Prof.re Magatti, buongiorno. Nel suo articolo comparso sulla rivista "Sociologica" parla di crisi della sociologia contemporanea. Una ragione di questa crisi la ritrova nella frammentazione che contraddistingue la disciplina. Oggi abbiamo grandi sociologi e non grandi sociologie. Perché?

Più che la causa considero questo problema l’effetto della crisi della sociologia. La disciplina sociologica manca di un quadro epistemologico chiaro e condiviso, come, al contrario, succede in altre scienze sociali. La teoria economica, per esempio, e i suoi dibattiti hanno un punto di riferimento stabile, un modello. La sociologia, invece, fin dall’inizio non è mai riuscita, o forse non ha mai voluto, fare qualcosa del genere, rimanendo un discorso e una tradizione indeterminati sul piano epistemologico.
Superata la fase della metà del XX secolo, con la capacità di Parsons di costituire un riferimento generalizzato, la frammentazione è degenerata.
Per quel che mi riguarda, affermare che oggi esiste una comunità scientifica di sociologi è un’affermazione abbastanza forte. Piuttosto, esistono molti discorsi sociologici che hanno il carattere, per usare un’immagine dalla connotazione positiva che spesso utilizzo in questi casi, del lavoro artigiano.
In tal senso, la sociologia fornisce una serie di strumenti analitici e metodologici agli studiosi e la differenza si ritrova solo nella competenza dell’uso.

E nell’intuitività?

Non solo l’intuitività, ma intendo proprio la capacità di plasmare il prodotto seguendo dei canoni di procedura e di consonanza tra i vari elementi epistemologici. Il risultato però è una sostanziale incompatibilità dei prodotti così creati. Una ricerca, infatti, viene giudicata sulla base della sua conformità a certi standard e della sua capacità di comunicare qualcosa, restando però un prodotto a sé che riesce a dialogare solo con pochi altri referenti sociologici.
Il caos, e i sociologi lo sanno bene, ha come effetto la degenerazione. Quindi, se, da una parte, la situazione che ci troviamo ad affrontare è estremamente caotica, dall’altra, essa tende sempre a degenerare. Mancano criteri e riferimenti comuni, un reciproco riconoscimento, compensati da personalismi che si radicalizzano (basta leggere le biografie di alcuni sociologi) e finiscono per citare solo se stessi o i propri accoliti.

L’assenza di un quadro di riferimento condiviso si declina anche nella mancanza di un lessico comune?

Una delle esperienze più deprimenti che si possono fare avvicinandosi al mondo della sociologia è leggerne i manuali, i quali sono un buon indicatore dello stato della disciplina.
Trovo i manuali di sociologia, almeno nella gran parte dei casi, poco adatti per il compito che dovrebbero svolgere. Sono tutti preoccupati del contatto con la realtà e finiscono per dire delle banalità terribili, mentre c’è uno scarsissimo lavoro sulle categorie, che invece dovrebbe essere assolto proprio dai testi di istituzionalizzazione di una materia scientifica.
Dai manuali si può ben capire, quindi, come la sociologia non ha stabilizzato un lessico categoriale che consenta di costruire poi un dialogo comune.

Per tutti quelli che si avvicinano alla sociologia, ci dica un libro di testo da salvare.

Sinceramente non ne conosco nemmeno uno, nel senso che non trovo nessun manuale sufficientemente articolato e convincente. Un libro che consiglio solitamente ai miei studenti, d’altro canto carente sotto un’infinità di altri punti di vista, è “Pensare sociologicamente” di Bauman, nel quale c’è uno sforzo di mettere insieme le categorie della disciplina. Tuttavia, non è pensato come manuale o libro di testo.

L’incapacità di arrivare ad un modello di riferimento condiviso, o anche solo ad un lessico comune, è dovuta ad un’incapacità dei sociologi o, più semplicemente, non è sentita da loro la necessità?

La spiegazione è sociologica. Mancando criteri di riconoscimento collettivo all’interno della comunità dei sociologi, i gradi di indeterminatezza e di incertezza sui percorsi e sulle carriere di chi intraprende quest’attività sono altissimi. Ne deriva, così, l’assenza di condizioni capaci di favorire nelle persone investimenti sul lungo periodo per arrivare ad un quadro di riferimento condiviso, base per il dialogo e per il riconoscimento stesso.
Ci sono dunque condizioni oppositive ad uscire da questa situazione. Anche nelle giovani generazioni, come i dottorandi o i ricercatori, prevalgono purtroppo comportamenti accademici adattivi: si prende atto che il mondo funziona così e ci si adatta ad esso.

