Lavori per il teatro da diverso tempo, un teatro che ha forti punti di contatto con il lavoro delle scienze sociali. Qual è stata la tua formazione?

Mi sono laureato in Scienze Politiche con una tesi su Norberto Bobbio, che poi ho conosciuto e per un breve periodo mi ha seguito. Ho lavorato anche con Danilo Dolci e Italo Mancini. Si può dire insomma che la mia formazione è avvenuta nel campo sia della sociologia del diritto sia della filosofia del diritto.

Com’è avvenuto l’avvicinamento al teatro?

Sempre durante l’università. Studiavo a Urbino, città universitaria dove si incontrano tanti giovani e si hanno molti stimoli. In quel periodo, mentre studiavo, ho scritto un testo teatrale. Tra l’altro il teatro, proprio come nostalgia infantile, mi aveva sempre preso molto.
Comunque, dopo averlo scritto decisi di metterlo in scena. Considera che non sapevo nulla di teatro, anzi meno di nulla. E non sapendo nulla, misi in scena tre atti con cinquanta persone. E sempre non sapendo nulla, non cercai un teatro minore, ma il Teatro Sanzio. Alla fine ci furono seicento persone a vederci e ci divertimmo moltissimo. Fu in quel momento che mi dissi “Vabbè faccio teatro, anziché il filosofo del diritto”.
Da lì cominciai ovviamente a studiare altre materie, feci corsi e soprattutto vidi una quantità industriale di spettacoli, seppure non feci mai nessuna accademia.
Da quel primo spettacolo, poi, mi rimase dentro l’idea di lavorare con molte persone: tra quei cinquanta attori c’erano cuochi della mensa, studenti di Sociologia, studenti dell’Isef e di Giurisprudenza. Mi è piaciuto molto fin da subito fare teatro con queste persone e da lì ho continuato a portare avanti questo modo particolare: coinvolgere persone, usare il teatro per costruire relazioni sociali. A me diverte molto, mi permette ogni anno di conoscere moltissima gente.

Questo tuo approccio al teatro a partire anche dalla tua precedente formazione scientifica, è avvenuto attraverso la consapevolezza di intraprendere un determinato percorso?

Quando è successo avevo 23 anni. Sai, a quella età, la consapevolezza è una parola troppo grossa. Certo per la scrittura e nell’incontro con i gruppi iniziai da subito a utilizzare il metodo di Danilo Dolci. Poi ho sviluppato e approfondito quella metodologia, sia negli effetti sulle dinamiche relazionali che instauravo con i gruppi sia nei risultati artistici. Insomma un percorso che si è andato poi formando e che tuttora continuo. Però l’idea di fare teatro così, utilizzando la mia formazione e la metodologia delle scienze sociali, è stato qualcosa di spontaneo.

Parliamo più in dettaglio di quella metodologia che usi nel tuo teatro, l’osservazione partecipante. Un metodo preso in prestito dalle scienze sociali, in particolare dal lavoro di Danilo Dolci?

L’osservazione partecipante, una metodologia classica nelle scienze sociali, in Italia ha avuto uno dei rappresentanti più significativi proprio in Danilo Dolci. Una metodologia non solo di studio ma di azione. Danilo Dolci, infatti, durante gli anni ’50 andò in Sicilia, a Partinico, in una terra dove ancora la gente moriva di fame, e con i contadini costruì una diga. Il suo lavoro con la gente del posto favorì un forte sviluppo territoriale e proprio a partire dai risultati ottenuti attraverso l’uso dell’osservazione partecipante che lo rendono uno dei rappresentati più significativi della metodologia stessa.
Comunque, il fatto di utilizzare in teatro questo metodo di lavoro con i gruppi non mi fa sentire un sociologo: i miei fini restano teatrali, prendo una metodologia sociologica e la modello per il teatro. Il mio teatro non è un’indagine sociologica: non so dire chi siano i giovani, posso solo dire che attraverso il mio lavoro conosco molti ragazzi e ragazze, facendomi un’idea delle loro esperienze ma senza per questo dedurne una generalizzazione. Generalizzazioni che, d’altra parte, un po’ mi fanno arrabbiare: il 53% dei giovani crede nella famiglia. Sì, ma quale? Idem, l’80% crede nell’amore. Di nuovo, quale amore? In che modo?
Mi domando spesso quale rapporto hanno queste indagini con la vita reale che intendono misurare: il modo che porto avanti di fare teatro cerca il più possibile di mantenere stretto questo rapporto con le realtà che racconta, anche utilizzando quel metodo del quale parlavamo.

