Professor Carbone, buongiorno. È un piacere poterle fare qualche domanda in merito alla politica africana. Comincerei subito prendendo spunto da quanto accaduto in Kenya. Spesso si ha la tendenza a presentare e interpretare i conflitti che scoppiano in Africa come guerre d’origine etnica. Credo, invece, che la radice ultima sia da ricercarsi altrove: nella crisi sociale, politica ed economica degli stati. L’etnia, in altre parole, è la forma, la crisi sociale la sostanza. Lei cosa ne pensa? E se così fosse, quali interessi vi sono dietro a queste “mistificazioni”?

Non so se ci sia un interesse nel senso di una visione complottistica, anche se ci potrebbe essere qualche elemento, retaggio della storica tendenza a far passare come arretrate le popolazioni africane. In parte condivido anch’io la sua premessa e credo che l’uso del conflitto etnico per spiegare le guerre in Africa sia la conseguenza di un metodo molto abusato di usare una chiave di lettura semplice, quella della contrapposizione etnica appunto. Perché ci sono scontri e violenze? Perché sono appartenenti a gruppi, etnie o razze diverse.
I conflitti in Africa spesso è vero hanno una dimensione etnica, ma altrettanto spesso non è il primo motivo per cui ci si arriva a scontrare. Come ha detto lei, le divisioni etniche diventano la forma in cui si declinano le appartenenze e le violenze, ma non sono l’origine che spinge al conflitto. In più vi è un ulteriore elemento: le divisioni etniche sono a volte, specie nei paesi economicamente più poveri, l’effetto paradossale dei processi di democratizzazione. La democratizzazione, infatti, da un lato è emancipazione, promozione delle libertà e garanzia di una convivenza pacifica, legittimata dalla partecipazione collettiva alla discussione dei problemi; dall’altro, nelle democrazie in via di transizione vi sono processi di accentuazione delle differenze per assicurarsi il consenso. La semplicità del “ricorso all’etnicità”, richiamata prima nella lettura dei conflitti, è anche un elemento usato dai politici locali in quanto mezzo più veloce, efficace e sicuro per aggregare consensi attorno a sé e mobilitare le persone. L’etnia taglia corto e rende chiaro il messaggio politico: l’appartenenza e la contrapposizione diventano nette e inevitabili, senza via di scampo.
Nelle democrazie di transizione, non solo africane, gli appelli di tipo etnico in campagna elettorale, dunque, sono una risorsa spesso usata che incentivano sia le letture “semplicistiche” sia circoli viziosi dai quali è difficile uscire. E speriamo che, riguardo il Kenya, ciò avvenga il prima possibile.

Se l’origine etnica è solo una forma e la sostanza si ritrova nelle povertà economiche, concentrandosi sull’etnicità non si rischia di rendere più difficile la soluzione dei problemi?

Per quanto riguarda i politici locali direi di sì, mentre sull’impatto della lettura del mondo occidentale bisognerebbe rifletterci maggiormente, non perché non vi siano ragioni ma perché vi è meno evidenza. E’ molto più chiaro, infatti, l’impatto del ricorso all’etnicità a livello locale: un conflitto etnico è meno negoziabile rispetto a scontri dove la posta sono ragioni socio-economiche, proprio perché la divisione etnica fa appello a una costruzione delle differenze che non si possono incontrate se non attraverso la violenza e l’esclusione.

Nel suo libro sulla politica africana, la radicalizzazione etnica che contraddistingue alcuni scenari politici africani vede tra le sue cause la presenza coloniale europea, la quale ha contribuito a cambiare il significato politico delle differenze tribali già presenti in Africa.

