Recentemente in visita nel paese delle mille colline, Louise Harbor. Segretario dell'Alto commissariato per i diritti umani, ha espresso piena soddisfazione per l'iniziativa del governo rwandese di abolire dal loro diritto nazionale la pena di morte. Secondo l'alta carica dell'agenzia Onu, il tentativo è ancora più importante almeno per due considerazioni: da una parte, il Rwanda intende anche firmare la Convenzione contro la tortura (CAT) del 1984, in modo che il rispetto dei diritti dei prigionieri passi attraverso una detenzione non degradante; in secondo luogo, l'intenzione di abolire la pena di morte come metodo di giustizia è espressa da un paese che è ancora profondamente segnato dalle ferite dei massacri del 1994 ed è impegnato a rendere giustizia a tute le vittime del genocidio.

Molte organizzazioni dei rifugiati e delle vittime si sono opposte all'iniziativa, sottolineando come l'abolizione della pena di morte sarebbe la via per privare tutti i parenti dei morti della possibilità di vedere finalmente espiate le colpe dei genocidari. Secondo molti sopravvissuti, la pena capitale sarebbe infatti uno strumento necessario per sradicare la cultura di impunità che da sempre ha segnato il Rwanda. Tuttavia, il paese ha diversi interessi a proseguire lungo l'iter legislativo.
In primis il numero dei condannati. Ad oggi infatti, sono almeno 650 i colpevolii che aspettano nel braccio della morte. Un numero impressionante che va a sommarsi alle esecuzioni inflitte negli anni seguiti al genocidio (22 nel 1997, 40 nel 2002 e 18 nel 2003).

Ma ciò che spinge il governo di Paul Kagame e il ministro alla giustizia M. T. Karugarama non è solo una questione di urgenza umanitaria e di numeri, ma anche e soprattutto considerazioni rivolte all'ordine sociale e al sistema di diritto internazionale.

In primis, l'abolizione si iscrive all'interno di quella politica di riconciliazione che il partito al potere, il Fronte Patriottico Rwandese (FPR), ha posto fin dalla fine del genocidio come pilastro fondamentale per ricostruire un tessuto sociale profondamente lacerato dall'esplosione di odio razziale che aveva scatenato i massacri. Politica che nel 2003 è stata ufficialmente riconosciuta nella nuova Costituzione da parte del Parlamento rwandese.

In secondo luogo, l'abolizione è un passaggio necessario per assicurare il trasferimento dei poteri dalla giurisdizione internazionale alla giurisdizione nazionale rwandese dei casi ancora pendenti presso il Tribunale penale internazionale per il Rwanda che ha sede ad Arusha (Tanzania). Il mandato del TPIR (che fino ad oggi ha comminato 28 condanne e 5 assoluzioni), infatti, scadrà al termine del 2008: per quella data il diritto rwandese dovrà essersi necessariamente allineato alle norme del sistema di diritto internazionale se vuole vedere accettata la sua richiesta di trasferimento dei dossier di genocidari in mano all'organo internazionale. E l'interesse è alto: all'interno dei casi da esaminare vi sono le responsabilità francesi, sulle quali i governi di Francia e Rwanda sono profondamente divisi, tanto da essersi interrotti i rapporti diplomatici dei due paesi.

A spingere maggiormanete verso l'abolizione della pena capitale sembrano essere queste ultime motivazioni e alcuni sostengono che, infatti, tale abolizione non prevederà l'intera gamma dei reati capitali, ma solamente quelli inerenti al genocidio.

Oltre al rifiuto delle associazioni dei sopravvisuuti, altri ostacoli si pongono sull percorso verso la cancellazione della pena di morte dal diritto rwandese, che non si prospetta così semplice e veloce.

Alle questioni sopra citate si aggiunge, infatti, la preoccupazione del sovraffollamento delle carceri e dei casi ancora pendenti. La giurisdizione nazionale deve ancora far fronte a centinaia di migliaia di processi che, in caso di condanna, metterebbero in crisi il già esausto sistema detentivo del paese. Senza considerare che attualmente le condizioni di molti prigionieri sono già precarie per via dell'alto tasso di infezione da HIV/AIDS. Molti sono gli appelli a riguardo delle organizzazioni internazionali e non governative.

Il governo centrale ha cercato negli anni di risolvere parte di questi problemi affidando il giudizio di coloro che parteciparono marginalmente al genocidio ai tribunali locali tradizionali, i gacaca: una sorta di processi pubblici dove viene chiesto ai colpevoli una confessione dei reati per potere essere reintegrati nuovamente nella comunità a fronte di pene leggere.

Louise Harbor ha espresso compiacimento per l'originalità della soluzione, in quanto partecipa l'intero villaggio e nella gran parte dei casi non sono previste pene detentive. L'esperienza dei gacaca si iscrive quindi come modo riuscito di integrare la tradizione all'interno del diritto internazionale, affidando ai tribunali locali tutti quei casi nei quali i colpevoli non si sono macchiati di violenze estreme.

I gacaca, nondimeno, possono essere solo un sostegno valido e non la soluzione di problemi più profondi legati alla natura delle sfide che il Rwanda ha di fronte. Mai come in questo caso, infatti, il paese e il suo sitema normativo si trovano ad affrontare questioni legate ad un duplice compito: da una parte, rendere giustizia e, dall'altra, ricomporre un tessuto sociale profondamente lacerato che lentamente va ricostruendosi attraverso parole d'ordine quali riconciliazione e solidarietà (non a caso il governo ha istituito subito dopo la fine della guerra l'umuganda, ossia una giornata – ogni ultimo sabato del mese – dedicata al lavoro comunitario al quale tutta la popolazione è invitata a partecipare).
Un compito difficile non ancora completato a tredici anni di distanza, eppure necessario per mettersi alle spalle il genocidio senza dimenticarlo o lasciando impuniti gli autori dei massacri.


di Manuel Antonini