Più che ricerca sociale, il tuo teatro è allora azione sociale?

Sì, un’azione sociale certamente. Per quanto mi dicono, effetti e ricadute sulle persone e sulle strutture con le quali lavoro ci sono e sono importanti. D’altronde è proprio sulle ricadute che esce fuori molto la mia formazione nelle scienze sociali. In ogni mio progetto, infatti, c’è sempre uno studio molto accurato degli effetti attesi, una vera e propria valutazione di come e quanto si è inciso nella realtà in cui abbiamo agito. Nel 99% dei casi le risposte sono sempre molto positive.
Facendo teatro con realtà marginali, hai l’opportunità di far fare esperienze belle a persone che spesso di esperienze belle ne hanno fatte poche, offri a loro l’occasione di misurarsi con una sua performance, instauri relazioni sociali e, infine, permetti a una tragedia personale di acquistare valore. In altre parole, la storia tragica diventa qualcosa di utile per la persona stessa e per gli altri. In questo senso il teatro diventa azione sociale.

Un valore aggiunto per il teatro stesso che diviene fattore di cambiamento, trasformazione?

Sì...ti faccio un esempio. La prima volta che ho lavorato con la comunità Oklahoma (centro dove vivono insieme diversi ragazzi e ragazze uscite da realtà difficili n.d.r.), gli educatori subito mi hanno chiesto quali sarebbero state le ricadute sui ragazzi. Giustamente questo è il loro primo obiettivo. Per me, invece, questo obiettivo è secondario, nel senso che è possibile trasformare e raggiungere certi obiettivi solo se lavori su un terreno estraneo, terzo da quello dei problemi stessi che si ha di fronte. Per me fondamentale diviene fare un buon spettacolo, lavorare come se loro fossero degli attori, pretendere la disciplina attoriale. Non mi preoccupo, a differenza degli educatori, se ce la faranno o meno i ragazzi a dire quella particolare battuta sul palco. Non mi preoccupo perché non mi interessa: certo che ce la faranno, ma l’importante è il “come fare in modo” che uno arrivi a dire quella battuta, il “come fare in modo” che uno riesca a starci sul palco.
Non lavorando in primis sul recupero dei ragazzi, ma sullo spettacolo, il teatro è un fine che produce effetti positivi, diventando così in pari tempo strumento, azione sociale.
Sia chiaro poi che questi effetti positivi hanno per ognuno un diverso carattere e all’interno del progetto è indicato come devono essere valutati: un esempio, un progetto all’interno di una scuola oltre a valutare lo stato emotivo dei ragazzi, considera anche il suo rendimento scolastico. In questo ultimo caso, un criterio di verifica non sono i voti a fine anno, ma la capacità di migliorare i suoi rapporti con la scuola. Se uno ha sempre tre e quattro sulla pagella e dopo aver fatto teatro decide di abbandonare la scuola, la ricaduta in questo caso è positiva perché sta facendo chiarezza e intenzionalità sul suo futuro.

Parlavi di fini teatrali e tra questi quello di trasformare la tragedia del singolo in un valore. Condividere attraverso il teatro una storia personale, una tragedia vissuta dal singolo, oltre ad acquistare valore, diviene anche destino comune? Dal racconto e dal confronto con altre storie si acquisisce maggiore consapevolezza della propria? Mi viene in mente proprio il tuo ultimo spettacolo, l’Infinito viaggiare dove un ragazzo di Napoli dice proprio che guardandosi negli occhi dei ragazzi stranieri ha ritrovato una nuova identità, straniero tra stranieri...