A proposito di comportamenti adattivi, vorrei uscire un attimo dal discorso sullo stato della sociologia, per approfondire questo aspetto, specie in relazione al titolo di un suo libro, dove dice che sul piano individuale “la globalizzazione non è un destino”. Si riferisce al fatto che prevale in ogni settore della vita sociale un comportamento adattivo, dove la percezione è quella di vivere in un mondo dove non si possa fare altrimenti?

Con la domanda lei solleva una questione antropologica e filosofica importante che si riallaccia ad alcune tematiche di fondo della sociologia. La mia posizione a riguardo è che i fatti sociali, seppure non siano irrilevanti (altrimenti non farei questo mestiere!), mantengono un punto di malleabilità, per quanto relativo o marginale, che gli esseri umani in quanto tali sono in grado di generare.
Come dice qualcuno: se, da una parte, è vero che gli esseri umani sono prodotti sociali, è altrettanto vero, dall’altra, che i prodotti sociali sono generati dagli esseri umani.
Come sociologo tendo a pensare, certo, che i comportamenti adattivi siano quelli più diffusi, riproducendo così i sistemi e le loro condizioni. Esistono, però, anche dei punti di conflitto, delle vie di uscita, degli accadimenti che, seppure scarsamente probabili, si attuano e generano cambiamento laddove si credeva non si potesse cambiare mai. Non sono quindi determinista.
Credo anche che il compito principale del sociologo non è quello di fare grandi previsioni, piuttosto ha il ruolo della “sentinella”, ossia di intervenire prima dell’azione, fornendo una mappa delle condizioni nelle quali si svolge l’azione e sapendo che l’azione stessa conserva un margine, seppure relativo e marginale, non contenuto nelle condizioni assegnate.

Per riprendere vigore, per assumere questo ruolo di sentinella, di mappa per l’azione, la sociologia, come lei dice nel suo articolo, dovrebbe divenire“fenomenotecnica”, ossia tornare ad essere, come nella scuola di Chicago, uno strumento conoscitivo rivolto all’applicazione pratica. Tuttavia, per fare questo dovrebbe partire da un orientamento e da un giudizio di valore. Questo è un limite o una risorsa?

E’ un limite. Ma io considero la parola limite non negativamente. Per me la parola limite è un indicatore di sanità antropologica che di questi tempi, spesso, manca. E’ un limite e l’importante è che sia riconosciuto ed esplicitato. Riconoscendolo ed esplicitandolo, infatti, viene anche sterilizzato. Il pericolo maggiore sta nell’inconsapevolezza o quando si lascia tutto implicito.
Vorrei però chiarire un punto precedente. Il grande motore della sociologia come materia storica era interno ad un discorso razionalista e illuminista di governo dei fenomeni sociali, di scienza tecnica della società. Questo approccio, seppure rispettabilissimo, sconta però degli assunti antropologici impliciti molto rilevanti e pensa che lo studio dei fenomeni sociali non è molto differente da quello dei fenomeni naturali (si veda il grande dibattito tra scienze dello spirito e scienze della natura alla fine del secolo XIX.).
Oggi i grandi disegni di organizzazione della società non ci sono più e rimangono, più limitatamente e forse più sensatamente, delle nicchie dove le competenze tecniche di carattere sociologico sono applicate con successo. Per dare nuova linfa alla disciplina, i sociologi dovrebbero avere più cura nel capire quali sono queste nicchie. Un esempio è il tema delle politiche sociali o quello dell’organizzazione, o ancora quello della gestione delle emergenze e dei rischi.
I sociologi, insomma, farebbero bene se identificassero delle questioni rispetto alle quali le competenze di ordine tecnico nate all’interno della tradizione sociologica trovano un’utile applicazione. A mio parere, questo sarebbe uno sviluppo sensato della disciplina che le permetterebbe un forte sviluppo.
Poi c’è un altro piano che è necessariamente meno orientato alla questione tecnica. E’ il piano interpretativo della realtà sociale, più filosofico e antropologico, dove si forniscono le cornici di comprensione dei processi di trasformazione delle realtà sociali. Questo è un piano dove il tipo di questioni e di tematiche, il tipo di profili epistemologici, il tipo di riferimenti antropologici e filosofici sono piuttosto diversi l’uno dagli altri.