Sì, indubbiamente il colonialismo ha contribuito ad accentuare le loro divisioni e la loro politicizzazione. Bisogna, allo stesso tempo, essere equilibrati: riconoscere le responsabilità coloniali, è cosa ben diversa dal sostenere che senza quelle condizioni non si avrebbe avuto una radizalizzazione o una politicizzazione dell’etnia.
E’ lo stesso discorso che vale per i confini degli stati africani. Le critiche, legittime, che sono state mosse alla mappa politica africana riguardano proprio l’artificiosità dei confini, l’aver raggruppato popolazioni differenti all’interno di uno stesso centro amministrativo. Certo si poteva fare molto meglio di quanto lasciato dal colonialismo, ma quanto meglio? Oggi, come cinquant’anni fa, non è che si potesse creare un continente africano suddiviso in tanti piccoli stati quanti erano le comunità africane. Anche ammesso che ciò fosse stato fattibile da un punto di vista del disegno territoriale (possibilità che trovo comunque remota), sarebbero poi stati sostenibili questi stati sotto la loro dimensione amministrativa e governativa?
Se da una parte, dunque, è giusto capire, dall’altra la spiegazione non deve mai essere semplicistica e riduttiva.
Un altro fattore da tenere in considerazione è che questi paesi sono stati creati da poco – se si considerano i percorsi storici – e nonostante questo, attorno al loro sviluppo, sia economico che politico, si sono create subito aspettative notevoli, con la convinzione che quegli stati avrebbero presto dovuto assomigliare ai modelli occidentali. Tuttavia gli stati moderni europei hanno impiegato secoli prima di divenire ciò che sono oggi e sono passati attraverso processi di nazionalizzazione forzosa, di costruzione di un’identità nazionale attraverso la negazione delle identità dei gruppi minoritari. Quelle che oggi sono le rivendicazioni delle differenze locali negli stati africani corrispondono in qualche modo alle rivendicazioni che secoli addietro avvenivano anche in Francia, in Italia, in Germania o nel Regno Unito. Solamente, quando i paesi europei hanno affrontato tali questioni vi era la possibilità violenta e drammatica di cancellare queste differenze: oggi, per fortuna, nei paesi africani tale possibilità non è più permessa o concessa. Si crea così un effetto “paradossale”: gli stati africani si trovano nella necessità di costruire un’identità comune e allo stesso tempo di preservare le diversità e le differenze minoritarie radicalizzate in etnie. Non è un compito facile: si chiede molto agli stati africani, seppure dispongono di strumenti inferiori. Questo non significa che si debba concedere di nuovo quegli strumenti forzosi, con la possibilità di cancellare i gruppi minoritari, ma che nell’affrontare l’analisi delle costruzioni politiche africane bisogna considerare l’intrecciarsi dei percorsi storici (la costruzione degli stati su uno sfondo comunque già prima del colonialismo fortemente frammentato in divisioni tribali o etniche, n.d.r.) e la presenza di fattori che non sempre dipendono da una responsabilità occidentale o locale.

Anche Doris Lessing, parlando dello Zimbawe nel suo libro “Sorriso Africano”, sottolinea l’impaziente pretesa di vedere avviarsi uno sviluppo e una costruzione dello stato che in Europa ha richiesto secoli. Il fatto, però, che gli stati africani si ritrovino ad affrontare problemi simili con strumenti inferiori richiede la ricerca di nuove soluzioni per la democratizzazione in Africa?

Solitamente quando parliamo di problemi in Africa pensiamo sempre ad una soluzione, con la convinzione che vi siano sempre degli ostacoli, che siano gli interessi locali o internazionali, la cui rimozione aggiusterebbe tutte le cose. Il problema dello sviluppo e della democratizzazione, di ricercare nuove forme che combinino la specificità di ogni paese africano con i modelli occidentali, in realtà, non passa attraverso soluzioni che ci sarebbero ma non vengono adottate. Inoltre l’idea di una soluzione rigida che adegui le realtà africane ai modelli occidentali per molti non è la strada da percorrere. Vi sono stati dei pezzi, degli spezzoni di soluzioni che poi una volta proposti in modo rigido, ad esempio il caso delle riforme economiche degli anni ’80, sono state giustamente criticate come ricette standard con la presunzione di avere la soluzione per ogni problema.
La questione di costruire uno stato moderno ad economia avanzata è una delle imprese più ardue della vita umana: se pensiamo al Giappone, alla Germania, agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna, tutti questi paesi hanno trovato un loro proprio percorso, con mille errori e mille drammi, senza seguire una ricetta standard. E’ innegabile che ci debba essere un sostegno da parte nostra, ma non dobbiamo credere che esista un percorso o una soluzione buona per tutti.