Certo, quello che diceva il ragazzo di Napoli è una cosa importantissima proprio per la comunità stessa dove vive. Lui si riconosceva in quegli stranieri e il fatto di essere il solo italiano tra quei ragazzi era per lui una risorsa....Questi ragazzi sono fantastici. Pensa anche ai ragazzi che soffrivano di depressione (sempre all’interno dello spettacolo Infinito viaggiare n.d.r.), hanno avuto l’opportunità di fronte ai loro coetanei di raccontarsi e mostrarsi diversi da come sono soliti apparire attraverso la televisione, dove la cosa migliore è forse metterli in galera e buttare via la chiave. Facendo teatro insieme, raccontandosi e lavorando uno accanto all’altro hanno avuto l’opportunità di conoscersi reciprocamente. Il punto è, almeno credo, che costruire integrazione è molto più facile di come appare, specie per i ragazzi. Integrare persone è più semplice che dividerle. Prendersi è un attimo, più difficile separarsi: vale tanto per uomini e donne, quanto per i popoli.
Chiaro, vogliono far apparire l’integrazione qualcosa di molto più complesso perché integrare in apparenza è più sconveniente economicamente.

Prima dicevi che attraverso il teatro è possibile ottenere effetti positivi a livello sociale, purché si faccia teatro a tutti gli effetti. Oggi è molto di moda il teatro-terapia. Cosa ne pensi? C’è differenza?

Il teatro terapia deve essere fatto dagli psicologi e da chi è competente per farlo. La sua finalità è terapeutica e non teatrale. Sono due modi assai differenti di lavorare. uno fa teatro, l’altro terapia.
Altrettanto vale per la musicoterapia e quant’altro. In tutti questi casi il teatro, la musica ecc. sono tecniche utilizzate per fare terapia e perché qualcuno sia in grado di farlo deve essere accreditato. Nel momento che parli di terapia stai entrando in un campo medico e con le persone non si scherza.
Inoltre, nel teatro terapia il suo fine non è la spettacolarizzazione, al contrario deve essere una cosa molto chiusa.
E’ vero, in entrambi i casi lavori nel profondo delle persone. Anche nel mio teatro scavo all’interno degli attori, ma la finalità non è curare qualcosa, ma rintracciare le emozioni per emozionarsi, altrimenti come emozionare il pubblico? Il mio lavoro teatrale è finalizzato a costruire la capacità di sostenere l’emozione, conoscerla, viverla e riprodurla. Se poi tale lavoro sarà utile bene. Se invece c’è bisogno di approfondire e di fare terapia non possono venire da me, che faccio un altro lavoro.

Il tuo lavoro conta molto sull’autonomia della persona?

Certo. Inoltre se una persona mi viene a dire “Mi ha fatto bene quella cosa...” dubito che sia davvero così. Se una cosa ti ha fatto bene cambi linguaggio per definire il tuo stato. Che significa infatti “mi ha fatto bene” o “sto bene”?

Certo è che la prospettiva tra il tuo teatro, che scava per tirare fuori una potenzialità, e il teatro terapia, che scava per risolvere un problema, è molto differente. Tu pensi alle patologie nelle persone con le quali lavori?

No...pur dipendendo dal contesto...anche quando le patologie sono manifeste, come nel caso di ragazzi diversamente abili, nei quali si hanno disabilità fisiche e cognitive, il mio modo di lavorare e di comportarmi non cambia. Sono lì per fare teatro e per divertirmi. Se devo chiedere una performance la chiedo, se devo arrabbiarmi mi arrabbio ecc.
Accade che, così lavorando, i ragazzi stanno sul palco per 45 minuti, si imparano un copione a memoria e stanno in scena così normali che alla fine uno si dimentica le loro disabilità ed esce dal teatro sconcertato.
Eppure anche in questi casi non sono lì per fare terapia o per curare una patologia, sono lì per fare teatro. Certo, quando sono in contesti particolarmente protetti, mi preoccupo più di loro che del pubblico che verrà a vedere lo spettacolo. Sto attento a che le mie richieste siano realizzabili e adeguate alle loro potenzialità, ma conto sulle loro potenzialità e risorse. Ad esempio, durante uno spettacolo un ragazzo diversamente abile ha messo in scena il Teorema di Godel...una richiesta altissima...e ce l’ha fatta brillantemente. Questo ragazzo appena l’ho conosciuto ci impiegava un buon minuto per riuscire a presentarsi.

