“Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. […] Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.”
(R. Kennedy)


C’è una credenza che, nell’ultimo secolo, ha fondato l’immaginario sociale e che, ancora oggi, costituisce il sottofondo comune delle ideologie politiche moderne, sia di destra che di sinistra: è il mito della crescita. Questa credenza, cui è strettamente connessa l’idea di uno sviluppo illimitato, ha portato con sé le parole d’ordine della massimizzazione della produzione, dei consumi e dei profitti fino a consegnarci all’attuale religione del mercato globale.

Dovendo discutere di sviluppo e di crescita, raggruppiamo di conseguenza teorie del cambiamento sociale che tentano di integrare gli approcci delle diverse scienze sociali; lo sviluppo, infatti, concerne una trasformazione strutturale che implica cambiamenti politici, sociali ed economici.
L’era dello sviluppo si apre con il famoso “Point Four” di Truman nel 1949, dando vita a quel particolare periodo storico caratterizzato da un particolare interesse per le condizioni di vita dei cosiddetti paesi sottosviluppati, in base alla premessa implicita che le condizioni di queste società non erano soddisfacenti e dovevano essere cambiate: bisognava colmare il divario.

Interessante a questo proposito analizzare l’ideologia e la teoria dello sviluppo, considerando infatti che fin dal momento del suo conio, il concetto di sviluppo viene imposto alla società da potenti forze esterne, senza tener conto della sua applicabilità. Importante da sottolineare è anche il contesto in mutamento della dottrina dello sviluppo. I cambiamenti teorici nelle scienze sociali sono differenti da quelli che si verificano in altre scienze, sui quali Kuhn ha fondato la sua teoria del cambiamento scientifico. Nelle scienze sociali infatti i “paradigmi” tendono ad accumularsi invece di sostituirsi vicendevolmente, in quanto possono servire a scopi ideologici anche dopo aver perso il proprio potere esplicativo. Truman cambiò il significato di sviluppo e creò il simbolo, un eufemismo, usato per alludere con discrezione, o anche involontariamente all’era dell’egemonia nordamericana.
Mai in precedenza una parola era stata così universalmente accettata sin dal primo momento del suo conio politico; si creò immediatamente una nuova percezione della propria individualità e di quella degli altri. Vi è quindi la convinzione che quello che è prodotto in Occidente può generalizzarsi a tutto il pianeta, poco importa che zone geografiche del Sud del mondo ignorino l’esistenza di un mercato globale.

Nonostante si usi considerare gli studi sullo sviluppo come campo di indagine che ha origini recenti, l’idea di sviluppo ha origini molto radicate e profonde che si ritrovano a coincidere con quelle dell’economia–mondo capitalista. Il concetto di sviluppo ha preso il posto di quello che per gli illuministi era il progresso e dal concetto di crescita nell’economia capitalistica, divenendo il mito organizzativo centrale nei termini del quale è stata condotta l’analisi del divenire storico dei sistemi sociali: principio metodologico e matrice analitica nella concettualizzazione e interpretazione dei sistemi sociali. E’ più recente invece l’uso “occidentale” del termine, presentato come un fenomeno intransitivo, che semplicemente si produce, senza che si possa far nulla. La scoperta del “sottosviluppo” cambia invece le carte in tavola, in quanto evoca la possibilità di un cambiamento finale, infatti il concetto diventa adesso “transitivo”. Quindi i paesi non solo “si sviluppano”, ma si può anche “sviluppare”.

Il concetto di sviluppo assumerà dunque un significato positivo e transitivo corrispondente ad un principio di un’organizzazione sociale, mentre il sottosviluppo sarà considerato come uno stato che esiste senza una causa apparente. Lo sviluppo fa parte della categoria dei “quasi-soggetti” che costituiscono l’interfaccia tra la natura e la società; creati di sana pianta, non si accontentano di vivere una vita autonoma, ma determinano politiche, impongono comportamenti ed esigono molti sacrifici.
Quasi trent’anni fa nasceva quindi una speranza per i giovani stati del Sud del mondo, ma è facile per tutti riconoscere che le condizioni non erano favorevoli né ad uno sviluppo pianificato né ad uno sviluppo liberale. Il potere dei nuovi stati indipendenti era stretto tra contraddizioni insolubili. Essi non potevano ignorare lo sviluppo, né tantomeno realizzarlo.
Non potevano, di conseguenza, né rifiutarsi di introdurre né riuscire ad adattare tutto quello che fa parte della modernizzazione: l'istruzione, la medicina, la giustizia, l'amministrazione, la tecnologia.
I «freni», gli «ostacoli» e i «blocchi» di ogni sorta, tanto cari agli esperti economisti, rendevano poco credibile il successo di un progetto che presupponeva, nell'epoca della “iper-globalizzazione”, l'accesso alla competitività internazionale. Lo sviluppo, seppur teoricamente riproducibile, non è universalizzabile. Soprattutto per ragioni di carattere ecologico: la finitezza del pianeta renderebbe la diffusione generalizzata dello stile di vita americano impossibile ed esplosiva.
Si tratta infatti, di una visione del mondo che pur essendo fondamentalmente errata, produce effetti concreti sui comportamenti individuali, con conseguenze disastrose sugli equilibri ecologici, sociali e politici. Riconosciamo che la scelta delle società occidentali di puntare unilateralmente sull’accumulazione economica, sulla crescita della produttività e dei consumi, ha prodotto in occidente per tutta una fase storica, una maggiore ricchezza materiale. Tuttavia l’unilateralità di questo approccio ha finito col dissolvere i legami sociali e minacciare il collasso degli ecosistemi. Inoltre il costo di questi traguardi economici è stato pagato non solo dalle classi sociali e soggetti considerati non produttivi, ma anche e soprattutto dai paesi e dalle popolazioni del resto del globo, costrette ad adattarsi e a modificare i propri sistemi sociali e produttivi secondo le e esigenze economiche e politiche dell’occidente.