D’accordo, ma quando avviene che sulla politica africana si affacciano personaggi lontani dai modelli che siamo soliti credere dei politici africani, corrotti e clientelari, personaggi che propongono un percorso di sviluppo per il proprio paese, magari differente o in contrasto con gli interessi occidentali, essi non ricevono il supporto necessario affinché quel percorso possa realizzarsi. Penso a Sankara, ad esempio, che ha proposto un percorso per il Burkina Faso, ma non ha avuto sostegno né nel mondo politico africano né in quello occidentale...

Senz’altro ci deve essere l’apertura del mondo occidentale e un sostegno. Però bisogna sempre stare attenti. Da un lato, ci sono ortodossie politiche ed economiche troppo rigorose, come il modello dell’economia nazionale o quello della democrazia occidentale, che rischiano di essere camice di forza; dall’altro, se escludiamo il caso di Sankara che è stato interrotto bruscamente (Sankara è stato assassinato nel 1986, dopo circa quattro anni che era in carica) raramente questi percorsi originali si sono realizzati. Nei casi, infatti, in cui i percorsi hanno avuto l’opportunità di proseguire sono emersi poi dei lati oscuri: lo stesso Mugabe, che all’inizio era osannato come leader del popolo, un rivoluzionario, ha fatto seguire poi a una fase iniziale di speranza e di ideali un declino simile ad altre leadership africane.
Gli esempi storici ci parlano quasi sempre di traiettorie che fanno seguire alla speranza una parabola nella quale prevale la gestione personale e privata del potere e una volontà di non abbandonare il proprio posto occupato nello spazio politico.
Vede, per questi aspetti conta molto anche l’orientamento personale: io sono sempre un po’ scettico sulle visioni o sull’idea di una soluzione unica e pronta all’uso, preferisco pensare in termini di processi, di riforme, di aggiustamenti, di passaggi, anche se mi rendo conto che la presenza di certe figure sia poi fondamentale per far rinascere la speranza, la voglia di lottare della popolazione.

E quali sono le cause di questi deterioramenti nelle leadership politiche?

E’ difficile trovare una risposta adeguata per ogni situazione. Tuttavia, un fattore comune che soffrono le leadership politiche africane è il basso livello di sviluppo economico e la scarsità di risorse. Prendiamo il caso del presidente keniano Kibaki: se consideriamo il bilancio generale della sua presidenza, è stato più o meno positivo, proprio come in ogni mandato presidenziale di qualsiasi paese. A differenza di Mugabe e dei suoi atteggiamenti fuori dall’ordinario o di Museveni e del suo carisma travolgente, Kibaki è sempre stato considerato una persona equilibrata e disponibile a farsi da parte al momento opportuno. La sua recente e contestata vittoria alle tornate elettorali keniane, la quale ha destato le violenze dei mesi scorsi, e il suo comportamento sono stati spiegati con il fatto che Kibaki rappresentava il garante di un’elitè economica, la cui forza dipendeva dal controllo stesso della parte politica. Un’elite che non era disposta a rinunciare alle risorse che la politica, quindi, le garantiva. Questo spiega buona parte dell’attaccamento al potere, della difficoltà ad uscire di scena dei politici africani: non ci sono altre risorse o una forte dimensione privata dell’economia che permettano vie alternative a quella pubblica per accedere alla gestione delle risorse e della ricchezza.
Tanto a livello comunitario di sostegno delle leadership, quanto a quello politico, c’è dunque un problema strutturale ed economico: lo stato è ancora troppo importante come strumento di accesso alle risorse pubbliche e ai finanziamenti stranieri.

In questa debolezza della politica un fattore può essere la mancanza di una società civile e di una coscienza politica ben radicata?

Torniamo al discorso precedente. Il nostro desiderio di vedere funzionare assetti e modelli che hanno funzionato nei nostri paesi occidentali attraverso un lungo e specifico percorso e che vorremmo funzionassero nella stessa misura in contesti segnati da esperienze storiche e culturali differenti.

