre sono gli elementi interessanti di questa frase: innanzitutto a parlare sono gli esperti i quali, in possesso di un sapere quasi esoterico che definisce il loro status, sono al di là di qualsiasi critica o confronto. Secondariamente, si parla di minaccia e si dice che gli esperti sono allerta: la reiterazione periodica di questi rischi controllati ma minacciosi crea un'assuefazione vigile, un meccanismo di tensione costante ma controllato che favorisce e legittima le strutture istituite per il controllo stesso.
Terzo, il video è definito come una strategia di propaganda mediatica: ciò significa che le politiche mediatiche della paura non sono un'esclusiva del mondo occidentale. Cremonesi, giornalista del Corriere, si è spinto al punto di parlare di una nuova epoca della televisione e dei media che dal dolore, fattore chiave di spettacolarizzazione dell'ultimo ventennio del secolo (Boltanski), sono passati alla paura. E quest'ultimo punto, la mondializzazione mediatica della paura è piuttosto interessante per continuare l'analisi introducendola in un quadro comparativo.

La diffusione di politiche dell'insicurezza, di uno stato di guerra a bassa intensità ma permanente come strumento per organizzare il consenso, marcare l'identità e mantenere il controllo (ossia uno strumento di potere, così come indicato da Orwell) è la strategia adottata anche dai “nemici” definiti dal mondo occidentale. Nord Corea, fondamentalisti islamici, Cecenia, gruppi criminali in Messico si servono sempre più di politiche della paura: sia attive (ossia diffondere insicurezza negli stati ritenuti nemici) sia passive (alimentare un senso di insicurezza all'interno della loro popolazione per legittimare la loro azione e forma organizzativa). E tali politiche si servono sempre più dei mass media come mezzo di espressione per accedere a quel grado di realtà che nella nostra contemporaneità solo i mezzi di comunicazione riescono ad assicurare. Accedere a questo grado di realtà significa costruire un'immagine del reale che esclude altre costruzioni alternative, significa possedere quel peso specifico necessario per influenzare i processi economici e politici sui diversi piani locali e internazionali, significa essere riconosciuti come attori con i quali entrare in relazione di cooperazione o di conflitto.
Nel 1993 Huntigton ha introdotto il noto concetto di “scontro di civiltà”: al di là delle critiche che l'antropologia culturale ha portato all'idea sottostante il lavoro del politologo e storico americano di una cultura come “pacchetto” ancorato ad un territorio nazionale (Clifford, Geertz, Hannertz) e quindi pura, statica e impermeabile – le uguaglianze nelle strategie politiche e comunicative fondate sulla paura al fine di organizzare il consenso radicalizzando il conflitto mostrano un'analogia, una similitudine che avvicina i due mondi piuttosto che allontanarli. La qual cosa dovrebbe farci riflettere.

Si obietterà che i contenuti normativi e di valore sottostanti alle strategie sono differenti, ma il punto in questione dell'articolo non è scoprire per quali valori è sventolata la bandiera della paura, ma analizzare la paura come linguaggio politico e mediatico e i suoi effetti sul potere e sulle forme di organizzazione sociale.
Sappiamo che un linguaggio è un modo di definire, classificare e ordinare la realtà, è una visione percettiva che orienta e costruisce una realtà sociale (Bourdieu). Se un linguaggio istituisce un modo di guardare al mondo, allora le realtà costruite attraverso i linguaggi politici e mediatici della paura nel mondo occidentale e nel mondo arabo hanno necessariamente delle analogie che devono essere comprese per affrontare con maggiore consapevolezza le influenze strutturali che determinano il nostro modo di rappresentare e rapportarci agli altri.
Vediamo alcune similitudini: in entrambi i casi, l'altro, il soggetto debole direbbe Dollard, che sia l'arabo, lo slavo o l'occidentale, è sempre il capro espiatorio dei mali che affliggono il mondo e quindi la vera fonte della paura (in ogni fatto di cronaca nera in Italia, per esempio, il primo sospetto è un extracomunitario; mentre sull'altro versante l'imperialismo occidentale è la fonte di ogni male); in entrambi i casi l'altro è sempre oggetto di una generalizzazione (quando si parla di terroristi si parla di arabi, i presunti criminali sono rumeni, mentre il criminale italiano è identificato in maniera individuale “il signor Tal dei Tali”; allo stesso modo l'occidentale è l'infedele, l'imperialista etc.).