Come si rapporta con te il mondo del teatro classico?

Guarda, specie dopo l’Infinito viaggiare, teatro e critici sono entusiasti. Evidentemente ha risposto a una necessità. Il teatro ha sempre avuto un elemento di forte contemporaneità. Il teatro vive il presente. Proprio questa sua appartenenza al presente rende forte il teatro e il mio teatro lavora soprattutto sul presente. Gli ultimi spettacoli hanno sempre avuto le sale piene eppure non sono una persona particolarmente nota. Sinceramente, tutto questo successo mi ha sorpreso, positivamente, ma mi ha sorpreso...

A quale esigenza risponde il tuo teatro?

Credo viviamo in un’epoca in cui le persone non riescono più a dare senso alle parole che dicono. Se un ministro, l’intelligenza di una nazione, dice che prende le impronte digitali ai bambini rom per il loro bene, allora è dura immaginare chi c’è dietro....Secondo me, c’è una grossa mancanza di senso, le persone non riescono a capire cosa gli accade...pur parlando moltissimo. Prendi uno spettacolo come Fratello clandestino (che sarà ripreso in cartellone a marzo n.d.r.) dove c’è un ragazzino che prende la sua morosina, le da 14 coltellate e le cava un occhio. Assisti alla storia e alla fine a questo ragazzo gli vuoi bene. Nonostante il suo crimine orrendo, riesci a capire, non giustificare. Comprendi la sua storia pazzesca che ci riguarda. Assistendo a questo spettacolo riesci a cogliere il senso di quello che accade.
In Ave Maria per una gatta morta c’è una ragazza che si suicida...chi è abituato a pensare alla gioventù di oggi solo come se fosse stupida vede in scena cose mostruosamente stupide eppure stavolta ne coglie il senso. Quando lavoravamo su questo spettacolo avevo paura che i professori e gli operatori si arrabbiassero per i temi tirati fuori, vado giù pesante infatti con il mondo degli adulti. In realtà, mi ringraziarono perchè lo spettacolo aveva permesso loro di capire i ragazzi, il senso che davano alle loro azioni.
In un mondo dove si legge poco, una volta che tu fai un teatro nel quale istituisci un senso di realtà e un senso alla realtà, probabilmente rispondi a un bisogno.

Ultime domande. Baliani nel suo libro su “Il pinocchio nero” sottolinea la sua esigenza di trovare un’altra strada per il suo teatro. Nel tuo percorso hai visto che quello che stavi facendo, che il tuo teatro stava prendendo un senso differente da quello che intendiamo solitamente come teatro?

Il mio teatro non nasce né da una posizione di opposizione né dall’abbandono di una strada per assumere una nuova creatività o un nuovo senso. La mia storia nasce da una necessità...

E qual è questa tua necessità?

E’ in sé nell’atto artistico. Il teatro mi permette di avvicinarmi a determinati miei nodi, anche inconsapevolmente. Pochi giorni fa riflettevo su una scena fatta tanti anni fa: quando sono arrivato a Vigevano la prima persona che ho visto in stazione era un matto scatenato che ti si avvicinava e ti diceva “Dimmi giù”. Tu gli dicevi “giù” e lui andava giù con un piede solo e poi voleva un bicchiere di vino. Andava avanti così per ore, fino a distruggersi. Lo faceva per dimostrare che non era ubriaco. Su questa storia ho fatto un primo pezzo di teatro di strada, cambiando la posizione del movimento: invece che farlo andare su e giù, l’attore faceva un passo avanti e indietro. Poi con il passare del tempo mi sono reso conto che quel movimento mi ricordava un gioco che facevo da bambino che nemmeno mi piaceva. e neanche quella persona poi mi piaceva tanto.
Attraverso il teatro e le sue letture, ho la possibilità di mettere in scena determinate cose e avvicinarmi così a determinati miei nodi. In questo senso è una necessità. E poi alla fine facendo teatro mi diverto molto e questo è fondamentale.