Certo, ma la formazione di una società civile e di una coscienza politica non è un processo necessario perché si costruisca uno stato…

Assolutamente, è una cosa però che richiederà del tempo e avverrà secondo un percorso non prestabilito. Ci sono, a mio parere, elementi rispetto ai quali si può essere più ottimisti nella politica africana. Visto che siamo in periodo di elezioni, fare propria l’idea che si possa destituire un governante attraverso lo strumento elettorale, che si possa far rispettare la regola dei due mandati…ecco sono meccanismi che in un arco di tempo relativamente breve potrebbero affermarsi nella politica africana creando un riferimento culturale importante. Rispetto all’altra questione, lo stato come un’opportunità per l’accesso alle risorse materiali (quello che alcuni chiamano neo-patrimonialismo e che Chabal definisce come l’informalizzazione della politica per fini clientelari e personalistici, n.d.r.), purtroppo in questo caso non è sufficiente l’avverarsi di due o tre eventi per poterla risolvere: in un contesto di scarse risorse, dove la posta in gioco è la sopravvivenza e le opportunità di mobilità sociale sono limitate, è facile ed immediato costruire il consenso attraverso la distribuzione clientelare delle risorse, alle quali si accede attraverso la gestione della cosa pubblica. La dimensione propriamente politica passa in secondo piano: non significa che non vi siano movimenti o associazioni che lottano per migliorare le condizioni dei paesi, sarebbe irrispettoso dire ciò visti i loro sforzi. Intendo dire, piuttosto, che la legittimità dell’ordine politico si forma a partire da relazioni verticali di ridistribuzione tra chi detiene il potere e l’insieme dei rapporti che lo sostengono. La spinta a utilizzare le risorse non per il bene generale, ma per un interesse particolare è una tendenza ancora molto ben radicata nella politica africana. E questo è un meccanismo che avviene ovunque vi sia scarsità di accesso alle risorse, anche nel nostro paese.

Altri aspetti sui quali essere ottimisti riguardo la politica africana nel breve e medio termine?

A mio parere si è stati eccessivamente negativi sulla valutazione degli effetti complessivi delle riforme economiche introdotte negli anni ’80. Mi spiego: sicuramente le riforme economiche hanno avuto dei pesanti costi sociali, anche in relazione ai risultati economici che ci si era prefissi. Però, secondo me, la crescita alla quale assistiamo in questi ultimi anni è anche legata a quel periodo. Negli anni ’80 gli stati africani erano di fronte a un problema, i paesi non avevano risorse e i bilanci statali erano gravemente deficitari, le economie deboli, una macchina amministrativa molto pesante e con poca sostanza ed efficienza. A fronte di queste condizioni di partenza, la crescita economica media oggi registrata è un risultato in parte derivante dall’aggiustamento della gestione economica favorita proprio da quelle riforme degli anni ’80. E credo sia un risultato sano di queste riforme: come uno schiaffo tirato ai paesi , ha avuto i suoi costi, ma allo stesso tempo ha permesso loro di svegliarsi e intraprendere una nuova strada per la gestione economica, una gestione certo legata all’ortodossia economica liberale. E qui si inserisce una questione valutativa rispetto all’opportunità o meno di un’economia liberalizzata, alla quale peraltro sono favorevole.
In altre parole, ci sono state molte critiche rivolte ai costi sociali delle riforme e al loro apparente fallimento, però nell’arco di vent’anni, in un quadro processuale, dalla situazione problematica di partenza sono stati introdotti dei miglioramenti nella gestione politico-economica, grazie a quelle stesse riforme. Certo, si sono avuti anche altri costi in questo passaggio, come l’estendersi della corruzione legata a operazioni di privatizzazione, ma nella valutazione complessiva quelli sono stati aspetti positivi che dovrebbero essere maggiormente valutati.