Le strategie politiche e mediatiche della paura giocano sulla generalizzazione che sfuma le differenze individuali per definire gli altri come accomunati da alcuni tratti specifci e imprescindibili. Attraverso gli studi della psicologia sociale (ad esempio Turner e i coniugi Sherif) sappiamo che la categorizzazione è un processo cognitivo fondamentale per la costruzione dell'identità che indica un “Noi” sempre in contrapposizione con un “Loro”. E il processo, come indicava Deridda, è sempre in negativo (l'arabo manca di qualità del noi come la pietà, la dignità, lo sviluppo intellettuale e morale; mentre l'occidentale manca della fede, dei valori musulmani, dell'umiltà etc.). Tuttavia, la giustapposizione generalizzante Noi/Loro quando viene radicalizzata dalle strategie della paura e dell'insicurezza producono effetti noti: intolleranza, pregiudizio, forme inconsapevoli di razzismo. In altre parole succede, come indicato dalla definizione della situazione di Thomas o dalla profezia autoavverantesi di Merton, che quanto crediamo e definiamo reale attraverso il linguaggio mediatico e politico della paura ci conduce a comportarci in difesa di una presunta purezza dell'identità e della cultura (anche se poi decidiamo di ballare la danza del ventre al laboratorio di danza sotto casa e passare le vacanze in Mar Rosso o fare acquisti a Dubai).

Allora lo scontro diviene reale, la paura è manipolata e strumentalizzata e le diverse strategie concorrono a creare un ambiente internazionale di conflitto aperto e radicale, instabile e polarizzato in un circolo vizioso che seguita poi ad alimentare le stesse politiche della paura. In un tale clima, infatti, l'opinione pubblica e il consorzio civile invece che chiedere maggiore partecipazione e la soluzione degli squilibri che formano l'habitat per il sorgere delle minacce, si aggrega attorno ad una maggiore chiusura, all'idea di stati più autoritari che limitino le libertà e i diritti civili (piani sull'immigrazione, controllo urbano, violazioni alla privacy, libertà di associazione, negazione del diritto processuale etc.) e forniscano maggiore protezione. E il paradosso è che così facendo le società occidentali, che fanno dei diritti l'emblema della democrazia, si ritorcono su se stesse. In Italia, purtroppo, tutto questo è un film già visto quando l'intenzione degli attentati di Prima Linea a Milano dei magistrati Galli e Alessandrini avevano come scopo prioritario quello di radicalizzare e militarizzare il conflitto, mostrare il volto autoritario della democrazia.
La radicalizzazione delle identità e la riduzione dei diritti sono, dunque, espressione e alimento delle strategie politiche e mediatiche della paura, favorite dalla situazione internazionale e dai processi economici e psicologici prima indicati, che avvicinano piuttosto che allontanare i diversi sistemi sociali nel mondo nella gestione del potere e delle organizzazioni sociali.

Esiste, inoltre, un'ulteriore considerazione legata alla richiesta di maggiore chiusura e autoritarsmo: quanto maggiore è la sicurezza raggiunta, tanto più è la percezione dell'insicurezza. Il paradosso è evidente: non esistono sistemi d'allarme o sofisticazione di armi e controllo che ci possano mettere al sicuro per sempre, eppure più è l'affanno a creare nuovi sistemi di sicurezza maggiore è la percezione dello spazio marginale lasciato all'insicurezza. Il meccanismo potrebbe essere spiegato a partire dalla teoria della deprivazione relativa: maggiore è l'aspettativa e più è percepita la mancanza. In questo senso, le strategie della paura non fanno che alimentare il paradosso: un esempio potrebbe essere il caso del Nord Corea il quale vive da più di trent'anni nella costante paura, alimentata ad arte dai circoli del potere istituzionale, di essere il prossimo target dell'ingerenza statunitense. Gli effetti di questa politica sono stati: isolamento, controllo sociale diffuso (a dimostrazione che il potere non sta semplicemente nelle istituzioni), garanzie civili e giuridiche annullate e povertà estrema. E il paradosso è ancora più estremo perché secondo molti studiosi americani ad oggi nessuno stato, in quanto a sistemi di difesa, è più al sicuro e protetto da un attacco Usa come la Corea. Eppure la paura non cessa di esistere nel paese dell'Estremo Oriente.
Seppure non come il caso così tragico della Corea, un tale meccanismo è vissuto anche dalle società occidentali: l'informazione, la politica, i discorsi di ogni giorno alimentano l'impressione di essere preda di extracomunitari o di attentatori arabi e richiedono nuove telecamere, misure straordinarie, agenti di sicurezza sui treni e sui bus, squadre di quartiere perché siamo sempre meno al sicuro.
Così, seppure la sicurezza è un presupposto della libertà, se quest'ultima si trasforma solo e soltanto in libertà dalla paura, diventiamo schiavi dell'insicurezza.

In conclusione, possiamo vivere come il giovane tenete Drogo in attesa dei Tartari che non arriveranno e scoprire poi un giorno che il pericolo, come nella favola nera di Ballard, è all'interno dei nostri super condomini protetti: alla fin fine a uccidere quella giovane donna di Compignano non è stato un extracomunitario. Oppure guardare in faccia i vincoli strutturali del campo economico (i bilanci, le industrie di armi), del campo politico (le campagne elettorali, i fondi al partito), del campo mediatico (la ricerca dell'auditel e la spettacolarizzazione) e le esigenze psicologiche che concorrono alla costruzione delle strategie politiche e mediatiche dell'insicurezza e del suo circolo vizioso per divenirne consapevoli e limitarne quegli effetti che ci rendono più simili a quei “nemici” di cui tanto abbiamo paura.



di Manuel Antonini