Il cambiamento climatico è un argomento di discussione che negli ultimi anni ha conquistato sempre più spazio e attenzione. Grazie all'attivismo di molte organizzazioni e persone, all'impegno di scienziati e ai recenti contributi di personalità prestigiose la necessità di dare risposte a uno sviluppo sempre meno responsabile nei confronti dell'ambiente è stato posto non solo all'interno delle agende politiche dei governi nazionali, ma anche negli obiettivi degli sforzi multilaterali e regionali.

Dalle difficoltà iniziali riguardo il riconoscimento della responsabilità delle attività umane nel trend di aumento delle temperature della terra ad un accordo di elaborare strategie comuni per affrontare il problema, il percorso è stato lungo e pieno di accidenti. Ad oggi, quasi tutti gli scienziati concordano nel sostenere lo zampino umano nel cambiamento climatico in corso: anche gli Usa, tradizionalmente refrattari a questa visione, iniziano a cedere alla logica ecologista. Nonostante questo siamo ancora molto lontani dall'idea di uno sforzo comune con una strategia e una normativa precisa per raggiungere gli scopi. Purtroppo, infatti, ancora in molti mettono sul piatto della bilancia interessi economici rilevanti, tanto che il rispetto per l'ambiente e la garanzia di conservare un ecosistema sostenibile nel lungo termine passano in secondo piano.

I motivi per i quali si dovrebbe sposare la ricerca di energie alternative, ridurre i consumi e tutte quelle attività in grado di limitare l'inquinamento entro livelli accettabili per l'equilibrio ecologico sono diversi. I primi, per natura logica, sono quelli ambientali e sono noti a tutti. Scioglimento dei ghiacciai, innalzamento dei mari, desertificazione, disboscamenti sono tutti fattori che renderebbero, per usare un eufemismo e non essere catastrofisti, la nostra vita ancora più dura. Un secondo ordine di motivi attiene paradossalmente alla stessa sfera economica: Thomas L. Friedman dalle pagine del New York Times Magazine, in un articolo che sostiene la necessità per gli Usa di sposare la tutela ambientale come mezzo per rilanciare il proprio prestigio e potere sul mondo, elenca alcune buone ragioni economiche per farsi carico della salute della terra, ragioni valide per tutti i paesi della terra. Sviluppare fonti alternative di energia, infatti, avrebbe come conseguenza alcuni punti affatto trascurabili: dalla minore dipendenza nei confronti di quella che definisce la petropolitica, alla crescita di nuove imprese e allo stimolo di nuove frontiere di ricerca con positive ripercussioni sui mercati azionari e del lavoro. E questo sarebbe ancora più corretto se, come afferma il McKinsey Global Institute, nel 2020 l'80% della domanda globale di energia dipenderà dai paesi in via di sviluppo. Ne deriverebbe infatti che, se continuassimo a utilizzare gli idrocarburi come sola fonte di energia, la pressione inquinante sull'ecosistema mondiale raggiungerebbe livelli al di là di qualsiasi soglia d'allarme prevista dall'IPCC. Lo sviluppo di energie rinnovabili, quindi, andrebbe incontro ad una domanda di energia che permetterebbe ai paesi che negli anni hanno maggiormente puntato su quelle fonti di trarne un largo profitto. Ancora di più se si potesse giungere ad un accordo mondiale in stile Kyoto, questa volta ratificato da tutti e da tutti rispettato, dove l'emissione di gas a effetto serra venga inserito in una bilancia commerciale per la quale un eccessivo consumo sia compensato dall'acquisto di quote da altri paesi che, grazie ad un maggior attenzione verso energie rinnovabili, non abbiano esaurito il proprio pacchetto di emissioni consentite.