La teoria della dependencia

Nella metà degli anni ‘60 questo punto di vista eurocentrico dello sviluppo cominciò ad essere contestata dagli scienziati sociali latino-americani, formando una teoria dedicata specificamente ai problemi del sottosviluppo piuttosto che alla storia dello sviluppo. L’approccio della dependencia ha rappresentato parte integrante di un riorientamento della teoria dello sviluppo; i punti salienti possono essere riassunti come segue: data una determinata struttura, c’erano alcune sedi che in base a questa interpretazione accumulavano regolarmente risorse materiali e non materiali, mentre altre sedi venivano private di queste risorse. Lo sviluppo di un’entità geopolitica determina il sottosviluppo di un'altra, in base al modo in cui erano strettamente collegate le due entità.

La scuola della dipendenza sorge dalla convergenza di due percorsi intellettuali; uno cosiddetto neomarxista, e l’altro generatosi nelle discussioni latinoamericane sullo sviluppo. L’interpretazione neomarxista riflette da un lato l’approccio tradizionale, che s’incentra sull’interpretazione eurocentrica dello sviluppo, dall’altro esprime opinioni terzomondiste concentrandosi per lo più sul concetto di sottosviluppo. Tra i principali esponenti di questa corrente figurano Giovanni Arrighi, e Andrè Gunder Frank che si concentrano su studio e rianalisi del concetto di imperialismo, che all’interno della scuola della dipendenza aveva visto più di una trasformazione semantica. L’intenzione di Arrighi non è quella di proporre una nuova teoria dell’imperialismo , ma una nuova geometria dell’imperialismo, o degli imperialismi. Per colmare lo spazio teorico di Giovanni Arrighi occorrerebbe una serie di spiegazioni empiriche che non possono essere affrontate in questa sede.
Naturalmente nel corso degli anni la teoria della dipendenza fu sottoposta a numerose critiche principalmente incentrate sull’esistenza di problemi che la ricerca non è in grado di risolvere e nella mancanza dell’influenza pratica. Già nel distinguere paesi dipendenti e non dipendenti, vi è l’impossibilità di separare i paesi dipendenti da quelli che non lo sono nella misura in cui vengono usati i paesi come unità di paragone.

Queste forti considerazioni autocritiche sui limiti e alcune contraddizioni all’interno dell’impostazione dipendentista favorirono l’avvicinamento critico di molti autori, tra i quali gli stessi Gunder Frank e Arrighi, a quel movimento teorico che, ereditando negli anni ’70 gran parte delle elaborazioni e degli schemi analitici della dipendenza, si legò al nome di Immanuel Wallerstein (suo fondatore), T. K. Hopkins e altri ricercatori del Fernand Braudel Center. La World-System-Analysis, o “teoria” del sistema-mondiale, rappresentò infatti un’estensione/applicazione, al di fuori dei confini latino-americani, dell’analisi delle relazioni politico-economiche tra blocchi regionali interdipendenti, connessa all’analisi dei cicli di accumulazione del capitale su scala globale. Alla luce degli eventi contemporanei e della crisi economica che non sembra ancora voler lasciar il passo ad una nuova fase espansiva (quella che Kondratieff definisce fase A) si può osservare che gli autori citati in questo lavoro sono stati vinti dall’ evoluzione storica del capitalismo, e notare ancora una volta che senza una moderazione della ricchezza, in un pianeta limitato e sempre più affollato, non potrà mai esserci una moderazione della povertà, in quanto, come giustamente osservava Franco Cassano, “il modello occidentale, non è né universale, né universabile, e pretendere di renderlo tale condanna la stragrande maggioranza delle uomini a divenire le comparse di una rappresentazione governata da altri”.

Riferimenti Bibliografici