Un piano dove è più facile ricadere in quella frammentazione prima discussa…

Una cosa che noto nella sociologia contemporanea e che favorisce quella frammentazione è la confusione nel distinguere questi due piani, entrambi nobili e importanti, che, seppure comunicanti, devono restare distinti. Spesso nelle ricerche vengono mischiati insieme con risultati pessimi.
Ora, siccome il vostro sito è rivolto principalmente a studenti e non voglio dare un quadro distruttivo della disciplina, aggiungo che le competenze derivanti da questa tradizione sono non solo preziosissime per gli anni a venire (con il potenziamento degli apparati tecnici che spesso vanno per conto loro e credono di poter risolvere le cose solo con il loro tecnicismo), ma anche utili nell’ambito dell’applicazione professionale.
Credo davvero che dei bravi laureati nelle discipline sociologiche, in presenza di certe condizioni, potrebbero avere in molti campi dei percorsi professionali migliori di quelli provenienti da altre scienze. Solamente siamo ancora lontani dall’arrivare a quelle condizioni.

Mi viene in mente il lavoro di Goffman, che si è sempre impegnato in uno sforzo applicativo, d’intervento, sorretto però da una chiara cornice teorica. La relazione tra i due piani deve essere di comunicazione?

E’ utile tenere i due piani distinti, ma altrettanto utile è la loro comunicazione. Devono essere distinti, infatti, non separati. Quando preparo un corso di laurea, certamente parto da premesse epistemologiche, filosofiche e antropologiche, per sviluppare un certo modo di intendere la vita sociale e quanto ne consegue; però, altrettanto chiara è la mia preoccupazione di mettere in condizione gli studenti di trovare un’applicazione concreta di quelle conoscenze, altrimenti si rischia di far uscire dei disadattati sociali.
Quando si comincia a guardare il mondo con gli occhi della sociologia, infatti, è come perdere la “verginità”. In altre parole, quando cominci a guardare il mondo attraverso la prospettiva delle categorie che la sociologia insegna e perdi l’innocenza dello sguardo dell’uomo di strada, ti confronti con un doppio piano interpretativo, che se da una parte arricchisce, dall’altra rischia di portare davvero al disadattamento nei confronti della realtà sociale. Non hai più, infatti, l’innocenza di chi è dentro e vede il mondo così com’è.

E’ come la pillola nel film Matrix. Se si decide di studiare con impegno la sociologia si cambia il proprio modo di guardare la realtà…

La mia preoccupazione però non è solo di fornire la capacità di guardare le cose da un altro punto di vista, di liberarti, ma anche aprire qualche opportunità perché lo studente possa stare dentro il mondo, farne parte applicando proprio quelle conoscenze, lasciando poi ad ognuno la scelta se radicalizzare la prospettiva critica o meno.
Oggigiorno, invece, spesso ci si limita a fornire il primo strumento, lasciando poi gli studenti a se stessi.

E spesso i laureati in sociologia si ritrovano fuori dalle università senza avere ben chiaro cosa andranno a fare, quali competenze saranno richieste loro nel mondo del lavoro. Cosa significa allora scegliere la facoltà di sociologia?

