«Un artista di un’efficacia terribile, di un’evidenza patetica», così Ferdinando Russo, poeta dialettale e giornalista a lui molto vicino, definiva Raffaele Viviani. In questa frase è esemplificato il significato di tutto il lavoro di un artista che con la sua drammaturgia riuscì ad estrapolare gli aspetti più reconditi e più trascurati della società in cui viveva, e a trasporli sul palcoscenico, proponendo personaggi che vivevano ai margini della società, una categoria di persone disagiate che l’autore scelse di raccontare, senza distaccarsene, come la maggior parte dei suoi colleghi, invece, faceva.

La grandezza e l’originalità di Viviani risiede proprio nell’aver portato sulle scene un tipo di contenuto in modo completamente nuovo, scendendo a fondo di quello che era definito popolo partenopeo, dando voce a chi voce non aveva, a quel piccolo grande mondo del sottoproletariato marginale, escluso prima di lui da ogni riflessione, e soprattutto, mai eletto a protagonista. Viviani abbandonò le tematiche tradizionali dei drammaturghi partenopei, la sua sensibilità lo portò a scavare nel profondo di se stesso per dar vita ad un orizzonte di motivi aspri, pungenti, provocatori e passionali, da lui sapientemente orchestrati.

Nelle sue opere c’era spazio per cantare le bellezze di Napoli e la spettacolarità dello scenario naturale in cui la città è racchiusa, ma non dimenticava che questa bellezza così ostentata era solo un’illusione, perché nascondeva, invece, un’umanità fatta di stenti, di espedienti per vivere, di problemi e miseria.
Un’umanità che aveva conosciuto molto da vicino, nel momento in cui il padre, vestiarista teatrale, in seguito a una lunga e dolorosa malattia, era venuto a mancare nel 1900, lasciandolo, a soli dodici anni, a dover provvedere alla famiglia, precipitata nella miseria più nera. Il piccolo Raffaele dovette iniziare a lavorare in teatro non più per divertimento, come aveva fatto costantemente dal giorno del suo debutto ad appena quattro anni e mezzo, ma con serietà e impegno, essendo diventato l’unico sostegno economico per la madre e la sorellina, e riuscendo a guadagnare solo quanto bastava ad avere di che sfamarsi ogni giorno.

La situazione culturale e sociale dentro la quale Viviani cominciò a muovere i primi passi fu molto varia e difficile. La vita della città era ancora sconvolta dall’esperienza del colera dell’84. La fase più tragica di questo periodo di crisi fu quella del maggio 1898, quando Napoli fu investita dalla reazione conservatrice della borghesia e dei generali di Umberto I, che scatenarono contro la plebe i cannoni di Bava Beccaris. Le strade e le piazze erano agitate dalla folla spaventata e rivoltosa, e tra questa, sicuramente, dovette disperdersi anche il Nostro, che conosceva da vicino quegli uomini, quelle donne, le tragedie e i drammi familiari, la fame, “le topaie in cui dormivano in otto in una sola stanza”. Questa coscienza della realtà tanto amara, in cui egli era immerso, fece esplodere, nel suo animo, il desiderio di istruirsi, di imparare a leggere e scrivere da autodidatta, per poter raccontare a tutti di questa pietosa verità, attraverso le sue creazioni, da testimone/protagonista.

Il suo, era un teatro di denuncia, un teatro-inchiesta, che usava il palcoscenico, con i suoi tipi, i suoi personaggi, come portavoce dei problemi che il suo popolo umiliato, ma sempre combattivo, doveva affrontare; e riusciva a raccontare il tutto con grande efficacia espressiva, unita ad un sarcasmo graffiante, in grado di far sorridere, ma anche di commuovere, di far riflettere e di far divertire il suo pubblico, in un rapporto sanguigno, rafforzato dall’uso del dialetto crudo e vivace. Viviani ruppe con la tradizione verista e sentimentale del folclore napoletano, per addentrarsi in una nuova dimensione: la dimensione già diffusa in Europa del Varietà. Furono anni di indigenza, ma col suo talento riuscì a conquistare il pubblico abitudinario di tal genere.

I suoi sketch portavano sul palco una nota stridente rispetto allo spettacolo di Varietà, sempre allegro e leggero”, in quanto erano carichi di un accento drammatico, tragico, improntato ad un vivo senso realistico. L’arte del Varietà era fatta di immediatezza, sintetismo e simultaneità e Viviani ne fu un interprete straordinario, con la sua singolare capacità di mettere in scena attraverso la sua presenza una folla plebea di tipi riprodotti nei minimi particolari, in modo incomparabile. Da grande osservatore, aveva studiato quella moltitudine di piccoli eroi e delinquenti, di personaggi stanchi e miseri, che riempivano le strade della vecchia Napoli e, come un cronista esperto, li riportava sulle tavole dei palcoscenici in giro per l’Italia, offrendo un quadro dettagliato e fedele della società che voleva raccontare.

Una Napoli vera, reale, dolorosa, vibrava nella sua voce, nel suo gesto, nelle sue interpretazioni. La miseria, la vita passata in strada, la casa al vico Finale, la vicinanza al proletariato marginale, ma anche ai diversi aspetti dell’emarginazione sociale, gli permettevano di dare una carica di verità e di passione al suo teatro che non conosceva eguali.



Estratto della tesi di Serena Romano Il teatro di Raffaele Viviani tra marginalità sociale e gioco teatrale.