Easterly a proposito del fallimento delle riforme degli anni ’80 usa la metafora del paziente gravemente malato che arriva al pronto soccorso. Se dopo le cure non ha miglioramenti la causa è da imputare alla malattia, piuttosto che all’inefficacia delle cure. Tuttavia, aggiunge dei commenti che potrebbero essere così tradotti: dopo le riforme il paziente non solo è uscito senza miglioramenti, ma anche con la dipendenza dai farmaci o, peggio, con nuove malattie.

E’ vero, prima ancora di andare al pronto soccorso, prima ancora degli anni ’80, il funzionamento dell’economia africana negli anni ’60 e ’70 ha portato a quei grossi indebitamenti finanziari e, ancora oggi, quei meccanismi in molti casi persistono. Attraverso le riforme economiche non è stato tutto risolto e molte questioni restano aperte: i nuovi indebitamenti, la corruzione che in diverse situazioni sta crescendo, i percorsi di democratizzazione che ancora deviano dal loro percorso, l’eccessiva o rinnovata dipendenza dalle risorse minerarie o energetiche. Tra le cose che però vedo più positivamente vi è il lascito di queste pesanti dosi di farmaci, forse sbagliati nelle dosi e nella somministrazione, che hanno creato dipendenza o fatto emergere nuovi problemi nel riportare i pazienti verso la strada della guarigione, ma che allo stesso tempo hanno indirizzato verso quella strada.
A fronte dei molti problemi, anche tante cose in senso positivo sono cambiate negli ultimi decenni e l’insieme di questi miglioramenti, la loro gradualità, porta a successivi passi verso il percorso dello sviluppo. Mi rendo conto, d’altra parte, che è difficile accettare che il percorso dello sviluppo economico sia un processo storico con passi avanti e cadute, visto l’enorme perdita di vite umane alla quale ogni giorno assistiamo.

A proposito degli ultimi anni, si è affermata l’idea nella cooperazione che una premessa dello sviluppo era la presenza di istituzioni democratiche. Di conseguenza si è pensato che un criterio efficace di allocazione degli aiuti allo sviluppo sarebbe stato quello di considerare i percorsi verso la democratizzazione che ogni paese stava compiendo. Gli studi di Easterly e i fatti di ogni giorno ci dicono però che alla teoria non è seguita la pratica: ad oggi non esiste una forte correlazione tra gli aiuti versati dai donors occidentali e paesi maggiormente democratizzati…

Da un lato, non bisogna stupirsi. Le logiche dietro agli aiuti pubblici seguono strategie di ordine diverso: ad esempio, le vecchie potenze coloniali, come Francia e Gran Bretagna, tendono a privilegiare i rapporti con le ex colonie. E’ utopistico credere che dal momento che si afferma di voler sostenere i processi di democratizzazione, tutti gli aiuti siano allocati attraverso questo solo criterio. I legami poi che ci sono tra gli stati occidentali e le ex colonie sono complessi e coinvolgono anche una dimensione culturale: relazioni più solide, scuole, cittadini espatriati ect. Da questo punto di vista, quindi, è irrealistico pensare che il criterio della democratizzazione si imponga su tutti gli altri. Altro discorso, invece, è affiancare questo criterio ad altri di ordine geo-strategico, storici etc. In altre parole premiare attraverso questo criterio quei paesi che maggiormente si sforzano sul percorso della democratizzazione.
Poi, non bisogna nemmeno essere così certi che l’aiuto abbia sempre effetti positivi: inondare di aiuti un paese, infatti, che ha già trovato la sua via, rischia di soffocare le sue iniziative e creare più danni che effetti positivi…

Si riferisce a un certo tipo di aiuto, che crea dipendenza dallo sviluppo occidentale e non l’autonomia di uno sviluppo locale…

La premessa è che bisognerebbe valutare caso per caso ogni singola iniziativa. Tuttavia, prendiamo il caso del Ruanda. Per molto tempo dopo il 1994 è stato l’astro emergente degli aiuti internazionali: a Kigali immagino quanto fossero visibili le insegne di questa o quell’altra agenzia. Talvolta, a vedere tutto questo sembra eccessivo, quasi frustrante: vieni in contatto con un’iniziativa, un avvenimento o una persona e troppo spesso ti accorgi che dietro c’è un appoggio che, da un lato è bello sapere che esiste, dall’altro avresti preferito pensare a quella nuova iniziativa imprenditoriale o sociale voluta e ideata sul posto e non dall'esterno.

