Sempre a partire da un’angolazione antropologica la studiosa inglese Mary Douglas ha scritto nel 1979, in collaborazione con l’economista Baron Isherwood, “Il mondo delle cose”, dove ritiene, come Bourdieu, che i beni svolgano una funzione differenziante e discriminatoria; ovvero possono essere utilizzati per sottolineare alleanze ed estraneità sociali.

La teoria di Douglas ha come bersaglio critico quella corrente di pensiero che vede il consumatore come «incoerente e frammentato, confuso nei propri scopi, e appena responsabile delle proprie decisioni, del tutto in balia delle variazioni dei prezzi da un lato, e delle oscillazioni della moda dall’altro» (Douglas, 1979, trad. it. 1996, p. 36). I beni possono essere trattati come mezzi simbolici di classificazione del mondo e di comunicazione non verbale; fornendo la base materiale della stabilizzazione dei gusti essi fungono da segni visibili di una realtà intelligibile a disposizione del soggetto. Ne consegue che l’acquisizione e l’uso degli oggetti sia un modo per «rendere chiaro e visibile un particolare insieme di giudizi nei fluidi processi di classificazione delle persone e degli eventi» (Douglas, 1979, trad. it. 1996, pp. 73-75).

In questo senso il consumo diventa il «campo in cui viene combattuta la battaglia per definire la cultura e darle forma» (ibidem, p. 64), riflettendo scelte fondamentali sul tipo di società in cui si vuol vivere e sul tipo di persone che si vuole essere. Sarà in particolar modo ciò che si rifiuta, più che le preferenze, a evidenziare il ruolo culturale del consumo. Per questo l’atto di consumo risponderà a una logica di affermazione delle interpretazioni e classificazioni come socialmente accettabili, esercitata dall’attore sociale, che mira, in competizione con gli altri, a occupare una posizione dominante nella creazione dei significati. A questo scopo il consumo permette una continua «riclassificazione» del mondo e un confronto con gli altri, per verificare la propria posizione «definitoria» e «classificatoria». L’uso di una nuova merce, o l’uso innovativo di una merce preesistente, è dunque visto come un modo di controllare preziosi stralci di informazione. Douglas vuole dimostrare quindi che il consumatore non è né reattivo, né passivo, né tanto meno irrazionale, ma, quando ad esempio vaga fra i negozi, comunica a se stesso e agli altri la propria identità.

L’agire di consumo però avviene all’interno degli orientamenti culturali (cultural biases) prevalenti nei vari tipi di società. Troviamo in tale classificazione l’orientamento «gerarchico», che corrisponde a strutture sociali forti e gerarchiche, ed è tipico dell’economia tradizionale; l’orientamento «individualista», caratterizzato da strutture e gruppi deboli, tipico dell’economia capitalista competitiva, e l’«autoritario», rappresentato da gruppi forti ed egualitari, a cui corrispondono le comunità contadine e quelle dei monaci nei conventi.

Il lavoro di Douglas ha fatto molto per consolidare un approccio comunicativo che considera le merci come una “semantica” attraverso la quale si realizza il consumo come linguaggio. I limiti in questo modello di analisi riguardano il fatto che non si capisca bene cosa possa succedere al confine tra i diversi orientamenti culturali, se questi siano individuali o sociali, come siano connessi precisamente alle condizioni sociali e strutturali, e soprattutto se siano essi davvero universali. Questo schema analitico è certo applicabile ad epoche diverse, ma proprio per questo tende a sottovalutare la questione dei cambiamenti storici e culturali di lungo periodo.
A tal scopo Douglas assume che il consumismo moderno si debba alla rivoluzione industriale, vista come un fattore che ha complicato la vita del consumatore e che lo abbia costretto a stare faticosamente al passo. Pur rilevando lo sviluppo dei beni terziari, che hanno sostituito il lavoro di riproduzione domestica liberando tempo per altri consumi, l’autrice non si sofferma sul consolidarsi storico del consumatore come nuova e particolare figura sociale. In un certo modo, seguendo questa impostazione, il consumatore sembra dotato di una razionalità strumentale che perseguirebbe come fine ultimo l’espressione della propria collocazione socioculturale. Si può dire invece che i consumatori non applichino semplicemente le logiche culturali del consumo su scala più larga come sembra sostenere Douglas, ma arrivano ad abbracciare la declassificazione culturale, e gli stessi stili di consumo possono essere molto eclettici; questo perché la cultura materiale, come aveva già osservato Simmel, non è solo cresciuta ma si è anche enormemente differenziata, e l’identità dell’attore moderno è multipla e dinamica, cioè egli è posto in condizione di muoversi in ruoli diversi, e allo stesso tempo, come ha sottolineato Erving Goffman (1959), di prendere distanza dai propri ruoli locali e seguire logiche differenti di autopresentazione. A ciò corrisponde una differenziazione delle modalità attraverso cui l’attore sociale utilizza i beni nei diversi ambiti sociali che attraversa. Con questo ragionamento le medesime pratiche di consumo potranno assumere colorazioni diverse e spesso persino contraddittorie, e Mike Featherstone a tale proposito ha notato che gli intermediari culturali, a partire dai pubblicitari, «non cercano di promuovere un singolo stile di vita, ma piuttosto di convogliare ed espandere la gamma degli stili disponibili per il pubblico» (Featherstone, 1991, trad. it. 1994, p. 3)


Articolo tratto dalla tesi di Marco Espertino, Comunicazioni simmetriche e asimmetriche nella società dei consumi, dove nel primo capitolo vengono ripercorsi i principali contributi di autori classici, quali Simmel, Veblen, Bourdieu e M. Douglas, sul fenomeno sociale del consumo e delle sue interazioni con il gusto.