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Zygmunt Bauman e il suo ''Lavoro, consumismo e nuove povertà''
Il libro di Zygmunt Bauman sul passaggio dall'etica del lavoro all'estetica del consumo nelle società contemporanee e le sue conseguenze sulle condizioni di povertà

[07/01/2008]

La recensione di questo mese è il libro di Zygmunt Bauman, “Lavoro, consumismo e nuove povertà”, nel quale vengono esplorati, con la solita ricchezza di riferimenti della prosa del sociologo anglo-polacco, i cambiamenti avvenuti all’interno delle società consumiste contemporanee nei confronti dell’organizzazione economica, del lavoro e della sua etica, e delle loro conseguenze sulla concezione delle povertà.

Un libro interessante, perché legge le ultime tendenze comparandole alle condizioni delle nostre società occidentali immediatamente dopo l’esaurirsi delle violenze della Seconda Guerra, quando il sistema economico europeo era improntato sui capisaldi del lavoro industriale, del welfare state come garanzia sociale per il futuro incerto di quella moltitudine dell’esercito “marxista” di riserva, sul lavoro come percorso di vita per raggiungere il successo (quale che fosse il suo parametro relativo nei diversi settori sociali). L’ideologia funzionale a questo sistema era, appunto, l’etica del lavoro (che Bauman sottolinea ben differente dall’etica dell’operosità artigianale e dei mestieri dei secoli precedenti), attorno alla quale non si costruiva solo il successo economico del sistema stesso, ma anche le carriere e le identità psicologiche degli individui.

Con gli sviluppi della globalizzazione economica, la perdita di potere degli interventi statali, la deregolamentazione, l’esternalizzazione delle attività produttive e tutte le sue dinamiche al centro degli studi più recenti dell’economia e della sociologia economica, il welfare state ha cominciato a sgretolarsi, venendo a mancare la sua motivazione funzionale.
Gli operai, infatti, oggi vengono raggiunti dalle imprese direttamente in quei luoghi dove i salari sono a più basso livello. La necessità, così, di “conservare” una forza lavorativa “sana e pronta” all’interno delle nazioni più ricche viene meno e l’etica del lavoro perde della sua efficacia funzionale. Il cuore della tesi sostenuto dal libro si trova proprio in questo passaggio: oggi l’etica del lavoro viene sostituita dall’estetica del consumo, la nuova ideologia che infarina le psicologie individuali e collettive e assicura al sistema economico il successo auspicato e cercato. L’estetica del consumo, infatti, secondo Bauman, predica il piacere del consumo (all’interno del libro vi è un’analisi molto dettagliata dei processi psicologici e sociali che il consumo impone agli individui e alle collettività, facendo credere di operare scelte laddove le scelte sono ormai esaurite in termini di alternativa al consumo stesso: in altre parole, possiamo scegliere cosa consumare, ma non esimerci dal consumare per poterci creare un’identità) e stimola un maggior egoismo (e non individualismo!), invitandoci a preferire un reddito più alto per consumare e, quindi, sempre meno inficiato dal sistema pubblico del gettito fiscale per finanziare la rete di protezione sociale.

Nella seconda parte del libro si affronta il passaggio declinandolo nelle sue conseguenze sulla condizione di povertà. Come scrive la quarta di copertina del libro edito da “Città aperta”, infatti, “Una cosa è essere poveri in una società fondata sul lavoro e con un regime di piena occupazione e una cosa è essere poveri in una società in cui le identità individuali e i progetti di vita si costruiscono più a partire dai consumi che dal lavoro e dai profili professionali”.
Se un tempo essere povero significava essere disoccupato ma non emarginato (perché il sistema economico tendeva verso la piena occupazione e creava uno stato temporaneo di disimpiego, mentre il welfare state assicurava una garanzia sociale e contribuiva a creare una sorta di destino comune), all’interno dell’estetica del consumo, con le sue nuove logiche e con la caduta delle protezioni sociali, la povertà è legata ai consumi e viene concepita come l’impossibilità di crearsi un’identità in mancanza di determinati livelli di consumo. La condizione che ne risulta, allora, è uno stato permanente di incapacità di partecipare, di essere parte.
Una differenza, che spiega Bauman, “fa la differenza”, in quanto coloro che non consumano divengono i “parassiti” da scaricare, i “fardelli” che si appoggiano al servizio pubblico e frenano le possibilità di crescita e consumo della collettività. In altre parole, per Bauman i nuovi poveri sono “criminalizzati”, divengono i rifiuti che sostengono l’integrazione dei vincenti e dei vincitori e fungono da monito per chi dubita se adattarsi oppure no. Ecco così "le nuove povertà".

Il lavoro di Bauman, che lancia una dura accusa al modello di organizzazione raggiunto dalle nostre società e sostenuto dalla sua ideologia, trova uno spiraglio nella parte conclusiva dove, senza affidarsi a nostalgici richiami a formule passate, sostiene la necessità di superare la società del mercato puro e senza regole o interferenze statali, che crea esclusione e separazione e ci destina così a uno stato poliziesco per garantire sicurezza ai consumatori da chi non ha accesso al mercato. Abbandonare il mercato liberista, ripensando il reddito e la nostra vita, entrambi non più legati al lavoro o al consumo, ma a una cittadinanza finanziata dalla fiscalità generale.
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