Vede, come credo non ci siano persone che s’iscrivono a filosofia per fare il filosofo (anche se poi qualcuno si metterà a fare il filosofo, fare filosofia significa un’altra cosa), allo stesso modo chi s’iscrive a sociologia non deve pensare di diventare “sociologo”, nel senso del pensatore che si occupa dell’universo mondo. Piuttosto deve, da una parte, pensare di entrare a far parte di una tradizione che grazie al suo patrimonio di conoscenze gli permette di acquistare la capacità di leggere e interpretare i fenomeni; dall’altra, pretendere che l’università fornisca metodologie e strumenti per essere indirizzato verso degli ambiti che possano estendersi anche nella sua vita futura e nel mondo professionale.
Sono contrario, dunque, all’idea esclusiva che la sociologia formi sociologi. E non è un caso che tutte le facoltà e dipartimenti di sociologia d’Europa sono in crisi, perché non è mai stato fatto lo sforzo di attaccare l’insieme di conoscenze della tradizione sociologica da qualche parte, a qualche ambito o settore professionale. E’ ovvio, poi, che le conoscenze non si riducano solo a quello, ma nemmeno dobbiamo pensare che chiunque passi attraverso quelle conoscenze diventi sociologo.
Ritengo sia drammatico, in Italia come in altre parti, che le facoltà di sociologia non si siano messe d’accordo su almeno due o tre punti sui quali costruire un modello per collegare le conoscenze all’applicazione professionale. Un modello, sia chiaro, che non è strano: pensiamo a giurisprudenza, la quale partendo da un contenitore unico, la laurea in legge, ha identificato nel tempo alcuni ambiti professionali (l’avvocato, il notaio, il magistrato ecc.), diversi percorsi da intraprendere.
Ciò che manca alla facoltà di sociologia è proprio un’identificazione forte, precisa e condivisa degli ambiti professionali che escono fuori dal contenitore comune, la laurea in sociologia.

In Italia la sociologia è più in crisi che in altre parti? E perché nel nostro paese vi è meno riconoscimento a livello di dibattito pubblico del valore aggiunto che il contributo della sociologia può portare?

Non credo la sociologia in Italia sia più in crisi che altrove. In Francia, in Inghilterra o in Germania la cosa non è molta diversa.
Riguardo al riconoscimento pubblico, invece, bisogna partire dal riconoscere che siamo in una fase storica differente da quella degli anni ’60/’70, dove l’elemento collettivo e sociale era prevalente.
Oggi, al contrario, le dinamiche di frammentazione e di individualizzazione rendono il discorso sociale, e quindi sociologico, un discorso retorico, che tratta spesso di argomenti “eterei”. Un primo problema, quindi, è quello di una certa fatica della disciplina a seguire la trasformazione.
Secondariamente, come dicevo prima, in questa trasformazione si sono sviluppati solo debolmente competenze che permettono interventi tecnici in settori nei quali la conoscenza sociologica potrebbe essere molto utile, come ad esempio il tema della sicurezza urbana.
Sul fronte interpretativo, invece, per riprendere i due piani che prima citavo, prevalgono i filosofi. Oggi, infatti, nel dibattito pubblico largo spazio hanno gli economisti, i politologi (qualcuno) e, soprattutto, i filosofi. I sociologi non riescono a porsi da nessuna parte e il loro spazio viene spesso occupato dai filosofi che si ritrovano a essere “filosofi-sociologi”. Questo è favorito dal fatto che i filosofi-sociologi pongono il discorso senza alcuna preoccupazione di ordine empirico e si concentrano sul piano interpretativo, del quale vi è un enorme bisogno nella società attuale.
L’assunto del fondamento empirico, invece, nella riflessione sociologica viene preso come discriminante fondamentale, ma in realtà esso è solo un modo di fare sociologia.
Altri fattori che hanno determinato una debolezza della disciplina nel dibattito pubblico sono legati ai metodi di selezione degli studenti, metodi scadenti per riflesso dei problemi fin qui citati. Infine, ci sono state alcune figure pubbliche in Italia d’indubbio valore scientifico che però hanno determinato dei grossi danni all’immagine pubblica della disciplina.

Come lei diceva poc’anzi, nel mondo attuale c’è un gran bisogno d’interpretazione. Insomma è necessario uscire dalla crisi per non fare in modo che vi sia un gran bisogno di sociologia, ma a mancare sia proprio la sociologia?

La disciplina sociologica è preziosa ed è ancora più preziosa in un’epoca dove c’è bisogno sia sul piano interpretativo sia su quello delle competenze tecniche del suo sapere e delle conoscenze che la caratterizzano. La sociologia, infatti, è proprio uno di quegli strumenti che permettono di comprendere e plasmare i fenomeni che ci stanno attorno e che spesso percepiamo come destino.

A cura di Manuel Antonini

Il testo dell'intervista rilasciata il 12/02/2008 non è stato riveduto dal prof.re Magatti.