Cosa contraddistingue i nuovi movimenti sociali emersi nell'ultimo decennio? Quali caratteristiche li accomunano e quali invece li dividono? Perché sono definiti globali? E contro cosa combattono? Perché, parlando di loro, si usa il plurale e li si pensa poi come un'istanza comune, al singolare?

A prima vista, i nuovi movimenti globali sono assai eterogenei per ambito di interesse: sindacati, associazioni ecologiste, gruppi ideologizzati, cooperative contadine spesso si sono ritrovati insieme sulle piazze dei grandi meeting internazionali, dal G8 agli incontri di Davos, dal World Social Forum alla Marcia della Pace di Assisi.
Eterogeneità che si traduce spesso in una divergenza di vedute anche sull'elemento centrale sul quale sono diretti i loro sforzi e impegni. Le forze che costituiscono i movimenti, infatti, sembrano essere divise da tendenze opposte nei confronti della globalizzazione: da una parte, una maggiore chiusura verso il fenomeno (come ad esempio i sindacati contro il dumping sociale e le ong contro gli accordi di partnership economica con i paesi africani); dall'altra i movimenti che reclamano una maggiore apertura verso le dinamiche globali come soluzione alle ineguaglianze sempre più marcate (come la richiesta ad esempio di un coinvolgimento della Cina nel WTO).
Un'eterogeneità che si declina anche in termini sociali di base costituente: le differenti professioni e fasce di età coinvolte sono un elemento costitutivo nel panorama dei movimenti sociali, dopo il coinvolgimento studentesco e femminile negli anni '60 e '70 e l'apatia o l'antipolitica dei decenni più recenti. I movimenti attuali si dispiegano sulla società italiana trasversalmente: donne e uomini, giovani studenti o professionisti, ragazze o anziani partecipano, seppure in modalità differenti, alle attività di contestazione e di critica agli sviluppi della modernizzazione globale.

A prima vista, l'eterogeneità che costituisce una caratteristica rilevante di queste forze sociali potrebbe sembrare una contraddizione o un espediente per riassumere movimenti che altrimenti non avrebbero nessun punto di contatto. In realtà, i diversi frammenti di discorso trovano un terreno comune nella critica verso la forma neoliberista assunta dalla globalizzazione contemporanea. Non è un caso, infatti, che molti movimenti tendono a definirsi “new global”, a differenza dell'etichetta “no global” imposta rapidamente dai media e a volte accettata da correnti più radicali dei movimenti.
La maggior parte delle forze in campo parte dal punto comune che mette in discussione non l'ampliarsi delle interdipendenze mondiali o gli sviluppi della tecnologia informatica e comunicativa, che avvicina gli spazi e riduce le distanze, bensì il prevalere del libero commercio sui diritti sociali e il suo controllo da parte di una élite economico-burocratica, i quali producono l'ampliarsi del divario tra i ricchi, sempre più ricchi, e i poveri, sempre più poveri.
L'eterogeneità viene così accentuata e allo stesso tempo resa comprensibile da questo discorso condiviso che unisce sia i movimenti formati dalla classe operaia sia quelli dei nuovi ceti medi: la base sociale e la loro politica può divergere come strategia che individua, tuttavia, un comune nemico.

La critica più spesso ripetuta nei confronti del neoliberismo globale è l'inasprimento delle disuguaglianze fra nord e sud del mondo: spesso nelle stesse dichiarazioni programmatiche di questi movimenti ricorrono dati eloquenti raccolti sul campo dalle organizzazioni internazionali, come ad esempio la percentuale della distribuzione della ricchezza, i tassi di povertà, etc.
L'accusa ricade spesso sulle pratiche di internazionalizzazione della produzione nelle periferie mondiali, le quali non garantiscono ai loro cittadini gli stessi diritti e protezioni sociali che i lavoratori al contrario godono. Pratiche intente, secondo i movimenti, solo a massimizzare i profitti ed aumentare i dividendi, trascurando qualsiasi responsabilità etica.
Non è un caso, infatti, che molti movimenti propongono una globalizzazione più attenta alla giustizia sociale e ad una ripartizione equa delle ricchezze, facendo appello alla questione etica della governance di impresa e di stato. Non ultimo, si potrebbe citare il caso della campagna “Hunger free” di ActionAid, la quale, promuovendo il diritto alla sovranità alimentare, si concentra tra l'altro sulle pratiche della grande distribuzione commerciale, richiamando ad un impegno etico verso un maggiore controllo dei processi produttivi dei beni e delle attività delle multinazionali nei paesi più vulnerabili.
Sotto accusa sono messe anche le istituzioni del capitalismo commerciale e finanziario globale: dagli organi internazionali come il Fondo Monetario o il WTO, alle banche private e gli istituti di credito statali che hanno contribuito con i prestiti e con le speculazioni a indebitare e impoverire i paesi del sud del mondo.

