Il fordismo, sistema produttivo egemone dagli anni Venti del Novecento, prendeva il nome da Henry Ford, padrone dell'omonima casa automobilistica americana.
Esso era basato sul principio del liberalismo economico, che rese possibile già anni addietro, la nascita del sistema di mercato e dell'impresa industriale in cui l'impiego delle risorse ha come fine ultimo il profitto.
Per ottenere il massimo profitto occorreva razionalizzare la produzione e il lavoro. Ciò fu possibile grazie allo Scientific management ( l'organizzazione scientifica del lavoro ), con il quale Frederick Winslow Taylor riteneva possibile individuare il modo migliore per eseguire ogni singola operazione lavorativa, ossia l'"one best way".
La scienza moderna venne applicata al processo di produzione creando il sistema di fabbrica basato sulla meccanizzazione. L'operaio della catena di montaggio svolgeva mansioni ripetitive e formalizzate, con precisi tempi di esecuzione.
L'impresa moderna aveva creato nuove classi sociali basate sulla proprietà privata: all'imprenditore possessore del capitale si contrapponeva il lavoratore detentore della propria forza lavoro. Ma nel fordismo il lavoratore è anche consumatore. Questo fu l'elemento che permise la nascita della produzione di massa che, se da un lato dava l'opportunità a molti di acquistare beni di vario genere, dall'altro era il modo in cui l'imprenditore poteva "riempire il mercato dei prodotti". Fu proprio quello che fece Ford regalando ai suoi operai un sogno, che egli stesso rese realistico: un'automobile standardizzata a basso prezzo. Grazie al progresso tecnico, l'impresa poteva produrre alti volumi di beni standardizzati, beneficiando delle economie di scala.
Produrre non bastava, bisognava vendere ad ogni costo. Il consumo venne stimolato attraverso messaggi pubblicitari che dovevano influire sulle abitudini dei consumatori.
La produttività del lavoro raggiunta con il taylor-fordismo e la produzione di massa aveva offerto a tante famiglie beni durevoli e non ed aveva innalzato nettamente i redditi.

Ma questo modello, che raggiunse il culmine del successo negli anni Sessanta, era destinato a declinare.
Innanzitutto nell'impresa, l'intensificazione del lavoro portò all'alienazione del lavoratore. In secondo luogo l'elevato volume di capitale investito negli impianti rendeva sempre più penalizzanti i cali di produttività, con la conseguenza di diminuire il tasso di profitto. Inoltre non sempre era facile reperire personale qualificato che sapesse gestire le nuove tecnologie.
A livello sociale vi fu il cambiamento della logica del consumo: i beni durevoli erano ormai posseduti dalla maggior parte della popolazione.
Ciò ebbe importanti conseguenze a livello macroeconomico: il mercato era saturo e doveva cercare sbocchi alternativi. La soluzione si trovò nella globalizzazione dei mercati, che offriva l'opportunità all'impresa di competere oltre il territorio nazionale.
Anche il fenomeno della terziarizzazione è stato assunto, già dagli anni Sessanta, come elemento di cambiamento del paradigma economico. Esso sposta la produzione verso le attività di servizio ed ha effetti sulla composizione dei mercati del lavoro, assunti come indicatori del passaggio a un diverso modello economico e sociale definito post-industriale. Il processo di terziarizzazione ha due aspetti: l'aumento di coloro che, nelle imprese sono impegnati in attività non direttamente produttive, e il crescente peso del settore dei servizi, destinati alle imprese come alle persone, nell'economia.
Inoltre le crisi petrolifere degli anni Settanta fecero emergere il problema della dipendenza del sistema produttivo da questa fonte, ponendo con forza l'esigenza di un'innovazione tecnologica capace di garantire un minor consumo energetico.
In questo quadro, le politiche statali non regolavano più il mercato, dando il via a deregolamentazioni. Lo stato sociale veniva smantellato affermando il primato del mercato.

Sara Di Paolo

Articolo tratto dalla tesi Società della conoscenza e mercato del lavoro