Al di là delle critiche sulla pericolosità di legare il discorso della tutela ambientale al breve termine degli interessi economici (sebbene vi sia chi ritiene che nel mondo dell'economia capitalista mondializzata è necessario legare il discorso etico sempre ad un interesse economico), vi sarebbe anche un terzo ordine di fattori a spingere perché la tutela ambientale diventi sempre più una priorità non solo nelle parole, ma anche nei fatti. Mi riferisco alle conseguenze sociali che dipendono dagli effetti del cambiamento climatico. E' storia di questi giorni l'ennesima esondazione nel sud-est asiatico. Milioni di persone senza più un tetto e che possono sperare di mangiare a sera solo grazie all'invio di aiuti alimentari. Quale conseguenza ne può derivare, oltre a vedere la propria quotidianità distrutta? L'inevitabile migrazione verso zone più sicure e che offrono una possibilità di ripresa. Allo stesso modo, la crescente desertificazione sahariana spinge le tribù nomadi verso territori, spesso occupati da popolazioni stanziali, che dispongono di maggiori risorse. In un recente discorso è lo stesso segretario generale dell'Onu, il coreano Ban Ki Moon, a rivendicare questa prospettiva come una delle probabili cause dei conflitti nella regione sudanese del Darfur. Il capo dell'Onu afferma, infatti, come le tribù nomadi del nord abbiano convissuto per decenni pacificamente con le genti stanziali delle altre regioni: gli spostamenti stagionali verso sud nei periodi di siccità erano compensati dal ritorno alle terre del nord durante i periodi più piovosi. Il fragile equilibrio desertico aveva assicurato una convivenza che permetteva ad ogni popolazione di disporre delle risorse necessarie per dedicarsi alle proprie attività principali, la pastorizia e l'agricoltura. La desertificazione ha spinto sempre più a sud i nomadi di etnia araba, costringendoli a cercare permanentemente acqua e altre risorse in aree già occupate dall'agricoltura delle popolazioni nere africane. L'inevitabile contrasto (la guerra per definizione è un conflitto che nasce attorno alla spartizione di risorse scarse e limitate) è sfociato in una crisi regionale che ha coinvolto anche i paesi confinanti sovrapponendosi a fratture etniche, spesso di origine coloniale, e religiose. Poi la moda attuale di definire ogni conflitto in Africa come una guerra etnica o religiosa, ha portato a trascurare l'ipotesi della scarsità delle risorse acuite dall'aumento delle temperature. Una moda che spesso nasconde realtà leggermente (ed è ironico) più complesse e scomode.

L'acqua come risorsa scarsa al centro dei futuri conflitti è stata una triste previsione che già alla fine del secolo scorso veniva sventolata, sebbene, visti i risultati, poco presa sul serio. Ma la guerra per accaparrarsi risorse sempre più scarse in una regione per via del cambiamento climatico (è bene precisare che la desertificazione non è la sola e non è sempre la causa a monte della mancanza di acqua presso certe aree, spesso infatti i problemi sono di altra natura) non è il solo effetto sociale derivante dallo sconvolgimento del clima.

Un'altra conseguenza è il disordine sociale per via di un inquinamento che distrugge le risorse prime al sostentamento, impedendo alle popolazioni locali di continuare a vivere secondo i modi tradizionali. Un esempio proviene sempre dall'Africa: è la situazione nel delta del Niger, la regione nigeriana tristemente famosa per la sua ricchezza di giacimenti petroliferi e per i disordini civili che l'affliggono ormai quotidianamente. Lo sfruttamento delle risorse petrolifere, spesso senza alcuna garanzia per l'ambiente circostante e per la popolazione civile della regione, da parte di imprese occidentali con il benestare di autorità politiche e militari compiacenti e arricchite ha condotto ad un vero e proprio disastro ambientale. Fiumi gravemente inquinanti e foreste distrutte non permettono più alle genti locali di poter continuare a vivere con i metodi tradizionali, agricoltura e pesca. Lo stato di miseria e di frustrazione nel quale sono costretti a vivere si aggrava di un sentimento di sfruttamento per via della mancata partecipazione alla ricchezza derivante dalle riserve di petrolio. L'oro nero si trasforma per la gente locale in un incubo nerissimo che ha devastato il proprio habitat e il proprio sistema di vita. Il malcontento viene poi facilmente incanalato in sostegno per gruppi ribelli (che realmente rivendicano una distribuzione della ricchezza differente e più equa) o bande criminali (che approfittano della situazione di instabilità per alimentare i propri interessi). La devastazione dell'ambiente, in sostanza, degenera in una scia di privazioni e disordini che complica ulteriormente lo stato delle cose, rendendo la soluzione dei problemi una via sempre più tortuosa da perseguire.