I punti principali messi in questioni per gli effetti devastanti avuti sulle economie e sulle società di questi paesi sono: la produzione off-shore, ossia, come già detto, l'esternalizzazione delle attività produttive. Si creerebbe, secondo i movimenti, una competizione tra i paesi più poveri per accaparrarsi gli investimenti attraverso un degrado dei diritti sociali ed economici nei mercati del lavoro. La mercificazione della forza lavoro (come segnalato anche dall'ultimo rapporto di Amnesty International) non sarebbe la sola deriva di queste pratiche: in molti sostengono, infatti, che gli effetti della rincorsa ai capitali esteri sono ancora più profondi. Dalla dipendenza ai capitali stranieri allo stato di perpetuo degrado dei servizi pubblici (sia per la loro privatizzazione sia per il minor gettito fiscale), dal monopolio internazionale delle risorse e dalle monocolture ai vincoli imposti ai finanziamenti, il risultato è quello di rendere le economie dei paesi del sud dipendenti, e quindi vulnerabili, ai flussi finanziari e commerciali del nord, impedendo così un reale sviluppo interno e autonomo.
I movimenti non mettono in questione, dunque, solo l'aspetto centrale dei diritti umani e sociali violati in molte regioni, ma anche gli effetti economici che perpetuano un tale modello di globalizzazione e che sono, poi, l'aspetto complementare e necessario a spiegare la violazione dei diritti attraverso l'endemica povertà e l'incapacità di rompere il suo giogo.

Altri punti sollevati che concorrono, secondo i movimenti, a porre in secondo piano i diritti dei popoli a favore del profitto e a perpetuare la dipendenza e lo sfruttamento dei paesi poveri, sono le modalità regionali degli accordi, che favoriscono una subordinazione delle leggi nazionali e della tutela del consumatore al principio del libero scambio, e le speculazioni del sistema finanziario mondiale, i cui capitali non sono più agganciati alla presenza di riserve aurifere nazionali.

Anche in riferimento agli attori e ai suoi leader, i nuovi movimenti sociali condividono buona parte delle accuse: al centro della globalizzazione ci sarebbero le multinazionali, le organizzazioni internazionali e quelle finanziarie e i governanti degli stati nazionali. Il manifesto programmatico di questa classe dirigente che promuove l'ideologia neoliberista di globalizzazione viene individuato dalle forze sociali nel Washington Consensus (dove sono esposti i punti di forza per lo sviluppo economico: la privatizzazione, la deregolamentazione, l'apertura dei mercati, la ricetta dei tagli alla spesa pubblica etc.).
I movimenti contrappongono al manifesto logiche economiche di tipo keynesiano, con un recuperato ruolo dello stato nel determinare le politiche economiche nazionali al fine di riequilibrare le disuguaglianze, garantire i diritti e regolare le derive del mercato. Contrari, dunque, all'idea che il mercato lasciato a se stesso sia il miglior modo per distribuire la ricchezza collettiva, in quanto sempre sottoposto alle pressioni delle posizioni di potere e alle storture dei monopoli, la maggior parte dei movimenti crede fermamente nella regolazione statale dell'economia e nel suo impegno nella spesa pubblica. L'elemento innovativo è la trasformazione del welfare tradizionale, espandendo a livello globale i diritti sociali e promuovendo così una globalizzazione dei diritti.