Non in eccesso e nemmeno senza criterio. La valutazione dei criteri nell’allocazione degli aiuti, infatti, non è un elemento fondamentale nella via dello sviluppo? Prendiamo il caso della Nigeria: nel 2005 lo stato italiano ha cancellato il debito bilaterale di quel paese, nonostante ci siano altri venti paesi in condizioni peggiori (almeno secondo gli indici di sviluppo umano) e il governo locale non pare adottare misure favorevoli ad un maggior benessere e ridistribuzione della ricchezza. In questo non pesa una nostra responsabilità, favorendo quel governo?

Lei mi vuol far dire che siamo responsabili. Certo, ce ne sono molte di responsabilità dell’occidente. La questione della Nigeria è molto controversa: in generale su un piano storico siamo sempre stati troppo poco critici per via della sua importanza legata alle sue risorse. Non si è spinto abbastanza per migliorare la gestione del potere in quel paese, gli interessi petroliferi erano molto forti e negli anni più recenti sono nate quelle spinte sociali che hanno cercato e cercano una gestione più corretta in termini di trasparenza, di partecipazione etc. E’ chiaro che a delle responsabilità locali corrispondono anche delle responsabilità esterne.

Ultima domanda. Dopo la Cina, recentemente anche gli Usa hanno riscoperto il ruolo strategico dell’Africa. L’attenzione di queste due potenze porterà ancora il continente africano a essere lo scenario di giochi di potere com’è accaduto durante la guerra fredda o avremo risultati differenti?

No, la situazione è diversa. Non vi è la stessa rigidità della contrapposizione ideologica tra i due blocchi di allora. Oggi gli interessi sono pragmatici ed economici, quindi più flessibili e sfumati: non si tratta di scegliere di stare da una parte o dall’altra di un blocco.
L’ingresso della Cina in Africa ha sollevato molte questioni: nonostante abbia anch’io dei dubbi, non sono così convinto che il suo ingresso abbia soltanto un carattere negativo. L’entrata della Cina porta energie, finanziamenti e contribuiscono a una spinta verso la crescita economica. Anche il ritorno degli Stati Uniti è ugualmente da valutare: è chiaro che le motivazioni principali siano la ricerca del petrolio e la lotta al terrorismo. Tuttavia, gli Usa sono ancora la prima potenza mondiale e se una regione vuole crescere non può essere isolata da quella potenza, non solo in termini economici. Resta da capire quanto, oltre agli interessi delle potenze in gioco, arriverà anche in disponibilità a investire, a sostenere e a interessarsi di un’area in difficoltà che negli ultimi venti anni è stata spesso messa da parte.
Certo, non è una situazione da sogno, quella di attori disinteressati con il solo scopo di aiutare economie a risollevarsi: sono entrambe due potenze pesantissime e danni ne faranno…Molto dipenderà anche dalle elite politiche africane nella volontà di difendere i loro interessi: ad esempio i recenti rifiuti consegnati al comando militare americano da paesi africani che si erano visti presentare la richiesta di ospitare una base americana nel loro territorio. O ancora il blocco creato dai paesi africani durante le trattative per la formulazione degli EPA (Economic Partnership Agreements). Siamo abituati, infatti, all’idea che i paesi africani non abbiano scelta o margini per scegliere e siano oggetti passivi di decisioni prese dall’esterno: entrambi questi due esempi dimostrano l’opposto. Molti governi hanno valutato gli effetti di una presenza così ingombrante come quella di una base americana e hanno preferito negare il loro appoggio.
Da una parte, quindi, i paesi africani faranno le loro scelte e difenderanno i loro interessi, dall’altra parte spetta a Unione Europea, Cina, Stati Uniti il compito di accoglierli e non escluderli.

A cura di Manuel Antonini. Intervista non revisionata dal prof. Carbone