Il fenomeno del ridere, da solo e nello stesso istante, abbraccia ed attiva tutte le sfere di cui l'essere umano è composto: quella emotiva, mentale, corporea e spirituale. "E' un'attività che nell'offrire piacere travolge meccanismi mentali, sblocca sistemi neurovegetativi, offre sponde al cognitivo, lubrifica la relazione sociale, diviene sistema pedagogico, fa scintillare la vita che è in noi".1
Possiamo, quindi, affermare che il ridere può servire a più di una funzione: può agire come strumento comunicativo, così come fornire un legame emotivo.

Analizzando l'efficacia del ridere in ambito pedagogico, ritengo opportuno trascrivere le parole di Cropley: "Nella nostra cultura e nella nostra scuola gioco e lavoro sono nettamente separati. Il lavoro è severo ed esigente, il gioco è frivolo o leggero, e le due cose non combaciano mai. In tal modo il ragazzo è portato a pensare che il libero uso dell'immaginazione, ai limiti della logica e del buon senso, l'umorismo e l'arguzia non appartengano alla parte seria della scuola".2 In effetti, non è scontato che ogni spiritosaggine sia segno di reale umorismo in senso creativo, ma può anche essere provocatoria, fatta al solo scopo di disturbare, motivata da atteggiamenti emozionali di ricerca dell'attenzione dell'insegnante.
"L'insegnante che non sia sensibile alle manifestazioni umoristiche, ma persino ad esse ostile, può interpretare come elemento di semplice disturbo ogni manifestazione comico-creativa. E tutto ciò è spesso causa ed effetto della svalutazione educativa dell'umorismo, dato che ad una migliore sua utilizzazione dovrebbero essere stati educati sia gli insegnanti sia i giovani".3
Il riso in ambito educativo è prevalentemente utilizzato come semplice e utile strumento per stabilire rapporti di simpatia e collaborazione e per allentare la tensione in casi difficili.
Nelle relazioni educative è fondamentale assumere un atteggiamento scherzoso: il miglior biglietto da visita per un educatore è sicuramente un sorriso aperto, spontaneo e sincero. Dare il via ad una relazione educativa trasmettendo dal principio serenità e positività è un importante presupposto per ottenere fiducia e collaborazione e per far nascere una comunicazione profonda. Un'atmosfera serena ed accogliente mette sicuramente a proprio agio i protagonisti della relazione, facendo sì che questa divenga più intensa.
Tutto questo è ampiamente descritto in un interessante studio degli anni Settanta, che si occupa dello stretto rapporto tra comico, creatività ed educazione: "L'educatore cauto non entra da padrone, né adopera il riso dell'iconoclasta; egli sa far sentire al fanciullo nella sua simpatia che prima di ogni altro lo stesso fanciullo è giudice e superatore di se stesso e lo conforta e lo sospinge".4

Sono tre i momenti fondamentali nei quali la comicità acquista valore per l'educatore: il primo momento è la conoscenza del fanciullo; il contatto umano dell'educatore con gli allievi è il mezzo migliore per porre in luce tutti gli elementi delle personalità infantili, utili all'opera educativa. Non ci si conosce se non si opera insieme per un interesse comune e, allo stesso tempo, non si può operare insieme efficacemente se non conoscendosi sempre meglio. E la comicità permette proprio questo.
Il secondo momento è la costituzione del rapporto educativo stesso, soprattutto quando i soggetti sono ancora immaturi, quindi suscettibili di reazioni di tipo negativo, piuttosto che positivo. In questo momento, il riso è importante soprattutto per il suo valore sociale, perché è un fattore che accomuna, che unisce il gruppo. Il terzo e ultimo momento è quello relativo allo sviluppo della personalità del fanciullo. Quest'ultimo ha un suo senso del comico, che costituisce un pilastro fondamentale per la sua ulteriore formazione.
L'educatore deve dare al riso, alla comicità, una reale importanza perché, attraverso il rapporto stabilito dalla condivisione del riso, si può lavorare bene e crescere insieme.
E' importante che l'educatore adotti il cosiddetto pensiero positivo: occorre sempre sforzarsi di pensare positivo, di vedere e sottolineare gli aspetti positivi delle varie situazioni e, quindi, immaginare e progettare, con caparbietà, un futuro migliore, magari una speranza o soltanto un sogno che, prima o poi, si potrà concretizzare.
Pensare positivo significa operare contro la noia, anche attraverso la ricerca tenace di novità utili a far emergere interessi nuovi e più appaganti. Il pensiero positivo prevede anche la necessità e la capacità di adattarsi alle varie situazioni, ai cambiamenti e alle persone nuove: il camaleontismo è, almeno per certi versi, una virtù che rifugge dal facile e improduttivo ribellismo.

Appare chiaro il rapporto tra gioia e salute sul piano educativo. L'educazione alla salute bisogna proporsela quotidianamente: la salute è una conquista che si realizza giorno per giorno. Ma anche l'educazione alla gioia occorre tenacemente accettarla, volerla e programmarla. L'educazione, come d'altra parte l'esistenza, può essere gioiosa o meno: dipende dall'entusiasmo, dalla partecipazione giocosa, dall'autenticità con cui soprattutto gli educatori affrontano il rapporto educativo.
Educare significa alimentare, nutrire, caricare d'entusiasmo, comunicare il desiderio di vivere anche per realizzare un obiettivo importante: la formazione di una persona serena, disponibile, aperta, equilibrata e automotivata. L'educazione tende in tal modo a ricaricare continuamente la vita, a rinfrescare l'esistenza con i valori fondamentali della gioia e della salute.
Spesso, invece, l'educazione non carica ma frustra, è uggiosa e demotivante, grigia e rigoristica, materiata di divieti e di rimproveri: essa rappresenta, talvolta, l'espropriazione della gioia, che è poi espropriazione della salute, avendo gioia e salute un rapporto indivisibile.

Note bibliografiche
1 S. Fioravanti, L. Spina, Anime con il naso rosso. Clown Dottori: conquiste e prospettive della gelotologia, Armando, Roma 2006, p. 36.
2 A. J. Cropley, La creatività, trad. it. di E. Becchi, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 54.
3 Ibidem, p. 108.
4 29 L. Volpicelli, Il fanciullo che ride, La Scuola, Brescia 1957, p. 22.

Alessia Pellegrini
Articolo tratto dalla tesi La comunicazione nella clownterapia: aspetti pedagogici e interventi educativi