Chiudiamo con un’annotazione su Danilo Dolci. Un intellettuale e un uomo di azione poco studiato nelle università italiane...

Andrebbe studiato, specie la sua prima parte che preferisco rispetto alla sua seconda fase, quando si è messo a fare più l’ideologo. Con lui ho lavorato a Partinico e proprio la sua storia andrebbe studiata.
Anch’io come il Teatro della Cooperativa ho messo in scena il testo pronunciato da Calamandrei a difesa di Danilo Dolci davanti al Tribunale di Palermo, quando Danilo era stato arrestato per il suo sciopero con i contadini contro la disoccupazione. Era stato uno sciopero al contrario: era andato con i contadini del paese a coltivare campi incolti, ad aggiustare strade per dimostrare che né la volonta né il lavoro mancava.
Durante gli anni ’60 era da tutti riconosciuto come grande intellettuale e personalità di spicco. Poi, dopo quel periodo, un po’ si è perso: specie dopo aver ricevuto il premio Lenin, che prima era il premio Stalin. Da lì molti suoi amici si sono staccati da lui, come Ignazio Silone.
D’altronde era una persona abbastanza difficile: andava a letto alle sette del pomeriggio e si svegliava alle tre del mattino...facendo una vita completamente diversa dagli altri.
Anche nella sua vita privata è stato particolare: si è sposato prima con una vedova a Partinico, dove puoi immaginare è una cosa molto forte. Poi si sposa con una norvegese, sempre a Partinico...eppure queste sue particolarità non hanno mai costituito problematiche nel paese siciliano.

Qualcosa che ti è rimasto particolarmente dentro nella memoria del tuo rapporto con Danilo Dolci?

Quando è venuto qui a Vigevano, per venire a cena a casa nostra, non essendoci l’ascensore si è dovuto portare su per le scale quella sua pancia enorme. E’ arrivato su da me che sbuffava...e lo stesso a Champoluc, ero lì per una vacanza, mentre lui era salito per un seminario. Quel giorno a 2000 metri me lo sono trovato che camminava senza fiato, distrutto. Sai, lui si presentava molto con la sua fisicità e mi colpiva molto, lo caratterizzava.
Poi, un altro fatto particolare è successo quando lavoravo con lui in Sicilia. Un giorno stavamo andando verso Partinico e ci fermiamo a un bar. Chiamiamo la mamma di un mio amico e lei ci dice di telefonare subito a Danilo che doveva parlarci. Allora lo chiamiamo e lui “Volevo dirti grazie”...dopo due ore saremmo stati lì da lui...a volte era così, un po’ bambino nell’esprimere le sue emozioni.

Prossimi spettacoli che stai preparando?

A ottobre vorremmo fare uno spettacolo in un supermercato...

Un teatro sociale a tutti gli effetti, anche uscendo dai luoghi istituzionali...

Spesso l’abbiamo fatto. Ci è capitato di fare teatro in appartamento, andando a casa della gente...di fare teatro in auto. Ci piace molto l’idea di fare il teatro avendo per scene il reale. Lo spettacolo nel supermercato lo stiamo completando e mi auguro che possa poi diventare anche uno spettacolo da teatro. Al momento il progetto è ancora troppo in erba...Comunque l’idea che c’è dietro è portare le persone che entrano in un supermercato a riflettere su quello che succede in quel posto. Tante volte non ci rendiamo conto di quello che c’è lì dentro...il lavoro e le sue dinamiche. Il tentativo infatti è proprio quello di descrivere i lavori di un supermercato: cosa significa per una ragazzina di 15 anni andare a lavorare e attaccare scatoloni e cosa per il datore di lavoro avere alle sue dipendenze una ragazza di 15 anni?
Allo stesso tempo, mi piacerebbe proseguire con il gruppo dell’Infinito viaggiare, visto anche le richieste di repliche che abbiamo avuto, anche se abbiamo bisogno di una crescita organizzativa.