E' certo poi che il tema della globalizzazione neoliberista viene declinata all'interno di temi più specifici, secondo la natura particolare dei movimenti impegnati nella protesta. Come l'approfondimento delle vecchie garanzie sociali e dalla regolamentazione dei mercati portato avanti dalle forze dei sindacati, come ATTAC, associazione transnazionale di sindacati di diversi paesi nata nel 1998 per promuovere l'adozione della Tassa Tobin ed oggi impegnata sul fronte dei diritti nei mercati del lavoro contro l'esclusione sociale e le povertà.
Altre aree di interesse dei movimenti sono le nuove libertà – che raccoglie sia movimenti ecologisti sia quelli in difesa dei diritti civili delle minoranze – la pace – tema che vede schierato un insieme eterogeneo di attori della società civile, come scuole, movimenti giovanili, privati etc. – la democrazia e, infine, la solidarietà internazionale.

Si potrebbe ulteriormente scindere il movimento new global, come fa Donatella Della Porta, in movimenti materialisti, i quali difendono e pongono al centro il conflitto attorno all'interesse materiale, e i gruppi post-materialisti, i quali invece superano il conflitto per concentrarsi sui temi della libertà individuale e collettiva; tuttavia, l'analisi non toglie che la forza della mobilitazione new global è l'aver messo insieme attori sociali e gruppi dalle anime tradizionalmente distinte, se non contrapposte.
L'omogeneità dei gruppi consiste nel nemico comune combattuto, l'ideologia neoliberista, che produce un certo tipo di globalizzazione, seppure l'interpretazione che essi forniscono al fenomeno globale è eccessivamente ripiegata sulla dimensione economica. Come sottolineato da Giddens, la globalizzazione è un insieme di processi e fenomeni le cui dimensioni non sono solo economiche, ma anche sociali e culturali. In altre parole pensare alla globalizzazione in termini economici riduce la possibilità di comprenderla e, quindi, di criticarla efficacemente, oltreché costruirla secondo le vie considerate migliori. Ed evidenziare e valorizzare le altre dimensioni è la sfida che più compete ai nuovi movimenti. Amartya Sen, insieme ad altri economisti e scienziati sociali, ha spesso ricordato la globalizzazione come risorsa per lo sviluppo della democrazia e della libertà: parlando delle nuove forze in termini globali è ovvio, allora, notare come la stessa realtà mondializzata è la risorsa e la possibilità del formarsi dei nuovi movimenti, riferendosi appunto alle sue dimensioni sociali e culturali.
In questi termini, i nuovi movimenti sono fenomeni globali che combattono un processo mondiale traendo forza e spunti dalle connessioni che riescono a instaurare con altri movimenti nel mondo.

Quest'ultima considerazione ci riporta ad un'analisi di Giddens dei primi gruppi ecologisti degli anni '80. Il sociologo inglese sostiene che i movimenti siano espressione di trasformazioni sociali e culturali che allo stesso tempo favoriscono, facendosi portatori di nuove rappresentazioni del mondo, la cui necessità emerge proprio attraverso le nuove forme di vivere il mondo. In tal senso, i movimenti globali sono attori nati dai cambiamenti occorsi negli ultimi decenni nel mondo, sempre più interconnesso, che propongono una sua rappresentazione e dei suoi rapporti differente, mettendo in questione i concetti e le sue modalità di funzionamento e promuovendo, così, una trasformazione dei rapporti sociali e morali nel contesto all'interno del quale tali esigenze sono nate e sono state rese salienti.

Alla fine ci si può domandare se sia più corretto parlare di “un movimento di movimenti” o di tanti movimenti che fra loro interagiscono come attori indipendenti; tuttavia, ciò non toglie che essi nascono da un'esigenza contingente alle trasformazioni attuali che così influenzano, lasciandosi a sua volta modellare nelle caratteristiche. L'eterogeneità, allora, tenuta insieme da un discorso comune è la misura stessa di movimenti nati sotto il segno di cambiamenti sociali che creano uno spazio di ritrovo globale e che, per certi aspetti, essi mettono in discussione: i nuovi movimenti sono globali, allora, perché la costruzione stessa di un comune discorso è avvenuta, in azione, nel corso cioè di comuni campagne e iniziative mondiali (citazione dal libro di Donatella Della Porta “I new global” ed. Il Mulino), possibili sempre più proprio in un mondo interconnesso.
L'eterogeneità, dunque, attorno ad un discorso comune fa sì che siano globali e si parli di loro al plurale, pensandoli però come un unico agente di azione, al singolare.

di Manuel Antonini