Come è ampiamente noto l'economia è nata come scienza della "pubblica felicità". In particolare, gli italiani Antonio Genovesi e Pietro Verri sono stati i primi a considerare le relazioni personali un bene in sé e ad indicare nella partecipazione alla vita civile la fonte della pubblica felicità. Poi l'eclissi. Il pensiero neoclassico ha oscurato la felicità: l'economia diventa la scienza che studia il mercato come luogo in cui individui razionali si scambiano beni e servizi per soddisfare preferenze esclusivamente soggettive. Le relazioni personali diventano puramente strumentali: servono a procurarsi cioè altri beni e servizi, non sono un bene in sé. Le scelte economiche sono guidate esclusivamente dall'auto-interesse. Il paradigma interpretativo dell'homo oeconomicus porta i diversi soggetti ad adottare comportamenti ottimizzanti. Il tutto rende l'economia una scienza "chiusa" che non ha bisogno di alcun completamento proveniente dal suo esterno.
Oggi, però, dopo circa due secoli di oblio, la felicità è tornata a splendere nel cielo dell'economia. L'elemento scatenante questa nuova stagione di studi economici è stato il tentativo di "misurare" la felicità ma soprattutto di mettere quest'ultima in rapporto alle tradizionali variabili economiche.
Nello specifico, gli studi sul tema riprendono nel 1974, anno in cui l'economista e demografo Easterlin scopre - sulla base di uno studio condotto nel decennio precedente dallo psicologo sociale Cantril - che aumenti di reddito, sia a livello individuale che nazionale, non sono accompagnati da un incremento del benessere soggettivo o meglio della felicità. L'originalità del lavoro di Easterlin consiste nell'aver messo in crisi un'ipotesi che, fino a quel momento, sottostava alle analisi degli economisti. Si tratta dell'idea secondo la quale l'aumento della ricchezza, o del benessere economico, anche se non è sempre in grado di determinare un proporzionale aumento di felicità, non porta comunque ad una diminuzione di quest'ultima. Ecco perché i risultati cui giunge Easterlin sono risultati paradossali, da qui la diffusa espressione di "Easterlin Paradox" o "Paradosso della felicità", intendendo per tale l'inesistente o molto piccola correlazione tra reddito e benessere delle persone, o tra benessere economico e benessere generale.

Più nel dettaglio, i risultati dell'indagine condotta da Easterlin (1974) possono essere sintetizzati in tre punti:
1. All'interno di un singolo paese e in un dato momento la correlazione tra reddito e felicità non è sempre significativa e robusta, cioè le persone più ricche non risultano essere sempre le più felici;
2. il confronto tra paesi non mostra correlazione significativa tra reddito e felicità;
3. nel corso del ciclo di vita la felicità delle persone sembra dipendere molto poco dalle variazioni di reddito e di ricchezza.
Da qui gli economisti hanno iniziato ad interrogarsi più approfonditamente su che cosa rende le persone "felici", intraprendendo così la strada del superamento della concezione "ristretta" di benessere che, per troppo tempo, ha identificato quest'ultimo con la sola crescita del prodotto nazionale lordo o con l'aumento dei redditi individuali. Come può, infatti, essere considerato il PIL un "buon indicatore" del livello di benessere raggiunto in un Paese? Con esso, come sostiene Becchetti

"(…) si coglie soltanto l'aspetto della crescita economica della popolazione, e non è in grado di catturare le dimensioni della sua sostenibilità sociale e ambientale, nonché molti dei fattori che aumentano la felicità individuale" (Becchetti, 2007, Il denaro fa la felicità, Laterza, Roma-Bari).

A questo proposito interessante è l'indagine realizzata da Becchetti, Londono e Trovato nel 2006 in cui si dimostra che Paesi come Tanzania e Nigeria, per fare degli esempi, rientrano di certo nella lista dei paesi "poveri", se si utilizza il reddito pro capite (inferiore a 2$ al giorno), come indicatore del benessere economico ma non per questo vanno considerati meno felici; se si ricorre, infatti, all'indicatore della felicità dichiarata per misurare il livello di benessere soggettivo è evidente che sia in Nigeria che in Tanzania la popolazione risulta essere più felice rispetto a quella dei Paesi classificati "ricchi" come Francia, Germania e Italia.

Le spiegazioni del legame inverso tra ricchezza e felicità proposte dagli studiosi, nel corso dei decenni, sono state molteplici. In particolare, occorre porre l'accento:
- sulla teoria del treadmill dello stesso Easterlin (1974). L'argomentazione di base è che l'aumento di reddito non è sempre accompagnato da un aumento della soddisfazione, esattamente come un tappeto rullante, dove si corre ma si è sempre al medesimo punto. Ciò può essere dovuto sia al fatto che l'incremento di reddito spinge verso l'alto anche il livello delle aspirazioni (satisfaction treadmill) sia al fatto che il livello di benessere soggettivo dopo un miglioramento temporaneo, dovuto appunto all'aumento di reddito, ritorna rapidamente al livello precedente (hedonic treadmill);
- sulla teoria del reddito relativo di Frank (1999). L'argomentazione di base è che le persone non si sentono tanto soddisfatte per il livello assoluto dei beni di consumo che possono acquistare, quanto per il livello relativo al proprio gruppo di riferimento. Detto in altri termini, solo quando il livello dei consumi individuale aumenta relativamente più di quello degli altri con i quali ci si confronta aumenta il benessere soggettivo (positional treadmill);
- sulla teoria relazionale della felicità degli economisti italiani, Gui (2002), Bruni e Zamagni (2004). Questa teoria cerca di dar conto delle dinamiche della felicità in un approccio vicino a quello classico-aristotelico, dove la eudaimonia, è molto legata alla relazioni interpersonali genuine. La teoria in esame fa leva sul concetto di "bene relazionale" che costituisce il cuore del paradigma relazionale.

Melania Verde
Articolo tratto dalla tesi Economia sociale, beni relazionali e felicità