Ma gli effetti del cambiamento climatico a volte non sono sempre così drastici, assumono toni differenti più quotidiani, più difficili da scovare e per questo ancora più pericolosi, perché possono passare inosservati. Ad esempio, una delle spinte verso la migrazione urbana nei paesi più poveri viene proprio dall'impossibilità di poter continuare a usufruire dei raccolti attraverso i metodi tradizionali dell'agricoltura: esondazioni e desertificazione spingono molte persone a lasciare le aree rurali per rifugiarsi nelle città, con l'inevitabile elefantiasi delle megalopoli nel sud del mondo. Tuttavia le città nel sud del mondo non dispongono delle infrastrutture e dei servizi decenti per assicurare una viti dignitosa ai nuovi arrivati: le baraccopoli crescono e si alimentano, il malcontento si nutre alla stessa mangiatoia delle malattie e le crisi sociali divengono spettri sempre più reali.
Tali processi poi generano anche flussi migratori esterni verso paesi più ricchi che privano spesso i paesi interessati di parte di quel capitale umano necessario allo sviluppo sociale, economico e culturale di un paese: in altre parole, l'emigrazione dei giovani africani si trasforma da risorsa in fuga di massa che vede fra le sue cause anche, seppure non solo, le conseguenze portate dai cambiamenti del clima.

Quanto detto fino a qui ci porta ad una considerazione di carattere più generale riguardo la quotidianità degli effetti sociali del cambiamento climatico, una considerazione che alla fine potrà apparire ovvia, ma che invece è tanto fondamentale quanto spesso trascurata. Le conseguenze sociali del cambiamento climatico colpiscono prima di tutto e per primi i paesi più poveri, meno capaci di far fronte alle nuovi condizioni per via delle minori risorse disponibili e perché dipendono più del mondo ricco dal clima per assicurarsi le materie prime necessarie alla sopravvivenza. Infatti, l'agricoltore europeo o americano, e di riflesso noi consumatori, di fronte alle bizze del tempo possiamo assicurarci attraverso le serre, i finanziamenti statali e gli ogm. Altrettanto però non è possibile per il contadino del Ciad o indiano. Se per una stagione non piove o piove troppo, le conseguenze sono disastrose. E solo cento anni fa, anche l'Europa o l'America conosceva questa drammatica verità. I cambiamenti climatici che dal secolo scorso investono la terra acuiscono questi problemi e li rendono ancora più gravi per chi seguita a vivere della provvidenza naturale.
E forse è proprio perché a essere interessati così gravemente fino ad oggi dalle conseguenze del cambiamento climatico sono quasi sempre solo i paesi poveri che l'ovvietà di questa considerazione è spesso trascurata nel prendere in considerazione la tutela dell'ambiente, salvo poi rinfacciare alle economie emergenti l'enorme contributo che esse portano all'inquinamento.

E' necessario ragionare quindi in termini non solo ambientali, ma anche sociali quando si parla di cambiamenti climatici: comprendere che la terra è un equilibrio fragile non solo nei meccanismi dell'ecosistema, ma anche nel funzionamento globale delle società umane. E la sociologia potrebbe avere un ruolo importante nel chiarire i processi e le trasformazioni che dipendono dalla mancata tutela dell'ambiente, poiché da sempre impegno e compito primario della disciplina è stato lo studio del cambiamento.